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GIOVANNI PAOLO ii: AUGUSTINUM HIPPONIENSEM

Immagine di papa Pio XI

Città del Vaticano, 3 maggio 1986:

Papa Giovani Paolo II riceve in udienza privata l'Associazione S. Agostino

 

 

 

Lettera apostolica Augustinum hipponiensem

di papa Giovanni Paolo II

 

 

 

Prefazione

Agostino di Ippona, da quando appena un anno dopo la morte, fu annoverato dal mio lontano predecessore Celestino I tra i «maestri migliori della chiesa», ha continuato ad essere presente, nella vita della chiesa e nella mente e nella cultura di tutto l'Occidente. Altri pontefici romani poi, per non parlare dei Concili che hanno attinto spesso e in abbondanza ai suoi scritti, ne hanno proposto gli esempi e i documenti di dottrina affinch é fossero studiati e imitati. Leone XIII ne esaltò gli insegnamenti filosofici nella «Aeterni Patris»; Pio XI ne riassunse le virtù e il pensiero nell'enciclica «Ad salutem humani generis», dichiarando che, per l'ingegno acutissimo, per la ricchezza e sublimità della dottrina, per la santità della vita e per la difesa della verità cattolica, nessuno o certo pochissimi gli si possono paragonare di quanti sono fioriti dall'inizio del genere umano fino ad oggi; Paolo VI affermò che «in realtà, oltre a rifulgere in lui in grado eminente le qualità dei Padri, si può dire che tutto il pensiero dell'antichità confluisca nella sua opera e da essa derivino correnti di pensiero che pervadono tutta la tradizione dottrinale dei secoli successivi». Io stesso ho aggiunto la mia voce a quella dei miei predecessori esprimendo il vivo desiderio che «la sua dottrina filosofica, teologica, spirituale sia studiata e diffusa, sicché egli continui... il suo magistero nella chiesa, un magistero, aggiungevo, umile insieme e luminoso che parla soprattutto di Cristo e dell'amore». Ho avuto altresì occasione di raccomandare in modo particolare ai figli spirituali del grande santo di «mantenere vivo e attraente il fascino di sant'Agostino anche nella società moderna», ideale stupendo ed entusiasmante, perché «la conoscenza esatta e affettuosa della sua vita suscita la sete di Dio, il fascino di Cristo, l'amore alla sapienza e alla verità, il bisogno della grazia, della preghiera, della virtù, della carità fraterna, l'anelito dell'eternità beata». Sono lieto pertanto che la felice circostanza del XVI centenario della sua conversione e del suo battesimo mi offra l'opportunità di rievocarne la luminosa figura. Sarà questa rievocazione allo stesso tempo un ringraziamento a Dio per il dono fatto alla chiesa, e per essa all'umanità intera, con quella mirabile conversione; sarà un'occasione propizia per ricordare che il convertito, divenuto vescovo, fu un modello fulgido di pastore, un difensore intrepido della fede ortodossa o, come egli diceva, della «verginità» della fede, un costruttore geniale di quella filosofia che per l'armonia con la fede si può ben chiamare cristiana, un promotore indefesso della perfezione spirituale e religiosa.

 

La conversione

Conosciamo il cammino della sua conversione dalle sue stesse opere, quelle cioè che egli scrisse nella solitudine di Cassiciaco prima del battesimo e soprattutto dalle celebri «Confessioni», un'opera che è insieme autobiografia, filosofia, teologia, mistica e poesia, in cui uomini sitibondi di verità e consapevoli dei propri limiti, hanno ritrovato e ritrovano se stessi. Già a suo tempo l'autore la considerava tra le sue opere più conosciute. «Quale delle mie opere», scrive verso la fine della vita, «poté avere più vasta notorietà e riuscire più dilettevole dei libri delle mie Confessioni?». Questo giudizio la storia non l'ha mai smentito, anzi lo ha confermato ampiamente. Anche oggi le «Confessioni» di sant'Agostino sono molto lette e, ricche qual sono d'introspezione e di passione religiosa, operano in profondità, scuotono e commuovono. E non solo i credenti. Anche chi non ha la fede, ma va cercando una certezza almeno che gli permetta di capire se stesso, le sue aspirazioni profonde, i suoi tormenti, trova vantaggioso leggere quest'opera. La conversione di sant'Agostino, dominata dal bisogno di trovare la verità, ha molto da insegnare agli uomini d'oggi così spesso smarriti di fronte al grande problema della vita. Si sa che questa conversione ebbe un cammino del tutto singolare, perché non si trattò di una conquista della fede cattolica, ma di una riconquista. Egli l'aveva perduta, convinto, nel perderla, di non abbandonare Cristo, bensì solo la Chiesa. Infatti era stato educato cristianamente da sua madre, la pia e santa Monica. In forza di quest'educazione Agostino restò sempre non solo un credente in Dio, nella provvidenza e nella vita futura, ma anche un credente in Cristo, il cui nome «aveva bevuto», come egli dice, «con il latte materno». Tornato alla fede della Chiesa cattolica, egli dirà di essere tornato alla religione «che mi era stata instillata da bambino e fatta entrare fin nelle midolla». Chi vuol capire la sua evoluzione interiore e un aspetto, forse il più profondo, della sua personalità e del suo pensiero, deve partire da questa constatazione. Svegliatosi a 19 anni all'amore della sapienza con la lettura dell'«Ortensio» di Cicerone - «Quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire... e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore» - amò profondamente e cercò sempre con tutte le fibre dell'anima la verità. «O Verità, Verità, come già allora e dalle intime fibre del mio cuore sospiravo verso di te!». Nonostante questo amore alla verità, Agostino cadde in gravi errori. Gli studiosi ne cercano le cause e le trovano in tre direzioni: nell'errata impostazione delle relazioni tra la ragione e la fede quasi che si dovesse scegliere tra l'una e l'altra; nel supposto contrasto tra Cristo e la Chiesa con la conseguente persuasione che occorresse abbandonare la Chiesa per aderire più pienamente a Cristo; nel desiderio di liberarsi dalla coscienza del peccato non attraverso la sua remissione per opera della grazia ma attraverso la negazione della responsabilità umana nel peccato stesso. Il primo errore consisteva dunque in un certo spirito razionalista per cui si persuase «di dover seguire non coloro che comandano di credere, ma coloro che insegnano la verità».

Con questo spirito lesse le sacre Scritture e si sentì respinto dai misteri che esse contengono, misteri che occorre accettare con umile fede. Parlando poi al suo popolo di questo momento della vita egli disse: «Io che vi parlo fui ingannato un tempo, quando da giovane mi avvicinai per la prima volta alle sacre Scritture. Mi avvicinai non con la pietà di chi cerca umilmente, ma con la presunzione di chi vuol discutere... Misero me, che mi credei idoneo al volo, abbandonai il nido e caddi prima di poter volare!». Fu allora che s'imbatté nei manichei, li ascoltò, li seguì. Ragione principale: la promessa «di mettere da parte la terribile autorità e di condurre a Dio e liberare dagli errori i propri discepoli con la pura e semplice ragione». E tale appunto, si mostrava Agostino, «desideroso di tenere e assorbire la verità autentica e senza veli» con la forza della sola ragione. Accortosi dopo lunghi anni di studi, particolarmente di studi filosofici, di essere stato ingannato, ma, per effetto della propaganda manichea, sempre convinto che nella Chiesa cattolica la verità non ci fosse, cadde in un profondo scoramento e disperò affatto di poter trovare la verità: «gli accademici tennero a lungo il timone della mia nave in mezzo ai flutti».

Da questo pericoloso atteggiamento lo sollevò lo stesso amore per la verità che albergava sempre nel suo animo. Si convinse che non è possibile che alla mente umana sia chiusa la via della verità; se non la trova, è perché ignora e disprezza il metodo per cercarla. Confortato da questa convinzione egli disse a se stesso: «Ma no, cerchiamo con maggior diligenza anziché disperare»; continuò quindi a cercare, e questa volta, guidato dalla grazia divina che la madre implorava con preghiere e lacrime, raggiunse il porto. Comprese che ragione e fede sono due forze destinate a cooperare insieme per condurre l'uomo alla conoscenza della verità, che ognuna di esse ha un suo primato: temporale la fede, assoluto la ragione - «per importanza viene prima la ragione, in ordine di tempo l'autorità (della fede)» -. Comprese che la fede per essere sicura richiede un'autorità divina, che questa autorità non è altro che quella di Cristo, sommo maestro - di questo Agostino non aveva mai dubitato -, che l'autorità di Cristo si ritrova nelle sacre Scritture, garantite dall'autorità della Chiesa cattolica. Con l'aiuto dei filosofi platonici si liberò dalla concezione materialistica dell'essere che aveva assorbito dal manicheismo: «Ammonito da quegli scritti a tornare in me stesso, entrai nell'intimo del mio cuore sotto la tua guida... Vi entrai e scorsi con l'occhio della mia anima ... sopra la mia intelligenza, una luce immutabile». Fu questa luce immutabile che gli aprì gli immensi orizzonti dello spirito e di Dio. Capì che intorno alla grave questione del male, che costituiva il suo grande tormento, la prima domanda da porsi non era da dove esso abbia origine, ma che cosa sia, e intuì che il male non è una sostanza ma una privazione di bene: «Tutto ciò che esiste è bene, e il male di cui cercavo l'origine, non è una sostanza». Dio dunque, ne concluse, è il creatore di tutte le cose e non esiste nessuna sostanza che non sia stata creata da lui. Capì altresì, riferendosi alla sua esperienza personale - e questa fu la scoperta più decisiva - che il peccato ha origine dalla volontà dell'uomo, una volontà libera e defettibile: «ero io a volere, io a non volere, io, io ero». A questo punto poteva dirsi arrivato, invece non lo era ancora; le insidie di un nuovo errore lo avvolsero. Fu la presunzione di poter arrivare al possesso beatificante della verità con le sole sue forze naturali.

Un'esperienza personale fallita lo dissuase. Comprese allora che altro è conoscere la meta, altro arrivarci. Per trovare la forza e la via necessarie, «mi buttai con la massima avidità», scrive egli stesso, «sulla venerabile Scrittura del tuo Spirito, e prima di tutto sull'apostolo Paolo». Nelle lettere di Paolo scoperse Cristo maestro, come sempre lo aveva venerato, ma anche Cristo redentore, Verbo incarnato, unico mediatore tra Dio e gli uomini. Allora gli apparve in tutto il suo splendore «il volto della filosofia»: era la filosofia di Paolo che ha per centro Cristo, «potenza e sapienza di Dio» (1Cor 1,24), e che ha altri centri: la fede, l'umiltà, la grazia; quella «filosofia» che è insieme sapienza e grazia, per cui diventa possibile non solo conoscere la patria ma anche raggiungerla. Ritrovato Cristo redentore e afferratosi a lui, Agostino era tornato al porto della fede cattolica, alla fede in cui era stato educato da sua madre: «Avevo udito parlare sin da fanciullo della vita eterna, che ci fu promessa mediante l'umiltà del Signore Dio nostro, sceso fino alla nostra superbia». L'amore per la verità, sostenuto dalla grazia divina, aveva trionfato di tutti gli errori. Sennonché il cammino non era ancora concluso. Nell'animo di Agostino rinasceva un antico proposito, quello di consacrarsi totalmente alla sapienza una volta che l'avesse trovata, di abbandonare cioè, per possederla, ogni terrena speranza. Ora egli non poteva portare più scuse: la verità tanto bramata era ormai certa. Eppure esitava, cercando ragioni per non decidersi a farlo. I vincoli che lo legavano alle speranze terrene erano forti: gli onori, i guadagni, le nozze; specialmente, date le abitudini contratte, le nozze. Non già che gli fosse proibito sposarsi - Agostino questo lo sapeva bene - ma non voleva essere cristiano cattolico se non in questo modo: rinunciando anche all'ideale vagheggiato della famiglia e dedicandosi con «tutta» l'anima all'amore e al possesso della sapienza. A prendere questa decisione, che corrispondeva alle sue aspirazioni più profonde ma contrastava con le abitudini più radicate, lo stimolava l'esempio di Antonio e dei monaci che si andavano diffondendo anche in Occidente, di cui venne fortuitamente a conoscenza. Egli si chiedeva con grande vergogna: «Non potrai fare anche tu ciò che fecero questi giovani, queste donne?». Ne nacque un dramma interiore, profondo e lacerante, che la grazia divina condusse a buon fine. Ecco come Agostino narra a sua madre la serena e forte decisione: «Ci rechiamo da mia madre e le riveliamo la decisione presa: ne gioisce; le raccontiamo lo svolgimento dei fatti: esulta e trionfa. E cominciò a benedirti perché puoi fare più di quanto chiediamo e comprendiamo (Ef 3,20). Vedeva che le avevi concesso a mio riguardo molto più di quanto ti aveva chiesto con tutti i suoi gemiti e le sue lacrime pietose. Infatti mi rivolgesti a te così appieno, che non cercavo più né moglie né avanzamenti in questo secolo». Da quel momento incominciava per Agostino una vita nuova: terminò l'anno scolastico - le vacanze della vendemmia erano vicine -, si ritirò nella solitudine di Cassiciaco; al termine delle vacanze rinunciò all'insegnamento, tornò a Milano agli inizi del 387, s'iscrisse tra i catecumeni, e nella notte del sabato santo - 23/24 aprile - fu battezzato dal vescovo Ambrogio dalla cui predicazione aveva tanto imparato.

«E fummo battezzati, e si dileguò da noi l'inquietudine della vita passata. In quei giorni non mi saziavo di considerare con mirabile dolcezza i tuoi profondi disegni sulla salute del genere umano». E aggiunge manifestando l'intima commozione dell'animo: «Quante lacrime versai ascoltando gli accenti dei tuoi inni e cantici, che risuonavano dolcemente nella tua Chiesa». Dopo il battesimo l'unico desiderio di Agostino fu quello di trovare un luogo adatto dove poter vivere insieme con i suoi amici secondo il «santo proposito» di servire il Signore. Lo trovò in Africa, a Tagaste, suo paese natale, dove giunse dopo la morte della madre a Ostia Tiberina e la permanenza di alcuni mesi a Roma per studiare il movimento monastico. Giunto a Tagaste, «rinunciò ai suoi beni e, insieme con quelli che erano uniti a lui, viveva per Dio nei digiuni, nelle preghiere, nelle buone opere, meditando giorno e notte la legge del Signore». L'appassionato amante della verità voleva dedicare la sua vita all'ascetismo, alla contemplazione, all'apostolato intellettuale. Il primo biografo aggiunge infatti: «E delle verità che Dio rivelava alla sua intelligenza faceva parte ai presenti e agli assenti, ammaestrandoli con discorsi e con libri». A Tagaste scrisse libri e libri, come aveva fatto a Roma, a Milano, a Cassiciaco. Dopo tre anni scese a Ippona con l'intento di cercare un luogo dove fondare un monastero e d'incontrare un amico che sperava di guadagnare alla vita monastica, e trovò invece, suo malgrado, il sacerdozio. Ma non rinunciò al suo ideale: chiese e ottenne di fondare un monastero: il «monasterium laicorum», in cui visse, e da cui uscirono molti sacerdoti e molti vescovi per tutta l'Africa. Diventò, dopo cinque anni, vescovo, trasformò l'episcopio in monastero: il «monasterium clericorum». L'ideale concepito al momento della conversione non lo lasciò cadere mai, neppure da sacerdote e da vescovo. Scrisse anche una regola «ad servos Dei», che tanta parte ebbe e ha nella storia della vita religiosa occidentale.

 

Dottore della Chiesa

Mi sono intrattenuto un poco sui punti essenziali della conversione di Agostino, perché da essa vengono tanti utili insegnamenti non solo per i credenti ma anche per tutti gli uomini di buona volontà: come sia facile deviare nel cammino della vita e come sia difficile ritrovare la via della verità. Ma questa mirabile conversione ci aiuta inoltre a capire meglio la sua vita successiva di monaco, sacerdote, vescovo. Egli restò sempre il grande folgorato della grazia: «Ci avevi bersagliato il cuore con le frecce del tuo amore e portavamo le tue parole confitte nelle viscere». Soprattutto ci aiuta a penetrare più facilmente nel suo pensiero, che fu così universale e profondo da rendere a quello cristiano un servizio incomparabile e imperituro, tanto che possiamo chiamarlo, non senza fondamento, il padre comune dell'Europa cristiana. La molla segreta della sua insonne ricerca fu la stessa che l'aveva guidato lungo l'itinerario della conversione: l'amore per la verità. Infatti, dice egli stesso: «che cosa desidera l'uomo più fortemente che la verità?». In un'opera di alta speculazione teologica e mistica, scritta più per bisogno personale che per esigenze esterne, ricorda questo amore e scrive: «Ci sentiamo rapiti dall'amore di indagare la verità».

E questa volta l'oggetto dell'indagine era l'augusto mistero trinitario e il mistero di Cristo rivelazione del Padre, «scienza e sapienza» dell'uomo: nacque così la grande opera su «La Trinità». L'orientamento della ricerca, che l'amore incessante nutriva, ebbe due coordinate: l'approfondimento della fede cattolica e la sua difesa contro coloro che la negavano, come i manichei e i pagani, o ne davano interpretazioni errate, come i donatisti, i pelagiani, gli ariani. È difficile inoltrarsi nel mare del pensiero agostiniano, e tanto più difficile riassumerlo, se pur questo è davvero possibile. Mi si consenta però di ricordare, a comune edificazione, alcune luminose intuizioni di questo sommo pensatore.

1. Ragione e fede

Prima di tutto quelle riguardanti il problema che più lo attanagliò in gioventù e sul quale egli tornò con tutta la forza dell'ingegno e la passione dell'animo, quello riguardante le relazioni tra la ragione e la fede: un problema di sempre, di oggi non meno che di ieri, dalla cui soluzione dipende l'indirizzo del pensiero umano. Ma problema difficile, perché si tratta di passare incolumi tra un estremo e l'altro, tra il fideismo che disprezza la ragione e il razionalismo che esclude la fede. Lo sforzo intellettuale e pastorale di Agostino fu quello di mostrare, senza ombra di dubbio, che «le due forze che ci portano a conoscere» devono cooperare insieme. Egli ascoltò la fede, ma non esaltò meno la ragione, dando a ciascuna il suo primato, o di tempo o di importanza. Disse a tutti il «crede ut intelligas», ma ripeté anche l'«intellige ut credas». Scrisse un'opera, sempre attuale, sull'utilità della fede e spiegò che è la fede la medicina destinata a sanare l'occhio dello spirito, la fortezza inespugnabile per la difesa di tutti, particolarmente dei deboli, contro l'errore, il nido in cui si mettono le penne per gli alti voli dello spirito, la via breve che permette di conoscere presto, con sicurezza e senza errori, le verità che conducono l'uomo alla sapienza. Ma sostenne anche che la fede non è mai senza ragione, perché è la ragione che dimostra «a chi si debba credere». Pertanto «anche la fede ha i suoi occhi con i quali vede in qualche modo che è vero quello che ancora non vede».

«Nessuno dunque crede se prima non ha pensato di dover credere», poiché «credere altro non è che pensare con assenso ("cum assentione cogitare")...» tanto che «la fede che non sia pensata non è fede». Il discorso sugli occhi della fede sfocia in quello della credibilità, di cui Agostino parla spesso adducendone i motivi, quasi a confermare la consapevolezza con cui era tornato egli stesso alla fede cattolica. Giova riportare un testo. Scrive: «Molte sono le ragioni che mi trattengono in seno della Chiesa cattolica. A parte la sapienza dell'insegnamento (questo argomento, per Agostino fortissimo, non era ammesso dagli avversari)... mi trattiene il consenso dei popoli e delle genti; mi trattiene l'autorità fondata coi miracoli, nutrita con la speranza, aumentata con la carità, consolidata con l'antichità; mi trattiene la successione dei vescovi, della sede stessa dell'apostolo Pietro, a cui il Signore dopo la risurrezione diede a pascere le sue pecore, fino al presente episcopato; mi trattiene infine lo stesso nome di cattolica che non senza ragione solo questa Chiesa ha ottenuto».

Nella grande opera della «Città di Dio», che è insieme apologetica e dommatica, il problema ragione e fede diventa quello di fede e cultura. Agostino, che tanto operò per fondare e promuovere la cultura cristiana, lo risolve svolgendo tre grossi argomenti: l'esposizione fedele della dottrina cristiana; il ricupero attento della cultura pagana in ciò che aveva di ricuperabile, e che sul piano filosofico non era poco; la dimostrazione insistente della presenza nell'insegnamento cristiano di quanto di vero e di perennemente valido v'era in quella cultura, col vantaggio di trovarvisi perfezionato e sublimato. Non per nulla la «Città di Dio» fu molto letta nel medioevo; e merita molto di essere letta anche oggi come esempio e stimolo per approfondire l'incontro del cristianesimo con le culture dei popoli. Vale la pena di riportare un importante testo agostiniano: «La città celeste... convoca cittadini da tutte le nazioni non badando alla differenza dei costumi, delle leggi, delle istituzioni... non sopprime né distrugge alcuna di queste cose, anzi accetta e conserva tutto ciò che, sebbene diverso nelle diverse nazioni, tende a un solo e medesimo fine: la pace terrena, a condizione che non impediscano la religione che insegna ad adorare l'unico Dio, sommo e vero».

2. Dio e l'uomo

L'altro grande binomio che Agostino approfondì senza posa è Dio e l'uomo. Liberatosi, come ho detto sopra, dal materialismo che gli impediva di avere un'esatta nozione di Dio - e quindi la vera nozione dell'uomo -, fissò in questo binomio i grandi temi della sua ricerca e li studiò sempre insieme: l'uomo pensando a Dio, Dio pensando all'uomo, che ne è l'immagine. Nelle «Confessioni» si pone queste due domande: «Che cosa sei tu per me, Signore?», «e che cosa sono io per te...?». Per rispondere ad esse impiega tutte le risorse del suo pensiero e tutta l'insonne fatica del suo apostolato. Egli è pienamente convinto dell'ineffabilità di Dio, tanto da esclamare: «Che c'è di strano se non comprendi. Se comprendi non è Dio»; perciò «non è un piccolo inizio della conoscenza di Dio se, prima di sapere che cosa egli è, cominciamo a sapere che cosa egli non è». Occorre dunque cercar «di capire Dio, se possiamo, per quanto lo possiamo, buono senza qualità, grande senza quantità, creatore senza necessità», e così via per tutte le categorie del reale che Aristotele aveva descritte.

Nonostante la trascendenza e l'ineffabilità divina Agostino, partendo dall'autocoscienza dell'uomo che sa di essere, di conoscere e di amare, e confortato dalla Scrittura che ci rivela Dio come l'Essere supremo (Es 3,14), la somma Sapienza (Sap passim) e il primo amore (1Gv 4,8), illustra questa triplice nozione di Dio: essere da cui procede, per creazione dal nulla, ogni essere, verità che illumina la mente umana perché possa conoscere con certezza la verità, amore da cui procede e a cui tende ogni vero amore. Dio infatti, come egli ripete tante volte, è «la causa del sussistere, la ragione del pensare, la norma del vivere» o, per riportare un'altra formula celebre, «la causa dell'universo creato, la luce della verità che percepiamo, la fonte della felicità che assaporiamo». Ma dove il genio di Agostino si esercitò maggiormente fu nello studiare la presenza di Dio nell'uomo, presenza che è insieme profonda e misteriosa. Egli trova Dio, «l'interno-eterno», remotissimo e presentissimo: perché remoto l'uomo lo cerca, perché presente lo conosce e lo trova.

Dio è presente come «sostanza creatrice del mondo», come verità illuminatrice, come amore che attrae, più intimo di quanto vi è nell'uomo di più intimo e più alto di quanto vi è di più alto. Riferendosi al periodo antecedente la conversione, Agostino dice a Dio: «Dov'eri dunque allora e quanto lontano da me? Io vagavo lontano da te... tu, invece, eri più dentro in me della mia parte più profonda e più alto della mia parte più alta»; «eri con me, e io non ero con te». E insiste: «eri davanti a me, ma io mi ero allontanato da me, e non mi ritrovavo. Tanto meno ritrovavo te». Chiunque non trova se stesso non trova Dio, perché Dio è nel profondo di ciascuno di noi. L'uomo dunque non s'intende se non in ordine a Dio. Agostino ha illustrato con vena inesauribile questa grande verità, mentre studiava il rapporto dell'uomo con Dio e lo espresse nelle maniere più varie e più efficaci. Egli vede l'uomo come una tensione verso Dio. Sono celebri le sue parole: «Ci hai fatti per te e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te». Lo vede come capacità di essere elevato fino alla visione immediata di Dio: il finito che raggiunge l'Infinito. L'uomo, scrive ne «La Trinità», «è immagine di Dio, in quanto è capace di Dio e può essere partecipe di lui».

Questa capacità «impressa immortalmente nella natura immortale dell'anima razionale» è il segno della sua grandezza suprema: «in quanto è capace e può essere partecipe della natura suprema, l'uomo è una grande natura». Lo vede inoltre come un essere indigente di Dio, perché bisognoso della felicità che non può trovare se non in Dio. «La natura umana è stata creata in tanta eccellente grandezza che, per quanto mutabile, solo aderendo al Bene immutabile, che è il sommo Dio, può conseguire la felicità, né può colmare la sua indigenza senza essere felice, ma a colmarla non basta se non Dio».

Da questo rapporto costituzionale dell'uomo con Dio dipende l'insistente richiamo agostiniano all'interiorità. «Torna in te stesso; nell'uomo interiore abita la verità; e se troverai che la tua natura è mutabile, trascendi te stesso» per trovare Dio, fonte della luce che illumina la mente. Insieme alla verità c'è nell'uomo interiore la misteriosa capacità d'amare, la quale, come un peso - è questa la celebre metafora agostiniana -, lo porta al di fuori di sé, verso gli altri e soprattutto verso l'Altro, cioè Dio. Il peso dell'amore lo rende costituzionalmente sociale, al punto che «nessuno», come scrive Agostino, «è tanto sociale per natura quanto l'uomo». L'interiorità dell'uomo, dove si raccolgono le ricchezze inesauribili della verità e dell'amore, costituisce «un abisso», che il nostro dottore non cessa mai di scrutare, e mai cessa di stupirsene. Ma a questo punto occorre aggiungere che l'uomo appare, per chi sia pensoso di sé e della storia, un grande problema, come dice Agostino, una «magna quaestio».

Troppi sono gli enigmi che lo circondano: l'enigma della morte, della divisione profonda che soffre in se stesso, dello squilibrio insanabile tra ciò che è e ciò che desidera; enigmi che si riducono a quello fondamentale, che consiste nella sua grandezza e nella sua incomparabile miseria. Su questi enigmi, dei quali ha parlato a lungo il concilio Vaticano II quando si è proposto di illustrare «il mistero dell'uomo», Agostino si è gettato con passione e vi ha esercitato tutto l'acume della sua intelligenza non solo per scoprirne la realtà, che è spesso molto triste - se è vero che nessuno è tanto sociale per natura quanto l'uomo, è vero anche, aggiunge l'autore della «Città di Dio» edotto dalla storia, che «nessuno quanto l'uomo è tanto antisociale per vizio» - ma anche e soprattutto per cercarne e proporne la soluzione.

Ora in quanto alla soluzione non ne trova che una, quella che gli era apparsa alla vigilia della sua conversione: Cristo, redentore dell'uomo. Su questa soluzione ho inteso il bisogno di richiamare anch'io l'attenzione dei figli della Chiesa e di tutti gli uomini di buona volontà nella mia prima enciclica, appunto la «Redemptor Hominis», lieto di raccogliere nella mia voce la voce di tutta la tradizione cristiana. Entrando in questa problematica il pensiero di Agostino, pur restando fondamentalmente filosofico, si fa più teologico, e il binomio Cristo e la Chiesa, che aveva prima negato e poi riconosciuto negli anni della giovinezza, incomincia a illustrare quello più generale di Dio e dell'uomo.

3. Cristo e la Chiesa

Si può ben dire che Cristo e la Chiesa siano il fulcro del pensiero teologico del vescovo di Ippona, anzi, si potrebbe aggiungere, della sua stessa filosofia, in quanto egli rimprovera ai filosofi di aver fatto filosofia «sine homine Christo». Da Cristo è inseparabile la Chiesa. Egli riconobbe al momento della conversione e accettò con gioia e gratitudine la legge della Provvidenza che ha posto in Cristo e nella Chiesa «l'autorità più eccelsa e la luce della ragione ("totum culmen auctoritatis lumemque rationis") allo scopo di ricreare e riformare il genere umano». Senza dubbio egli ha parlato a lungo ed egregiamente, nella grande opera sulla Trinità e nei discorsi sul mistero trinitario tracciando la strada alla teologia posteriore. Ha insistito insieme sull'uguaglianza e sulla distinzione delle Persone divine illustrandole con la dottrina delle relazioni: Dio «è tutto ciò che ha, eccetto le relazioni per cui ogni persona si riferisce all'altra». Ha sviluppato la teologia sullo Spirito santo, che procede dal Padre e dal Figlio, ma «principaliter» dal Padre, perché «di tutta la divinità o, meglio, della deità, il principio è il Padre»; ed egli ha dato al Figlio di spirare lo Spirito Santo, che procede come Amore e perciò non è generato.

Per rispondere poi ai «garruli ragionatori», ha proposto la spiegazione «psicologica» della Trinità cercandone l'immagine nella memoria, nell'intelligenza, nell'amore dell'uomo, studiando così insieme il più augusto mistero della fede e la più alta natura del creato qual è lo spirito umano. Ma parlando della Trinità tiene sempre lo sguardo fisso nel Cristo rivelatore del Padre, e nell'opera della salvezza. Da quando, poco prima della conversione, comprese i termini del mistero del Verbo incarnato, non cessò mai di approfondirlo riassumendo il suo pensiero in formule tanto piene ed efficaci da preannunziare quella di Calcedonia.

Ecco un testo significativo da una delle sue ultime opere: «Il cristiano fedele crede e confessa in Cristo la vera natura umana, cioè la nostra, ma assunta in maniera singolare da Dio Verbo, sublimata nell'unico Figlio di Dio, così che colui che assume e ciò che è assunto sia un'unica persona nella Trinità... una sola persona Dio e l'uomo. Perché noi non diciamo che Cristo è solo Dio ... e nemmeno diciamo che Cristo è solo uomo... e neppure diciamo che è uomo ma con qualcosa in meno di ciò che con certezza appartiene alla natura umana... Noi al contrario diciamo che Cristo è vero Dio, nato dal Padre ... e che lo stesso è vero uomo, nato da madre che fu creatura umana... e che la sua umanità, con la quale è minore del Padre, non toglie nulla alla sua divinità con la quale è uguale al Padre: due nature, un solo Cristo». O, più brevemente: «Colui che è uomo quello stesso è Dio e colui che è Dio quello stesso è uomo, non per la confusione della natura, ma per l'unità della persona», «una persona in due nature». Con questa ferma visione dell'unità della persona in Cristo, «totus Deus et totus homo», Agostino spazia nell'ampio panorama della teologia e della storia. Se lo sguardo d'aquila si fissa sul Cristo Verbo del Padre, non insiste meno su Cristo uomo. Anzi, afferma energicamente: senza Cristo uomo non c'è né mediazione, né riconciliazione, né giustificazione, né risurrezione, né appartenenza alla Chiesa, di cui Cristo è capo.

Su questi temi egli torna sovente e li svolge ampiamente sia per rendere ragione della fede che aveva riconquistato a 32 anni, sia per le esigenze della controversia pelagiana. Cristo, uomo-Dio, è l'unico mediatore tra Dio giusto e immortale e gli uomini mortali e peccatori, perché è mortale e giusto insieme; è pertanto la via universale della libertà e della salvezza. Fuori di questa via, che «non è mai mancata al genere umano, nessuno è stato mai liberato, nessuno viene liberato, nessuno sarà liberato». La mediazione di Cristo si compie nella redenzione, che non consiste solo nell'esempio di giustizia, ma prima di tutto nel sacrificio di riconciliazione che fu verissimo, liberissimo, perfettissimo. La redenzione di Cristo ha come carattere essenziale l'universalità, la quale dimostra l'universalità del peccato. In questo senso Agostino ripete e interpreta le parole di san Paolo: «se uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti» (2Cor 5,14), morti a causa del peccato. «Tutta la fede cristiana consiste dunque nella causa di due uomini», «uno e uno: uno che porta la morte, uno che dona la vita».

Ne segue che «ogni uomo è Adamo, come in coloro che credono ogni uomo è Cristo». Negare questa dottrina voleva dire per Agostino «rendere vana la croce di Cristo» (1Cor 1,17). Perché ciò non avvenisse parlò e scrisse molto sull'universalità del peccato, compresa la dottrina del peccato originale, «che la Chiesa, scrive egli, crede fin dall'antichità». Infatti Agostino insegna che «il Signore Gesù Cristo non per altro motivo si è fatto uomo... se non per vivificare, salvare, liberare, redimere, illuminare coloro che prima erano nella morte, nell'infermità, nella schiavitù, nella prigionia, nelle tenebre dei peccati. È logico che nessuno potrà appartenere a Cristo se non ha bisogno di questi benefici della redenzione». Poiché unico mediatore e redentore degli uomini, Cristo è capo della Chiesa, Cristo e la Chiesa sono una sola persona mistica, il Cristo totale. Scrive arditamente: «Siamo diventati Cristo. Infatti se egli è il capo, noi le sue membra, l'uomo totale è lui e noi». Questa dottrina del Cristo totale è una delle più care al vescovo di Ippona e anche una delle più feconde della sua teologia ecclesiologica.

Altra verità fondamentale è quella dello Spirito Santo anima del corpo mistico - «ciò che è l'anima per il corpo, questo stesso è lo Spirito Santo per il corpo di Cristo che è la Chiesa» -, dello Spirito Santo principio della comunione che unisce i fedeli tra loro e alla Trinità. Infatti «il Padre e il Figlio hanno voluto che noi entrassimo in comunione tra noi e con loro per mezzo di colui che è a loro comune e ci hanno raccolto nell'unità mediante l'unico dono che essi hanno in comune, cioè per mezzo dello Spirito Santo, Dio e dono di Dio». Perciò egli dice nello stesso luogo: «la comunione dell'unità della Chiesa o la "societas unitatis", fuori della quale non c'è perdono dei peccati, è l'opera propria dello Spirito Santo con il quale operano insieme il Padre e il Figlio, poiché in certo modo lo stesso Spirito Santo è il legame o la "societas" che unisce il Padre e il Figlio». Guardando alla Chiesa corpo di Cristo e vivificata dallo Spirito Santo che è lo spirito di Cristo, Agostino svolse in molte forme una nozione sulla quale si è soffermato con particolare compiacenza anche il recente concilio: la Chiesa comunione. Ne parla in tre modi diversi e convergenti: la comunione dei sacramenti o realtà istituzionale fondata da Cristo sul fondamento degli apostoli, della quale discute a lungo nella controversia donatista difendendone l'unità, l'universalità, l'apostolicità e la santità, e dimostrando che ha per centro la «sede di Pietro», «nella quale fu sempre in vigore il primato della cattedra apostolica»; la comunione dei santi o realtà spirituale che unisce tutti i giusti da Abele fino alla consumazione dei secoli; la comunione dei beati o realtà escatologica che raccoglie tutti coloro che hanno raggiunto la salvezza, cioè la Chiesa «senza macchia e senza ruga» (Ef 5,27).

Altro tema caro all'ecclesiologia agostiniana fu quello della Chiesa madre e maestra. Su questo tema Agostino scrisse pagine profonde e commoventi, perché esso toccava da vicino la sua esperienza di convertito e la sua dottrina di teologo. Sulle vie del ritorno alla fede egli incontrò la Chiesa non più opposta a Cristo come gli avevano fatto credere, bensì manifestazione di Cristo, «madre dei cristiani verissima», e garante della verità rivelata. La Chiesa è madre che genera i cristiani: «Due ci hanno generato per la morte, due ci hanno generato per la vita. I genitori che ci hanno generato per la morte sono Adamo ed Eva, i genitori che ci hanno generato per la vita sono Cristo e la Chiesa». La Chiesa è madre che soffre per quelli che si allontanano dalla giustizia, soprattutto per quelli che ne lacerano l'unità, è la colomba che geme e chiama perché tutti tornino o approdino sotto le sue ali, è la manifestazione della paternità universale di Dio attraverso la carità la quale «per gli uni è carezzevole, per gli altri severa; a nessuno è nemica, a tutti è madre». È madre, ma anche, come Maria, vergine: madre per l'ardore della carità, vergine per l'integrità della fede che custodisce, difende, insegna. A questa maternità verginale si riallaccia il suo compito di maestra che la Chiesa esercita in obbedienza a Cristo. Per questo Agostino guarda alla Chiesa come garante delle Scritture, e proclama che egli resta sicuro in essa, qualunque difficoltà si presenti, insegnando insistentemente agli altri a fare altrettanto. «Così, come ho detto spesso e ripeto insistentemente: qualunque cosa noi siamo, voi siete sicuri: voi che avete Dio per padre e la Chiesa per madre». Nasce da questa convinzione l'esortazione accorata ad amare Dio e la Chiesa, appunto Dio come padre, la Chiesa come madre. Nessun altro, forse, ha parlato della Chiesa con tanto affetto e con tanta passione come Agostino. Ne ho riproposto alcuni accenti, pochi in verità ma sufficienti, spero, per far comprendere la profondità e la bellezza d'una dottrina che non sarà mai studiata abbastanza, particolarmente sotto l'aspetto della carità che anima la Chiesa come effetto della presenza in lei dello Spirito Santo. «Abbiamo lo Spirito Santo, scrive, se amiamo la Chiesa; e amiamo la Chiesa se rimaniamo nella sua unità e nella sua carità».

4. Libertà e grazia

Non si finirebbe più a indicare, sia pure per sommi capi, i diversi aspetti della teologia agostiniana. Un altro argomento importante, anzi fondamentale, legato pur esso alla conversione, è quello della libertà e della grazia. Come già ho ricordato, fu alla vigilia della conversione che prese coscienza della responsabilità dell'uomo nelle sue azioni e della necessità della grazia dell'unico Mediatore, di cui sperimentò la forza nel momento dell'ultima decisione. Ne è testimonianza eloquente il libro VIII delle «Confessioni». Le riflessioni personali e le controversie sostenute poi, particolarmente con i seguaci dei manichei e dei pelagiani, gli offrivano l'opportunità di approfondire i termini del problema e di proporne, sia pure con grande modestia a causa della misteriosità della questione, una sintesi. Sostenne sempre che la libertà è un caposaldo dell'antropologia cristiana. Lo sostenne contro i suoi antichi correligionari, contro il determinismo degli astrologi di cui egli stesso era stato vittima, contro ogni forma di fatalismo; spiegò che la libertà e la prescienza non sono inconciliabili, come pure non lo sono libertà e aiuto della grazia divina. «Il libero arbitrio non viene tolto, perché viene aiutato, ma viene aiutato perché non viene tolto».

È celebre del resto il principio agostiniano: «Chi ti ha creato senza di te, non ti giustifica senza di te. Dunque, ha creato chi non sapeva, non giustifica chi non vuole». A chi dubitava di questa conciliabilità o affermava il contrario dimostra con lunga serie di testi biblici che libertà e grazia appartengono alla divina rivelazione e che occorre tener ferme insieme le due verità. Vedere in profondità la loro conciliazione è questione difficilissima che pochi sono in grado di capire, e che può creare angustia per molti, perché difendendo la libertà si può dare l'impressione di negare la grazia e viceversa. Occorre però credere nella loro conciliabilità come nella conciliabilità di due prerogative essenziali di Cristo dalle quali l'una e l'altra rispettivamente dipendono. Cristo infatti è insieme salvatore e giudice. Ora, «se non c'è la grazia, come salva il mondo? se non c'è il libero arbitrio come giudica il mondo?». D'altra parte Agostino insiste sulla necessità della grazia, che è insieme necessità della preghiera. A chi diceva che Dio non comanda l'impossibile e perciò la grazia non è necessaria, risponde che sì, è vero, «Dio non comanda l'impossibile, ma comandando ti ammonisce di fare ciò che puoi e di chiedere ciò che non puoi», e aiuta l'uomo perché possa, egli che «non abbandona nessuno se non è abbandonato». La dottrina sulla necessità della grazia diventa la dottrina sulla necessità della preghiera, su cui Agostino tanto insiste, perché, così egli scrive, «è certo che Dio ha preparato alcuni doni anche a chi non li implora, come l'inizio della fede, altri solo a chi li implora, come la perseveranza finale». La grazia è dunque necessaria per rimuovere gli ostacoli che impediscono alla volontà di fuggire il male e di compiere il bene.

Questi ostacoli sono due, «l'ignoranza e la debolezza», soprattutto il secondo, «perché anche quando incomincia a non rimanere più nascosto ciò che si deve fare..., non si agisce, non si esegue, non si vive bene». Perciò la grazia adiuvante è soprattutto «l'ispirazione della carità per cui facciamo con santo amore ciò che conosciamo di dover fare». Ignoranza e debolezza sono due ostacoli che occorre superare per poter respirare la libertà. Non sarà inutile ricordare che la difesa della necessità della grazia è per Agostino la difesa della libertà cristiana. Partendo dalle parole di Cristo: «se il Figlio vi libererà, allora sarete veramente liberi» (Gv 8,36), egli si fece difensore e cantore di questa libertà che è inseparabile dalla verità e dall'amore. Verità, amore, libertà, i tre grandi beni, che appassionarono l'animo di Agostino e ne esercitarono il genio. Su di essi gettò molta luce di intelligibilità. Per fermarsi un momento su quest'ultimo bene - quello della libertà - è il caso di osservare che egli descrive ed esalta la libertà cristiana in tutte le sue forme. Queste vanno dalla libertà dall'errore - la libertà invece dell'errore è «la peggior morte dell'anima» -, attraverso il dono della fede che assoggetta l'anima alla verità, fino alla libertà ultima e indefettibile, quella maggiore, che consiste nel non poter morire e nel non poter peccare, cioè nell'immortalità e nella piena giustizia. Tra queste due, che segnano l'inizio e il termine della salvezza, illustra e proclama tutte le altre: la libertà dal peccato opera della giustificazione; la libertà dal dominio delle passioni disordinate, opera della grazia che illumina l'intelletto e dà tanta forza alla volontà da renderla invitta contro il male, come sperimentò egli stesso nella conversione, quando fu liberato dalla dura schiavitù; la libertà dal tempo che divoriamo e ci divora, in quanto l'amore ci permette di vivere ancorati all'eternità. Sulla giustificazione, di cui espone le ineffabili ricchezze - la vita divina della grazia, l'inabitazione dello Spirito Santo, la «deificazione» - fa un'importante distinzione fra la remissione dei peccati che è piena e totale, piena e perfetta, e il rinnovamento interiore che è progressivo e sarà pieno e totale solo dopo la risurrezione quando tutto l'uomo diventerà partecipe dell'immutabilità divina. Sulla grazia che fortifica la volontà insiste nel dire che essa opera per mezzo dell'amore e pertanto rende invitta la volontà contro il male senza toglierle la possibilità di non volere. Trattando delle parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni: «nessuno viene a me se il Padre non lo attira» (Gv 6,44), commenta: «non pensare di essere attratto contro la tua volontà: l'animo è attratto anche dall'amore». Ma l'amore, osserva ancora, opera con «liberale soavità», perciò «compie la legge liberamente chi la compie con amore»: «la legge della carità è legge di libertà».

Non meno insistente è l'insegnamento di Agostino sulla libertà del tempo, libertà che Cristo, Verbo eterno, è venuto a portarci entrando nel mondo con l'incarnazione: «O Verbo, esclama Agostino, che esisti prima dei tempi, per mezzo del quale furono fatti i tempi, anche tu nato nel tempo pur essendo la vita eterna, tu chiami all'esistenza gli esseri temporali e li rendi eterni». Si sa che il nostro dottore ha scrutato molto il mistero del tempo e ha sentito e ha ridetto il bisogno di trascendere il tempo per essere veramente. «Se anche tu vuoi essere, trascendi il tempo. Ma chi può trascendere il tempo con le sue forze? Ci elevi su in alto colui che ha detto al Padre: «Voglio che dove sono io, siano anch'essi con me» (Gv 17,24)». La libertà cristiana, di cui ho fatto poco più che un accenno, viene vista e studiata nella Chiesa, la città di Dio, che ne mostra gli effetti e, sostenuta dalla grazia divina, li partecipa, per quanto dipende da lei, a tutti gli uomini. È fondata infatti sull'amore «sociale» che abbraccia tutti gli uomini e vuole unirli nella giustizia e nella pace; al contrario della città degli iniqui che divide e pone l'uno contro l'altro perché fondata sull'amore «privato». Giova ricordare qui qualcuna delle definizioni della pace che Agostino ha coniato secondo le realtà alle quali viene applicata. Partendo dalla nozione che «la pace degli uomini è l'ordinata concordia», definisce la pace della casa come «l'ordinata concordia degli abitanti nel comandare e nell'obbedire»; così pure la pace della città; continua poi: «la pace della città celeste è la ordinatissima e la concordissima società di coloro che godono di Dio e vicendevolmente in Dio». Dà poi la definizione della pace di tutte le cose che è la tranquillità dell'ordine. Infatti definisce l'ordine stesso, che altro non è se non «la disposizione di realtà uguali e disuguali che dà a ciascuno il proprio posto». Per questa pace opera e a questa pace «sospira il popolo di Dio durante il suo pellegrinaggio dalla partenza al ritorno».

5. La carità e le ascensioni dello Spirito

Il breve riassunto dell'insegnamento agostiniano resterebbe gravemente incompleto se non si dedicasse un accenno alla dottrina spirituale che, unita strettamente a quella filosofica e teologica, non è meno ricca dell'una e dell'altra. Occorre tornare di nuovo alla conversione da cui ho cominciato. Fu allora che decise di dedicarsi totalmente all'ideale della perfezione cristiana. A questo proposito restò sempre fedele; non solo, ma si impegnò con tutte le forze ad indicarne agli altri la strada. Lo fece attingendo alla sua esperienza e alla Scrittura, che è per tutti il primo alimento della pietà. Fu un uomo di preghiera, anzi, si direbbe un uomo fatto di preghiera - basti ricordare le celebri «Confessioni» scritte sotto forma di una lettera a Dio -, e ridisse a tutti con incredibile perseveranza la necessità della preghiera: «Dio ha disposto che combattiamo più con la preghiera che con le nostre forze»; ne descrisse la natura, così semplice eppur così complessa, l'interiorità in base alla quale identificò la preghiera con il desiderio: «Il tuo stesso desiderio è la tua preghiera: e il continuo desiderio è una continua preghiera»; il valore sociale: «Preghiamo per quelli che non sono stati chiamati, scrive, perché lo siano: forse sono stati predestinati in modo da essere concessi alle nostre preghiere»; l'insostituibile inserimento in Cristo, «che prega per noi, prega in noi, è pregato da noi; prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio: riconosciamo pertanto in lui la nostra voce e in noi la sua». Salì con progressiva diligenza i gradini delle ascensioni interiori, e descrisse il loro programma per tutti, un programma ampio e articolato che comprende il movimento dell'animo verso la contemplazione: purificazione, costanza e serenità, orientamento verso la luce, dimora nella luce; i gradi della carità: incipiente, progressiva, intensa, perfetta; i doni dello Spirito Santo rapportati alle beatitudini; le petizioni del Padre nostro; gli esempi di Cristo.

Se le beatitudini evangeliche costituiscono il clima soprannaturale in cui il cristiano deve vivere, i doni dello Spirito Santo danno il tocco soprannaturale della grazia che rende possibile quel clima; le petizioni del Padre nostro, o in genere la preghiera che tutta si riduce a quelle petizioni, come alimento necessario; l'esempio di Cristo il modello da imitare; la carità poi costituisce l'anima di tutto, il centro di irradiazione, la molla segreta dell'organismo spirituale. Fu merito non piccolo del vescovo di Ippona l'aver ricondotto tutta la dottrina e la vita cristiana alla carità, intesa come «adesione alla verità per vivere nella giustizia». Vi riconduce infatti la Scrittura che, tutta, «narra Cristo e raccomanda la carità», la teologia che in essa trova il suo fine, la filosofia, la pedagogia e persino la politica. Nella carità pose l'essenza e la misura della perfezione cristiana, il primo dono dello Spirito Santo, la realtà con la quale nessuno può essere cattivo, il bene con il quale si possiedono tutti i beni e senza il quale non giovano a nulla tutti gli altri beni. «Abbi la carità e avrai tutto, perché senza di essa a nulla giova tutto ciò che potrai avere». Della carità mise in rilievo tutte le inesauribili ricchezze: rende facile tutto quanto è difficile, muove ciò che è abituale, insopprimibile il movimento verso il Bene sommo, poiché qui in terra la carità non è mai piena, libera da ogni interesse che non sia Dio, è inseparabile dall'umiltà - «dove c'è l'umiltà, ivi c'è la carità» - è l'essenza d'ogni virtù - la virtù infatti non è che amore ordinato -, dono di Dio. Punto cruciale, quest'ultimo, che distingue e separa la concezione naturalistica e quella cristiana della vita. «Da dove negli uomini la carità di Dio e del prossimo se non da Dio stesso? Poiché se essa proviene non da Dio ma dagli uomini, hanno partita vinta i pelagiani; se invece proviene da Dio, abbiamo vinto i pelagiani».

Dalla carità nasceva in Agostino l'ansia della contemplazione delle cose divine, che è propria della sapienza. Delle forme più alte di contemplazione egli ebbe spesso l'esperienza, non solo quella celebre di Ostia, ma altre ancora. Dice di sé: «spesso faccio questo» - ricorre cioè alla meditazione della Scrittura perché le pressanti occupazioni non l'opprimano -, «è la mia gioia, e in questo diletto mi rifugio, allorché posso liberarmi dalla stretta delle occupazioni... Talvolta m'introduci in un sentiero interiore del tutto sconosciuto e indefinibilmente dolce, che, qualora raggiunga in me la sua pienezza, non so dire che mai sarà, ché non sarà certo questa vita». Se si aggiungono queste esperienze all'acume teologico e psicologico di Agostino e alla sua rara capacità di scrittore, si comprende perché abbia descritto con tanta precisione le ascensioni mistiche, tanto che qualcuno ha potuto chiamarlo il principe dei mistici. Nonostante l'amore predominante per la contemplazione, Agostino accettò la «sarcina» dell'episcopato e insegnò agli altri a fare altrettanto, rispondendo così, con umiltà, alla chiamata della Chiesa madre, ma insegnò anche con l'esempio e gli scritti come conservare tra le occupazioni dell'attività pastorale il gusto della preghiera e della contemplazione. Vale la pena riportare la sintesi, divenuta classica, che ci offre la «Città di Dio».

«L'amore della verità ricerca la quiete della contemplazione, il dovere dell'amore accetta l'attività dell'apostolato. Se nessuno impone questo peso, ci si deve dedicare alla ricerca e alla contemplazione della verità; se però esso ci viene imposto, dev'essere assunto per dovere di carità. Ma anche in questo caso non si devono abbandonare le consolazioni della verità, perché non accada che, privati di questa dolcezza, si resti schiacciati da quella necessità». La profonda dottrina qui esposta merita una lunga e attenta riflessione. Questa diventa più facile e più efficace se si guarda ad Agostino stesso, che diede un fulgido esempio di come conciliare i due aspetti, apparentemente contrastanti, della vita cristiana: preghiera e azione.

 

Il Pastore

Non sarà inopportuno dedicare un ricordo all'azione pastorale di questo vescovo che nessuno ricuserà di annoverare tra i più grandi pastori della Chiesa. Anche quest'azione ebbe origine dalla conversione, perché da essa nacque il proposito di servire solo Dio. «Ormai te solo amo... a te solo voglio servire...». Quando poi si accorse che questo servizio doveva estendersi all'azione pastorale, non esita ad accettarla; con umiltà e con trepidazione e con rammarico, ma, per obbedire a Dio e alla Chiesa, l'accettò. I campi di tale azione furono tre, che si andavano allargando come tre cerchi concentrici: la Chiesa locale d'Ippona, non grande ma inquieta e bisognosa; la Chiesa africana, miseramente divisa tra cattolici e donatisti; la Chiesa universale combattuta dal paganesimo e dal manicheismo e attraversata da movimenti ereticali. Egli si sentì in tutto servo della Chiesa - «servo dei servi di Cristo» - traendo da questo presupposto tutte le conseguenze, anche le più ardue come quella di esporre la propria vita per i fedeli. Chiedeva infatti al Signore la forza di amarli in modo da essere pronto a morire per loro «o in realtà o nella disposizione». Era convinto che chi, messo a capo del popolo, non avesse questa disposizione, più che vescovo, era simile a «un fantoccio di paglia che sta nella vigna». Non vuol essere salvo senza i suoi fedeli ed è pronto ad ogni sacrificio pur di richiamare gli erranti sulla via della verità. In un momento di estremo pericolo a causa dell'invasione dei vandali, insegna ai sacerdoti a restare in mezzo ai fedeli anche col rischio della propria vita. In altre parole egli vuole che vescovi e sacerdoti servano i fedeli come Cristo li ha serviti. «In che senso chi presiede è servo? Nel senso stesso in cui fu servo il Signore».

Fu il suo programma. Nella sua diocesi, da cui non si allontanò mai se non per necessità, fu assiduo alla predicazione - predicava al sabato e alla domenica e spesso per l'intera settimana -, nella catechesi, nella «audientia episcopi» talvolta per tutto il giorno trascurando perfino il mangiare, nella cura dei poveri, nella formazione del clero, nella guida dei monaci, molti dei quali furono chiamati al sacerdozio e all'episcopato, e dei monasteri delle «sanctimoniales». Morendo «lasciò alla Chiesa un clero molto numeroso, come pure monasteri d'uomini e di donne pieni di persone votate alla continenza sotto l'obbedienza dei loro superiori, insieme con le biblioteche...». Per la Chiesa africana lavorò parimenti senza posa: si prestò per la predicazione dovunque fosse chiamato, fu presente ai frequenti concili regionali nonostante le difficoltà del viaggio, s'impegnò con intelligenza, assiduità e passione per comporre lo scisma donatista che divideva in due quella Chiesa. Fu questa la sua grande fatica e, per il successo ottenuto, il suo grande merito. Illustrò con innumerevoli opere la storia e la dottrina del donatismo, propose quella cattolica sulla natura dei sacramenti e della Chiesa, promosse una conferenza ecumenica tra vescovi cattolici e donatisti, l'animò con la sua presenza, propose e ottenne di rimuovere tutti gli ostacoli alla riunificazione, anche quello dell'eventuale rinuncia dei vescovi donatisti all'episcopato, divulgò le conclusioni di quella conferenza, avviò a pieno successo il processo di pacificazione. Perseguitato a morte, una volta sfuggì dalle mani dei «circoncellioni» donatisti perché la guida sbagliò la strada. Per la Chiesa universale compose tante opere, scrisse tante lettere, sostenne tante controversie.

I manichei, i pelagiani, gli ariani, i pagani furono l'oggetto delle cure pastorali in difesa della fede cattolica. Lavorò indefessamente di giorno e di notte. Negli ultimi anni della vita dettava ancora un'opera di notte e un'altra, quand'era libero, di giorno. Morendo a 76 anni, ne lasciò tre incompiute. Queste tre opere incompiute sono la testimonianza più eloquente della sua insonne laboriosità e del suo insuperabile amore verso la Chiesa.

 

Agostino agli uomini di oggi

A quest'uomo straordinario vogliamo chiedere, prima di terminare, che cosa abbia da dire agli uomini d'oggi. Penso che abbia da dire veramente molto, sia con l'esempio che con l'insegnamento. A chi cerca la verità insegna a non disperare di trovarla. Lo insegna con l'esempio - egli la ritrovò dopo molti anni di faticose ricerche - e con la sua attività letteraria della quale fissa il programma nella prima lettera scritta poco dopo la conversione. «A me sembra che si debbano ricondurre gli uomini alla speranza di trovare la verità». Insegna pertanto a cercarla «con umiltà, disinteresse, diligenza»; a superare lo scetticismo attraverso il ritorno in se stessi, dove abita la verità; il materialismo che impedisce alla mente di percepire la sua unione indissolubile con le realtà intelligibili; il razionalismo, che ricusando la collaborazione della fede si mette nella condizione di non capire il «mistero» dell'uomo. Ai teologi che meritatamente faticano per approfondire il contenuto della fede, egli lascia l'immenso patrimonio del suo pensiero, nel complesso sempre valido, e particolarmente il metodo teologico cui restò incrollabilmente fedele. Sappiamo che questo metodo comportava l'adesione piena all'autorità della fede, che, una nella sua origine - l'autorità di Cristo - si manifesta attraverso la Scrittura, la tradizione, la Chiesa; l'ardente desiderio di capire la propria fede: «ama molto di capire», dice agli altri e applica a se stesso; il senso profondo del mistero: «è migliore la fedele ignoranza», esclama, «che la temeraria scienza»; la convinta sicurezza che la dottrina cristiana viene da Dio e ha pertanto una sua originalità che non solo dev'essere conservata integralmente - è questa la «verginità» della fede di cui si parlava -, ma deve servire anche come misura per giudicare filosofie ad essa conformi o difformi.

È noto quanto Agostino amasse la Scrittura, di cui esalta l'origine divina, l'inerranza, la profondità e la ricchezza inesauribile, e quanto la studiasse. Ma egli studia e vuole che si studi tutta la Scrittura, che se ne metta in luce il vero pensiero o, come dice, il «cuore», concordandola, dove occorra, con se stessa. Ritiene questi due presupposti leggi fondamentali per capirla. Per questo la legge nella Chiesa, e tenendo conto della tradizione, della quale mette in rilievo con insistenza le proprietà e la forza obbligante. È celebre il suo effato: «Io non crederei nel Vangelo se non mi c'inducesse l'autorità della Chiesa cattolica». Nelle controversie che sorgono sull'interpretazione della Scrittura raccomanda di discutere «con santa umiltà, con pace cattolica, con carità cristiana» «finché non sia emersa la verità, che Dio ha posto nella cattedra dell'unità». Allora si potrà constatare che la controversia non è sorta inutilmente, perché è diventata «occasione d'imparare», determinando un progresso nell'intelligenza della fede. Per continuare ancora un poco sugli insegnamenti agostiniani agli uomini d'oggi, egli ricorda ai pensatori il duplice oggetto d'indagine che deve occupare la mente umana: Dio e l'uomo. «Che cosa vuoi conoscere?» chiede egli a se stesso.

E risponde: «Dio e l'uomo». «Nulla di più? Proprio nulla». Di fronte al triste spettacolo del male, ricorda loro altresì di avere fiducia nel trionfo finale del bene, cioè di quella Città «dove la vittoria è verità, la dignità è santità, la pace è felicità, la vita è eternità». Invita inoltre gli uomini della scienza a riconoscere nelle cose create il vestigio di Dio e a scoprire nell'armonia dell'universo le «ragioni seminali» che Dio vi ha inserito. Agli uomini poi che hanno in mano le sorti dei popoli raccomanda di amare soprattutto la pace e di promuoverla non con la lotta ma con i metodi di pace, perché, scrive sapientemente, «è titolo più grande di gloria uccidere la guerra con la parola che gli uomini con la spada, e procurare o mantenere la pace con la pace, non con la guerra». Infine vorrei dedicare una parola ai giovani che Agostino molto amò come professore prima della conversione e come pastore dopo. Egli ricorda ad essi il suo grande trinomio: verità, amore, libertà; tre beni supremi che stanno insieme; e li invita ad amare la bellezza, egli che ne fu un grande innamorato. Non solo la bellezza dei corpi che potrebbe far dimenticare quella dello spirito, né solo quella dell'arte, ma la bellezza interiore della virtù e soprattutto la bellezza eterna di Dio, da cui la bellezza dei corpi, dell'arte e della virtù discende; di Dio che è «la bellezza di ogni bellezza», «fondamento, principio e ordinatore del bene e della bellezza di tutti gli esseri che sono buoni e belli».

Agostino, ricordando gli anni precedenti la sua conversione, si rammarica amaramente di aver amato tardi questa «bellezza tanto antica e tanto nuova», e vuole che i giovani non lo seguano in questo, ma che, amandola sempre e soprattutto, conservino perpetuamente in essa lo splendore interiore della loro giovinezza.

 

Conclusione

Ho ricordato la conversione e ho delineato un rapido panorama del pensiero di un uomo incomparabile di cui un po' tutti nella Chiesa e in Occidente ci sentiamo discepoli e figli. Esprimo di nuovo il vivo desiderio che la sua dottrina sia studiata e largamente conosciuta e il suo zelo pastorale imitato, affinché il magistero di tanto dottore e pastore continui nella Chiesa e nel mondo a favore della cultura e della fede. Il XVI centenario della conversione di sant'Agostino offre una occasione assai propizia per incrementare gli studi e diffondere la devozione verso di lui. Esorto a tale impegno e fine in particolare gli ordini religiosi - maschili e femminili - che portano il suo nome, vivono sotto il suo patrocinio o che in qualsiasi modo ne seguono la regola e lo chiamano padre. Vogliano essi profittare di questa occasione per rivivere o far rivivere più intensamente i suoi ideali. Alle varie iniziative e celebrazioni, che sono state organizzate ovunque per questo motivo, sarò presente con animo grato e bene augurante; sopra ciascuna di esse invoco di cuore la celeste protezione e l'efficace ausilio della vergine Maria, che il vescovo d'Ippona ha esaltato come madre della Chiesa, auspice la mia apostolica benedizione, che con questa lettera mi è caro impartire.

 

Dato a Roma presso San Pietro, il 28 agosto, nella festa di sant'Agostino, vescovo e dottore della Chiesa, nell'anno 1986, ottavo del mio Pontificato.