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Maria BeTtetini: LE CONFESSIONI AD ALTA VOCE

Immagine della copertina del libro

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LE CONFESSIONI AD ALTA VOCE

di Maria Bettetini

QUADERNI DI NOCTUA 3 - 2016 STUDI IN ONORE DI FRANCO DE CAPITANI RACCOLTI DA FABRIZIO AMERINI E STEFANO CAROTI

 

Si pubblicano in questa raccolta gli interventi presentati al Convegno «Agostino e l'agostinismo medievale» organizzato da Fabrizio Amerini in onore di Franco De Capitani e svoltosi presso l'Università di Parma il 22 ottobre 2015

 

 

 

In questo contributo intendo presentare una possibile lettura delle Confessioni di Agostino di Ippona di cui ho già discusso, ma che desidero ulteriormente approfondire. Molto si è dibattuto, e credo si dibatterà, sul senso delle Confessiones, si è detto di confessioni dei peccati, della fede, della lode, della propria incapacità [1]. La latina confessio, più della nostra "confessione", può reggere tutte queste attribuzioni, ampiamente giustificate dalla critica a proposito dell'opera agostiniana, e molte altre ancora, perché i tredici libri sono costellati da dichiarazioni di debolezza, paura, smarrimento della propria persona e invece ammirazione, entusiasmo, amore per la persona divina. Ma ciò che unifica questi slanci e questi pianti non è solo il loro soggetto, è il rapporto tra soggetto e oggetto. Due sono i protagonisti delle Confessioni, gli stessi che l'Agostino dei dialoghi giovanili «bramava di conoscere» (Deum et animam scire cupio: sol. I, 2, 7): Dio e l'uomo di fronte a Dio. Un Dio stabile e immutabile come il primo principio neoplatonico, luminoso e benefico come la Luce dei Manichei, amabile e vicino al cuore dell'uomo come il Verbum del Prologo giovanneo, cui fa ritorno un figlio tardo e distratto. Il confronto tra il principio neoplatonico e il Prologo del Vangelo di Giovanni è in conf VII, 9, 13-15, dove si trova anche il paragone tra la sapienza pagana e l' “oro degli Egizi": "ritorno" è termine che indica il cammino del figliol prodigo della parabola evangelica, ma anche il percorso dell'anima che si raccoglie dalla dispersione e torna all'unità neoplatonica, e la necessità del ritrovamento di una "via" verso la patria.

Le Confessioni si configurano quindi come un dialogo tra due protagonisti, uno che sta e l'altro che torna, una sorta di sceneggiatura, arricchita da notazioni scenografiche e temporali, nonché dall'intervento di numerosi personaggi secondari. D'altra parte è lo stesso autore a inserire nel testo diversi richiami ai lettori e agli ascoltatori, e gli storici della cultura confermano la diffusione dell'uso di declamare i testi in epoca tardo-antica, sia per problemi di alfabetismo, sia per l'abitudine a leggere ad alta voce anche quando si leggeva da soli. In conf. VI, 3, 3, Agostino riporta il suo stupore per la lettura silenziosa di Ambrogio e cerca di giustificarla con la necessità di risparmiare la voce che gli si indeboliva con facilità. Si è pensato addirittura di indicare nel vescovo di Milano l'inventore di un nuovo modo di affrontare i testi, ma anche se ancora per secoli non si utilizzerà comunemente la lettura silenziosa, questa è già nota agli uomini colti dell'antichità, si veda per esempio il Cicerone di tusc. 5, 40, 116, dove ridimensionando il danno della sordità l'Arpinate sottolinea il piacere di leggere versi in silenzio: «multo maiorem percipi passe legendis iis quam audiendis voluptatem». Il senso della lettura silenziosa, nel caso di Agostino, è probabilmente da cercarsi nelle parole dello stesso Ambrogio, che nel De officiis a proposito dei doveri del sacerdote sostiene la necessità di imparare prima di insegnare, «quid autem prae ceteris debemus discere quam tacere, ut possimus loqui». [2]

Come nei monasteri, dal sesto secolo in poi, si raccomanderà la lectio tacita (già nella Regola di San Benedetto, al capitolo 58), così il vescovo di Milano ribadisce più volte l'importanza del dialogo interiore [3]. Agostino imita anche in questo il suo modello: durante i preziosi momenti della conversione (conf VIII 12, 29: «aperui et legi in silentio»), e poi nell'impostazione della vita episcopale tutta, suddivisa tra la meditazione, il servizio ai fedeli e il ristoro del corpo e dell'anima (ep. 151, 13, ma anche 11, 2, 2, dove Agostino già vescovo afferma: «et olim inardesco meditari in lege tua [ ... ] et nolo in aliud horae diffluant quas invento liberas a necessitatibus reficiendi corporis et intentionis animi et servitutis quam debemus hominibus et quam non debemus et tamen reddimus»). Si legge in silenzio dunque per favorire la meditazione e per lasciare parlare il "maestro interiore" di mag. 14, 46, e di en. Ps. 126, 3, quando si hanno compiti di guida delle anime e di predicatore; si legge ad alta voce quando si vuole ascoltare il predicatore, come dobbiamo immaginare accadesse nel caso della lettura delle opere di Agostino, declamate a gruppi di fedeli da qualcuno tra i pochi che sapevano leggere, restituite alla vivacità del discorso orale dal tono della voce e dai gesti della mimica suggeriti dalle stesse parole scritte: le Confessioni sono forse un caso di quella che Barthes ha definito la "scrittura ad alta voce", elemento raro di un'estetica del piacere testuale:

la scrittura ad alta voce non è fonologica, ma fonetica; il suo obiettivo non è la chiarezza dei messaggi, il teatro delle emozioni; ciò che essa cerca (in una prospettiva di godimento), sono gli incidenti pulsionali, è il linguaggio tappezzato di pelle, un testo in cui si possa sentire la grana della gola [ ... ]. Certa arte della melodia può dar un'idea di questa scrittura vocale [4].

Dobbiamo dunque immaginare una sorta di "messa in scena" da parte dei fruitori delle Confessioni, che impersonavano di fronte a un pubblico di fedeli i due protagonisti: Agostino che racconta, invoca, "confessa", e Dio che risponde attraverso le innumerevoli citazioni bibliche e che, come nell'Antico Testamento, si adira, osserva, ride. In diversi luoghi ne abbiamo un resoconto: «amas et nec aestuas, zelas et securus es, paenitet et non doles, irasceris et tranquillus es» (conf I, 4, 4); «et tu fortasse inrides me» (conf I, 6, 7). L'andamento della scrittura conferma questa ipotesi: un linguaggio, che ormai non distingue più la citazione sacra da quella tratta da testi classici, propone exempla seguiti da un epilogo dottrinale, a sua volta introdotto da esclamazioni e invocazioni a Dio, quasi a risvegliare l'attenzione degli ascoltatori al momento di trarre le conclusioni dell'episodio narrato (per esempio in conf V, 4, 7: «Numquid, Domine Deus veritatis, quisquis novit ista, iam placet tibi?» ). Il dialogo d'altra parte non è astratto, le descrizioni dell'autore ci permettono di "vedere" dove si svolge, nonché di cogliere sia l'ora del giorno (o della notte) sia l'ingresso "in scena" di altri personaggi. Non è tra le pietre che dobbiamo cercare i luoghi significativi narrati da Agostino, ma tra le pagine delle Confessioni, che dipingono scenografie dalla forte valenza simbolica, qualcosa di analogo alle "scenografie verbali" che la critica, in tempi non lontani, ha rinvenuto racchiuse nelle opere teatrali di William Shakespeare [5].

Nelle Confessioni si trovano alcuni luoghi, appositamente e non a caso ricostruiti e descritti, ogni luogo con precisi riferimenti esistenziali ed etici: il teatro ( ovvero il luogo del male sfrontato); le vie e le piazze della città (luoghi di ambigui incontri); la villa, non intesa solo in senso di casa privata, dove avvengono fatti intimi (l'incontro con Ambrogio, l'abbandono dell'Africa da parte di Alipio, i peccati di gola infantili di Monica); il giardino, dove si manifesta l'essenziale - il male come nel furto notturno dei frutti dell'albero di pere o il bene come nella conversione milanese e nella visione di Ostia Tiberina; la città, dove tutto si chiarisce (negli abissi di Cartagine o negli incontri risolutivi di Milano); la chiesa, luogo materiale di rifugio e consolazione, per Monica a Cartagine, così come per i milanesi invitati da Ambrogio a cantare per farsi coraggio e non lasciare le chiese in mano agli ariani. Un segno di quella civitas interiore che nelle opere successive verrà definita come l'unico vero spazio del discernimento. A sfondo del dialogo, dunque, luoghi sempre precisati: Tagaste, Cartagine, Roma, Milano e la tranquilla, ma fredda Brianza, il porto di Ostia per i primi nove libri; la coscienza del protagonista per i due libri successivi, che sono ambientati all'interno della memoria e dell'intelligenza; l'universo intero per gli ultimi due, dedicati all'esegesi dei primi versetti del Libro della Genesi.

A coreografia del dialogo, i personaggi secondari: anonimi, quando evocano momenti dolorosi, meritano rispetto o svolgono solo una funzione determinata, è il caso dell'amico di gioventù morto all'improvviso, della donna con cui Agostino ha vissuto per quindici anni, ma anche del vescovo che consola Monica e dell'uomo "gonfio di boria" che ha solo il ruolo di procurare i testi neoplatonici nel 386 a Milano (conf VII, 9, 13). Hanno un nome invece gli amici, i compagni di viaggio come Alipio, Nebridio, Verecondo, e hanno un nome anche quelle che potremmo definire, in gergo teatrale, "partecipazioni straordinarie", i personaggi che svolgono ruoli determinanti nel cammino del protagonista, come la madre Monica, il manicheo Fausto, il cristiano Simpliciano e l'astro luminoso di Ambrogio, vescovo di Milano. Ma siamo in grado di individuare anche altro di quest'opera, se la intendiamo scritta per essere declamata: la trama infatti richiama molto da vicino l'andamento del Bildungsroman: senza pensare alla modernità, basta rifarsi alle Metamorfosi di Apuleio, nato nella città dove Agostino avrebbe frequentato le scuole superiori, Madaura (o Madauros, l'attuale M'Daourouch), circa due secoli prima, per leggere delle peripezie di un giovane che prima di diventare sacerdote di Iside, quindi prima dell'incontro con la luce divina, commette diversi errori, si fa ingannare, subisce punizioni umilianti come la trasformazione in asino. Secondo lo sviluppo della "fiaba" tradizionale, così come schematizzata nel 1928 da Vladimir Jakovlevič Propp nel caso delle fiabe popolari russe, il protagonista si trova a percorrere una strada piena di trappole in cui cade sia per la propria debolezza, sia per la cattiva fede di chi le ha preparate, e la meta può essere raggiunta solo dopo una purificazione attiva e passiva. C'è anche un "cattivo", un nemico, rappresentato dal manicheo che è stato Agostino: cattivi sono i Manichei, e la loro personificazione, che diventa personificazione del male, è proprio l'"uomo vecchio", quello stolto che per nove anni si è lasciato incantare dalle "favole" manichee, ha creduto ai loro "fantasmi", è caduto nei loro "lacci" e nelle loro "trappole" (si veda conf III, 6, 10). Così come nell'ottavo libro, prima della conversione, il protagonista incontra la virtù della continenza, personificata in una donna "madre" di integerrimi fanciulli e fanciulle, alla stessa stregua per i libri precedenti è Agostino stesso ad aver impersonato il vizio opposto della dispersione, della distrazione dall'essenziale, dell'errore. Il vescovo africano non risulta quindi solo sdoppiato nell'efficace figura dell'Agostino narrante e dell'Agostino narrato [6], ma presenta sé stesso su molteplici piani, attraverso le sfumature che portano dal realismo dell'autobiografia alla metafora, usando della sua storia personale come deposito cui attingere fatti utili ai fini della narrazione. Ma perché inscenare tutto questo?

La risposta è da cercare nelle parole dello stesso autore, che dichiara di confessare «per eccitare» i cuori, per convincere, per insegnare: non uno sfogo, quindi, o un desiderio di fare il punto sulla propria vita. Neppure lo scavo interiore che, impietoso e fin beffardo, come in Rousseau, costituirà lo scopo dichiarato delle "confessioni" dell'epoca moderna. Denuncia, forse vendetta? Sì, ma solo verso un passato da presentare come esempio negativo, allo scopo di aiutare chi legge, ascolta, assiste, a trovare la via della verità più facilmente di quel ragazzo di Tagaste che la raggiunse così tardi da esclamare un famoso e commosso «sero te amavi, pulchritudo tam antiqua e tam nova, sero te amavi» (conf X, 27, 38). Un testo dal taglio "protrettico", educativo, hanno scritto alcuni. Agostino vuole un'opera che provochi nei fedeli lo stesso effetto prodotto in lui dall'incontro con Ambrogio, in un inverno lombardo. Ben si adattano a questa scelta gli studi sull'etica della narrazione, che individuano nel racconto la forma propria della comunicazione etica e nella conversazione, quindi anche nel racconto orale fatto alla presenza di gruppi ristretti di ascoltatori, un caso particolare, e particolarmente incisivo, di questa [7]. Il racconto infatti permette la collocazione spazio-temporale della scelta etica, quindi la determinazione delle circostanze, che hanno un così pesante ruolo nella difficoltà a definire le regole della morale, già nota ad Aristotele (Eth. Nic. I, 3, 1094b12-1095b14). Mentre le leggi hanno necessariamente un numero infinito di eccezioni e vanno applicate fatte salve le situazioni esterne e interne che possono mutare lo scenario, l'episodio concreto ha protagonisti con caratteristiche precise, che si muovono in situazioni definite, e questo permette di esprimere o trasmettere un giudizio morale con molta più facilità. Inoltre, nel caso in cui si narri di fatti accaduti, la narrazione viene rinforzata dalla veridicità e soprattutto dalla conoscenza delle conseguenze del fatto, un altro fondamentale elemento di difficoltà nella trattazione teorica dei temi etici: fiabe e romanzi presentano cattivi puniti, bugie smascherate, prepotenze umiliate. Così è più utile mostrare le conseguenze di una vita dissoluta, piuttosto che incitare teoricamente alla continenza; è più efficace indicare le gravissime conseguenze della superbia nell'affrontare la lettura delle Scritture, piuttosto che limitarsi a scrivere un manuale di ermeneutica; è meglio presentare esempi di persone reali, vive o morte da poco, piuttosto che invitare genericamente a essere buoni. Per tutti questi motivi, appaiono quasi pretestuosi gli studi, pure numerosissimi, sulla coerenza o incoerenza delle Confessioni: perché cercare una struttura sistematica in un'opera che mette in scena tanti racconti tratti da una sola vita allo scopo di incidere su altre vite?

Ora, l'astuzia del retore non può fare a meno di collegare tra loro i libri e gli episodi, di mantenere alcuni temi in tensione per tutti i tredici libri, di inserire espressioni tratte dai Salmi come ritornelli a ricordare gli argomenti di fondo, ma è privo di senso cercare una linearità e un'aderenza storica che forse all'autore non interessavano. Valga tra tutti l'esempio dello spazio dedicato nel secondo libro al racconto del furto dall'albero di pere: la marachella di un adolescente occupa le pagine che sono negate alla morte del padre o all'incontro con la madre del figlio dell'autore. Cinismo? Probabilmente no, solo tutta l'attenzione per un fatto che nella sua piccolezza e inutilità evoca chiaramente l'assurdità del male. Se decidere per il male è scegliere il nulla piuttosto che l'essere, preferire il vuoto alla pienezza, la privazione alla presenza, allora un'azione compiuta senza nessun motivo - perché l'influenza della cattiva compagnia è accennata solo quale circostanza attenuante -, un'azione come il furto di frutti sgradevoli portato a termine senza fame e senza fini, è il miglior esempio della malizia primigenia che ha condotto al peccato i progenitori. Anche nel giardino dell'Eden, infatti, nessuna necessità spingeva Adamo ed Eva al furto di un altro genere di frutto. E si è già detto così di un primo genere di luogo, il giardino, dove si manifesta l'essenziale - il male, come nel furto notturno dei frutti dell'albero di pere, o il bene come nella conversione milanese e nella visione di Ostia Tiberina. I passi sono noti, conf II 4-9 - 10-18 per il furto, dove la narrazione incomincia con la descrizione del luogo («Nelle vicinanze della nostra vigna sorgeva una pianta di pere carica di frutti d'aspetto e sapore per nulla allettante [8]) e si conclude con il riferimento di cui si è detto ai luoghi in Dio e lontano da Dio: «Io mi dispersi lontano da te ed errai, Dio mio, durante la mia adolescenza per vie troppo remote dalla tua solida roccia. Così divenni per me regione di miseria».

L'uomo è l'unica creatura in grado di mutare continuamente il suo destino, decidendo istante per istante se tendere al luogo di Dio, all'essere pieno, o al nulla, perché ciò che non ha la ragione si trova già collocato in un posto che non potrà variare, e le creature angeliche, dotate di ragione ma non di corpo, vivono fuori dalla storia e hanno già deciso una volta per tutte se schierarsi per o contro l'essere. Proprio dell'uomo è dunque un peregrinare ontologico, la cui direzione è segnata dalle scelte etiche: all'agire bene corrisponde una maggior vicinanza al principio e quindi una maggior pienezza d'essere. Tale movimento di allontanamento e ritorno coincide con la dispersione e l'unificazione dell'ascesa neoplatonica, cui Agostino sovrappone il viaggio del figliol prodigo. La parabola è presente anche solo per brevi cenni nel corso di tutte le Confessioni, quasi una struttura portante che cristianizza l'ontologia platonica dicendo di un uomo che lascia un padre «dolce», addirittura «più dolce verso chi ritorna», per disperdere i beni ricevuti dal padre stesso in una «terra lontana». La terra (regio) con cui si identificano il luogo del protagonista e il protagonista stesso, è detta terra «di povertà» e, secondo l'espressione del Politico di Platone, «di dissomiglianza» (Pol. 273d). Da essa il figlio capisce di dovere e potere ritornare al padre solo rientrando in sé stesso, ed ecco che il movimento di ascesa e unificazione viene a coincidere con l'abbandono dell'esteriorità. La "patria" della parabola, ma anche della sesta Enneade di Plotino, sarà raggiunta solo dopo un lungo cammino, al termine del quale si darà il contatto con il principio: l'abbraccio del padre evangelico, l'estasi intellettuale platonica, e nelle Confessioni l'incontro con una verità che abbaglia, profuma, brucia (conf X, 27, 38). Non poco nei secoli hanno parlato ai mistici le descrizioni infiammate del rapporto con Dio, dove le vette dello spirito si intrecciano alla pienezza del godimento sensibile, grazie a una restituita dignità dei sensi. È un paesaggio di boschi e giardini («in amoenis nemoribus, in suave olentibus locis») anche quello che non riesce a consolare Agostino per la morte dell'amico (conf IV, 7-12), ma qui la scenografia è solo un topos letterario, a differenza della famosa "scena del giardino". Come sappiamo che avvenne in un giardino l'illuminazione che spinse il protagonista delle Confessioni alla definitiva conversione al cristianesimo? Poiché egli ci racconta di essersi prima allontanato da Alipio, per poter «scaricare» la tempesta appena scoppiata, una «ingente pioggia di lacrime», e poi dice: «Io mi gettai disteso, non so come, sotto una pianta di fico».

Da lì, da una casa vicina (siamo dunque all'aperto) sente il canto del fanciullo o della fanciulla che lo invita a leggere, poi il passo della Lettera ai Romani e la luce (conf VIII, 12, 28-30). E un giardino fu quello che accolse, dopo la conversione e il ritiro dall'insegnamento, Agostino e i suoi amici e parenti, a Cassago Brianza. La comitiva comprendeva, oltre ad Agostino, sua madre, il figlio Adeodato ormai adolescente, il fratello Navigio, gli allievi Trigezio e Licenzio, i cugini Lartidiano e Rustico. Era assente l'amico fraterno Alipio, che sarà pure battezzato da Ambrogio con Agostino e Adeodato. Però proprio grazie a una sua visita estemporanea agli amici conosciamo con maggior certezza la distanza tra Cassiciacum e Milano: un «viaggio in città» annunciato nel dialogo Contro gli Accademici (10-24 novembre) si conclude con il ritorno in campagna per fine mese: un viaggio probabilmente effettuato a piedi, impensabile se non percorribile in giornata. Nella «campagna (rus) di Cassiciaco» di proprietà di Verecondo, «riposammo in te dalla bufera del secolo», nella «amenità del tuo giardino (paradisus) dall'eterna primavera» (conf IX, 3, 5). E poi: «partito per la campagna (villa) con tutti i miei famigliari, ti benedicevo gioioso» (conf IX, 4, 7). Torneremo sulla villa. Per ora basti notare il valore simbolico di un luogo rurale detto «paradiso», scenografia di momenti di studio delle scritture e di indagini sui temi del male, dell'ordine del mondo, della felicità, tanto più forte quanto nei Dialoghi che riportano le discussioni su questi temi non mancano riferimenti al tempo inclemente, al freddo delle terre di Brianza, alla nebbia. In verità Cassago Brianza tra ottobre e febbraio non è molto primaverile. Un altro topos retorico (il locus amoenus di Virgilio, di Orazio e di molte pagine delle Confessioni) per dire di una terra ridente per lo spirito nonostante il freddo e la pioggia. I dialoghi trascritti, o per meglio dire riscritti, durante il soggiorno nella villa di Verecondo danno indicazioni chiare. La maggior parte delle discussioni a causa del brutto tempo avviene nelle termae, ovvero nei bagni riscaldati che i romani avevano costruito in ogni città a disposizione dei cittadini di ogni lignaggio e che si trovavano anche in ogni villa privata, se pur di piccole dimensioni. Anche il giorno del compleanno di Agostino, il 13 novembre, la torta di miele, farina e mandorle (oggi ancora venduta a Cassago come «torta della felicità») viene gustata tra i vapori delle terme, come ci racconta il dialogo De beata vita, che solo al terzo giorno di discussione vede dissiparsi «la nebbia che ci costringeva a riunirci nella sala dei bagni» (beat. vit. III, 4, 23), permettendo una passeggiata nel prato.

E nel dialogo sull'Ordine, uno degli interrogativi sul bene e sul male, quindi sull'ordine o il disordine del mondo, posti da Agostino nell'introduzione al discorso finale è «perché gli Italiani invocano sempre cieli sereni e invece sempre la nostra povera Getulia è assetata» (Ord. II, 5, 15)? La terra dei Getuli, ovvero il Nord-Africa, non ha le piogge che invece tormentano gli italici, come dice Virgilio nelle Georgiche («serenas hiemes orent»: Georg. 1, 100). Molti anni più tardi, nel Discorso 198 sull'Apocalisse, il vescovo di Ippona non avrà difficoltà a far comprendere la distanza tra gli angeli cattivi e quelli buoni, prendendo spunto dal peccato di superbia di Satana, che desiderò salire al posto di Dio, quindi a nord: «la zona settentrionale è all'opposto di quella meridionale, e per questo simboleggia la gente fredda e tenebrosa, mentre il mezzogiorno simboleggia le persone illuminate e ricche di calore. Pertanto i buoni, come gente che vive nel mezzogiorno, sono pieni di calore e di luce; al contrario i cattivi, da gente che vive a settentrione, sono freddi e vivono nelle tenebre, avvolti da oscura foschia». Il ricordo della nebbia di Lombardia non riusciva ad abbandonarlo. E veniamo all'ultimo luogo di verzura, a Ostia Tiberina, dove Agostino e la madre, prossima alla morte, sono protagonisti di un momento di estasi e di totale illuminazione. Questo si dà mentre sono «appoggiati a una finestra prospicente il giardino (hortus) della casa che ci ospitava, là, presso Ostia Tiberina, lontani dai rumori della folla» (conf IX, 10, 23).

La natura, nella serena forma addomesticata dell'hortus, accompagna ancora le scene di profonda comprensione del bene e del male, del senso della vita, in questo caso addirittura l'estremo e più alto momento dell'esistenza di Monica, dal quale anche il figlio riceve la luce tanto vanamente inseguita negli anni precedenti (conf VII, 17, 23). L'ascesa è graduale, secondo lo schema di conf VII, 17, 24 (gradatim), dalle realtà materiali alla mente a Dio. È il metodo del "ritorno" dell'anima in sé e poi al principio, ancora neoplatonico, seppur non sistematizzato da Plotino, come notò Courcelle [9], ma presente in Porfirio (nel De regressu animae) e in Plotino stesso in Enneadi I, 6; V, 1, e soprattutto V, 4, 15 ss.: «se uno contempla questo mondo visibile, considerandone la grandezza e la bellezza e l'ordine dell'eterno roteare e gli dei che vi si trovano [ ... ] e i demoni e gli animali e le piante tutte, salga allora al suo archetipo [ ... ] e veda tutto quello che vi è di intelligibile e di eterno in esso, in una propria intelligenza e vita, e poi contempli l'Intelligenza che presiede a tutto e la Sapienza instancabile e quella Vita che è veramente tale». La regio ubertatis è nel Salmo 72, 2, citato da Agostino, e richiama subito per contrasto la regio egestatis di conf II, 10, 18, e la regio dissimilitudinis di conf VII, 10, 16: il figliol prodigo è tornato a casa. Le praterie della verità sono tema che ricorre nel Fedro platonico: «il motivo per cui esse (le anime) mettono tanto impegno per vedere la pianura della verità è questo: il nutrimento adatto alla parte migliore dell'anima proviene dal prato che è là, e la natura dell'ala con cui l'anima può volare si nutre proprio di questo» (Phaedr., 248b-c). Contrapposto a questo, è invece lo scenario del teatro, il luogo ove il male non appare per dare una spiegazione di sé (come nel caso del furto delle pere), ma si propone con volgare sfrontatezza. A Cartagine, dice Agostino, «mi attiravano gli spettacoli teatrali (spectacula theatrica), colmi di raffigurazioni delle mie miserie e di esche del mio fuoco» (conf III, 2, 2), mentre più tardi sarà il giovane Alipio, a Roma, a essere travolto «in maniera incredibile da incredibile passione per gli spettacoli dei gladiatori» (conf VI, 8-13), dopo esser stato trascinato da amici all'anfiteatro. Alipio si copre gli occhi, ma non resiste alle urla del pubblico durante il combattimento: «vedere il sangue e sorbire la ferocia fu tutt'uno, né più se ne distolse, ma tenne gli occhi fissi e attinse inconsciamente il furore, mentre godeva della gara criminale e s'inebriava di una voluttà sanguinaria». Solo molto più tardi, longe postea, Alipio sarà sollevato da quell'abisso «con mano potentissima e misericordiosissima».

Non ci possiamo soffermare sul ruolo svolto dall'udito nel traviare il giovane, in una cultura dove il bene e la sapienza si attingono con gli occhi del corpo e della mente. Conviene invece seguire Alipio all'interno di un'altra scenografia, quella delle vie della città, luoghi di ambigui incontri. La città intesa nella sua complessità per Agostino è del tutto buona o cattiva, come appaiono nella sua narrazione Cartagine, Roma, Milano. Cartagine, la metropoli: «Giunsi a Cartagine, e dovunque intorno a me rombava la voragine degli amori peccaminosi", dove "inquinavo la polla dell'amicizia con le immondizie della concupiscenza, ne offuscavo il chiarore con il Tartaro della libidine» (conf III, 1, 1), scriverà un Agostino poco più che quarantenne nel terzo libro delle Confessioni. È il libro in cui sappiamo di un ragazzo amans amare, desideroso di amare, che si getta «nelle reti dell'amore, bramoso di esservi preso», nei circhi tra belve e gladiatori cerca un'eccitazione alla sofferenza che lo mantiene attento e felice tra le lacrime. Un «fiume di pece bollente in gorghi immani di oscuri piaceri» che ha nutrito secoli di agiografia. Siccome poi non gli occorre nessuna scenografia per nessun exemplum, non ci dice nulla di quella Roma che al primo sguardo avrebbe dato un senso alla vita di Goethe («Soltanto a Roma ho potuto ritrovare me stesso», si legge nel Viaggio in Italia). Piuttosto racconta di una malattia, dell'ospitalità dei correligionari manichei, dell'astuzia degli studenti che erano più disciplinati rispetto agli africani, ma al momento di pagare il maestro - non esistevano scuole come oggi intendiamo le scuole pubbliche - cambiavano tutti insieme scuola e professore. L'Italia non accolse bene il futuro Padre della Chiesa. Ma se per dire dell'arrivo a Cartagine abbiamo un laconico e significativo veni Chartaginem, per Roma uno sbrigativo et ego Romam, il viaggio verso Milano si conclude invece con un appassionato et veni Mediolanum ad Ambrosium episcopum, arrivai a Milano dal vescovo Ambrogio, quell' «uomo di Dio» che «mi accolse come un padre». La città dunque, nella sua interezza, propone abissi (le passioni e i teatri) oppure presenta soluzioni (gli incontri di Milano, Ambrogio e i "libri platonici"). Non altrettanto le vie e le piazze delle stesse città, scene di incontri carichi di ambiguità. Per le vie delle città infatti avvengono due incontri inquietanti, uno per Alipio, l'altro per Agostino stesso.

Ancora a Cartagine (sebbene il fatto sia raccontato come un flash-back, oltre la metà del sesto libro, conf VI, 9, 14-15), Alipio «sul mezzodì, nella piazza (in foro), meditava un discorso da recitare a scuola per esercizio», quando viene arrestato all'improvviso come ladro. Il vero ladro, infatti, aveva tentato di abbattere con una scure la cancellata che proteggeva la via degli orafi. Messo in fuga, aveva abbandonato la scure, alla quale lo sprovveduto Alipio si era avvicinato attratto dalle urla. Solo grazie al casuale sopraggiungere di un architetto, soprintendente agli uffici pubblici e amico di famiglia, Alipio fu liberato e poté contribuire alla cattura del vero ladro. Una triste storia, con una bella morale: Agostino scrive infatti che certamente Dio aveva permesso tale errore giudiziario affinché il ragazzo «cominciasse fin d'allora a imparare quanto debba rifuggire da una temeraria credulità nel condannare un altro uomo» colui che sarà giudice, «l'uomo che istruisce il processo». Questo in foro. E per le strade? I primi luoghi milanesi citati da Agostino sono le chiese dove si reca per ascoltare Ambrogio, «non però mosso da giusta intenzione», come confesserà poi: «volevo piuttosto sincerarmi se la sua eloquenza meritava la fama di cui godeva» (conf V, 13, 23). Un interesse professionale dunque, al quale si devono aggiungere il dovere diplomatico del nuovo arrivato di rendere omaggio al vescovo della capitale e poi il dovere filiale di accompagnare Monica alle funzioni, dopo esser stato da lei raggiunto nella primavera del 385. «In vicum Mediolanensem», tra i vicoli - ancora ben riconoscibili - della Milano capitale, mentre andava a recitare l'elogio dell'imperatore, Agostino provò invidia per un ubriaco felice della sua bevuta e della vita intera, almeno così pareva.

Non si fatica a immaginare l'elegante retore camminare verso la sede imperiale circondato da amici e segretari e attraversare le strade strette che ancora oggi tagliano la zona romana di Milano, perché tra un palazzo e l'altro lo spazio era esiguo e l'igiene, come in tutte le città fino al secolo scorso, nulla. Eppure lì l'uomo che si interroga sul bene e sul male riesce a provare stizza per il riso di un mendicante: «Il cuore ansimante di preoccupazioni e riarso dalle febbri di rovinosi pensieri, nel percorrere un vicolo milanese scorsi un povero mendicante, che, credo, ormai saturo di vino, scherzava allegramente. Sospirando feci rilevare agli amici che mi accompagnavano le molte pene derivanti dalle nostre follie». Tutte le fatiche di questi giovani brillanti non mirano ad altro che a «una gioia sicura, dove quel povero mendico ci aveva già preceduti». Anche se «egli non possedeva, evidentemente, la vera gioia», però «il risultato che egli aveva ottenuto con ben pochi e accattati soldarelli, ossia il godimento di una felicità temporale, io inseguivo attraverso anfratti e tortuosità penosissime» (conf VI, 6, 9).

Il vicolo e la piazza sono ambigui, e mettono a prova i sentimenti profondi di chi li attraversa, che in un certo senso è messo a nudo: si saggia l'ingenuità di Alipio, in vista del suo lavoro in ambito giuridico; si scaraventa davanti a un arrivato e annoiato Agostino una felicità da pochi soldi, quasi a sfidare la sua capacità di attingere ad altro genere di gioia e di senso della vita. Tutt'altra atmosfera evocano invece le ultime due "quinte" di cui trattiamo, ovvero la villa e la chiesa. La villa non è casa esattamente privata, nel senso che noi oggi diamo alla privacy. Però nella villa avvengono fatti intimi. Si è già accennato alla villa di Cassiciacum, basti ora citare l'incontro di Agostino con Ambrogio, nella cui villa «a nessuno era vietato l'ingresso e non si usava preannunziargli l'arrivo di chicchessia» (conf VI, 1, 3), i piccoli peccati di gola della giovane Monica ( conf IX, 8, 18) e la decisione di abbandonare l'Africa da parte di Nebridio, che «aveva lasciato il paese natio, nei pressi di Cartagine, e poi Cartagine stessa, ove lo si incontrava sovente; aveva lasciato la splendida tenuta del padre (relicto paterno rure optimo), lasciata la casa (relicta domo)» (conf VI, 10, 17). La chiesa va qui intesa come luogo materiale, rifugio e consolazione per Monica sulla spiaggia di Cartagine: «si rifiutò di tornare indietro senza di me, e faticai a persuaderla di passare la notte nell'interno di una chiesuola dedicata al beato Cipriano, che sorgeva vicinissima alla nostra nave» (conf V, 8, 15). La chiesa è rifugio anche per i cristiani milanesi, quando per non cedere le basiliche agli ariani protetti dall'imperatrice Giustina, vi si chiudono dentro, fondando contemporaneamente il sistema dell'occupazione più o meno abusiva e il canto liturgico, promosso da Ambrogio per rendere meno pesanti i giorni del presidio: Non da molto tempo la Chiesa milanese aveva introdotto questa pratica consolante e incoraggiante, di cantare affratellati, all'unisono delle voci e dei cuori, con grande fervore.

Era passato un anno esatto, o non molto più, da quando Giustina, madre del giovane imperatore Valentiniano, aveva cominciato a perseguitare il tuo campione Ambrogio, istigata dall'eresia in cui l'avevano sedotta gli ariani. Vigilava la folla dei fedeli ogni notte in chiesa, pronta a morire con il suo vescovo, il tuo servo. Là mia madre, ancella tua, che per il suo zelo era in prima fila nelle veglie, viveva di preghiere. Noi stessi, sebbene freddi ancora del calore del tuo spirito, ci sentivamo tuttavia eccitati dall'ansia attonita della città. Fu allora, che si cominciò a cantare inni e salmi secondo l'uso delle regioni orientali, per evitare che il popolo deperisse nella noia e nella mestizia, innovazione che fu conservata da allora a tutt'oggi e imitata da molti, anzi ormai da quasi tutti i greggi dei tuoi fedeli nelle altre parti dell'orbe (conf IX, 7, 15). È possibile che la diffusione dei canti nelle chiese sia incominciata con la contesa tra Ambrogio e Giustina. L'imperatrice madre infatti era filoariana e nella Quaresima del 386 aveva tentato di sottrarre ai cattolici la basilica Porciana per destinarla al culto ariano. Ambrogio aveva invitato i fedeli a occupare fisicamente, giorno e notte, la basilica, per impedire l'ingresso dei soldati: durante questa pacifica "occupazione" è possibile che il vescovo intrattenesse i fedeli esortandoli al canto degli inni da lui stesso composti (c. Aux., 34 e ep. 20). Così abbiamo, riportando ordine nelle diverse scenografie descritte da Agostino, come un crescendo: i teatri di Madaura e Cartagine, luoghi del male; le vie e le piazze delle città, ove tutto è ambiguo perché si può fare ogni genere di incontri; le case private (posto che questo aggettivo abbia un senso nel mondo romano, dove sconosciuti potevano arrivare alle camere dei padroni di casa senza problema); i giardini, ove tutto si manifesta, dall'orrore del male senza altro fine del male stesso (il furto di pere) alla meraviglia della luce divina (la conversione a Milano); la città, assoluta nell'essere per il bene o per il male; e infine le mura delle chiese, che non possono che far da rifugio durante i momenti di difficoltà, richiamando simbolicamente il senso di rifugio e quiete ricercato dal protagonista delle Confessioni.

L'opera si apre infatti mostrando già il luogo del riposo e si chiude con riferimento al "sabato" e al riposo eterno («Signore Dio, poiché tutto ci hai fornito, donaci la pace, la pace del riposo, la pace del sabato, la pace senza tramonto»: conf XIII, 35, 50), i luoghi descritti sono macchine sceniche che ambientano e rendono più perspicuo il viaggio descritto in quella sceneggiatura che sono le Confessioni.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA E ABBREVIAZIONI

 

AGOSTINO 2000 = AGOSTINO, Le confessioni, a cura di MARIA BETTETINI, traduzione di CARLO CARENA, Torino, Einaudi-Gallimard.

AGOSTINO 2006 = AGOSTINO, Tutti i dialoghi, a cura di GIOVANNI CATAPANO, traduzioni di MARIA BETTETINI, GIOVANNI CATAPANO, GIOVANNI. REALE, Milano, Bompiani.

BARTHES 1973 = ROLAND BARTHES, Le plaisir du texte, Paris, Editions du Seuil; tr. it. di LIDIA LONZI, Il piacere del testo, Torino, Einaudi 1975, ora in Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, Torino, Einaudi 1999).

BOOTH 1983 = WAYNE C. BOOTH, The Rhetoric of Fiction, Chicago-London, The University of Chicago Press (ed. or. 1963; tr. it. di ELEONORA ZORATTI e ALDA POLI, Retorica della narrativa, Scandicci, Firenze, La Nuova Italia 1996).

COURCELLE 1968 = PIERRE COURCELLE, Recherches sur les Confessions de saint Augustin, Paris, De Boccard.

D'AMICO 2007 = MASOLINO D'AMICO, Scena e parola in Shakespeare, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura.

MASNOVO 1946 = AMATO MASNOVO, S. Agostino, Brescia, La Scuola.

MUNDT 2012 = FELIX MUNDT (hrsg.), Kommunikaiionsraume im Kaiserzeitlichen Rom, Berlin-Boston, De Gruyter (Topoi. Berlin Studies of the Ancient World, 6).

NUSSBAUM 1995 = MARTHA C. NUSSBAUM, Poetic Justice. The Literary Imagination and Public Life, Boston (tr. it. di GIOVANNA BETTINI, Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, Milano, Feltrinelli 1996).

VON HERMANN 1992 = FRIEDRICH-WILHELM VON HERMANN, Augustinus und die phdnomenoìogieche Frage nach der Zeit, Frankfurt am Main, Klostermann (tr. it. DONATELLA COLANTUONO, Agostino e la domanda fenomenologica sul tempo, a cura di Costantino Esposito, Bari, Edizioni di Pagina 2015).

 

 

 

 

Note

 

(1) - Cfr. VON HERMANN 1992, 23-25

(2) - Cfr. AMBROGIO, off. 1, 2, 5

(3) - Si veda anche AMBROGIO, exp. Ps. 36, 66: «Ideo meditare semper, loquere quae Dei sunt, sedens in domo. Domum possumus accipere ecclesiam, possumus domum accipere interiorem in nobis, ut intra nos loquamur».

(4) - Cfr. BARTHES 1973 (tr. it. 1975, ora in 1999, 126-127)

(5) - Su questo, autorevole è D'AMICO 2007, reprint dell'edizione del 1974

(6) - Per la prima volta in MASNOVO 1946

(7) - Cfr BOOTH 1983, NUSSBAUM 1995

(8) - Per la traduzione italiana delle Confessioni, faccio riferimento ad AGOSTINO 2000; la traduzione italiana delle altre opere citate è invece tratta da AGOSTINO 2006

(9) - Cfr. COURCELLE 1968, 222-224