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SETTIMANA  agostiniana di Pavia: 1970

Sant'Agostino di Juan de Borgoňa a Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte

Sant'Agostino: di Juan de Borgoňa

Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte

 

SANT'AGOSTINO E I METODI EDUCATIVI DELL'ANTICHITA'

 

di Luigi Alfonsi

Ordinario Letteratura Latina dell'Università di Pavia

 

 

 

E' sintomatico che Agostino, uno dei maggiori rivoluzionari del pensiero, sia stato uno dei maggiori conservatori della scuola tradizionale (In generale si veda P. COURCELLE, Recherches sur les Confessions de Saint-Augustin, Paris 1950, pp. 49-60; H.I. MARROU, Storia dell'educazione nell'antichità, trad. it., Roma 1950, specialmente p. 348; p. 350; p. 360 con relativa nota 75, e 361 con note 85 e 86; p. 362; p. 363; p. 391 e note 36, 37, 38, 39, 40; p. 408 e n. 131; p. 413; p. 435 e p. 436, nonchè passim). Usitato iam discendi ordine perveneram in librum cuiusdam Ciceronis ... dice in Conf. III, 4; e già prima in de beata vita 4: postquam in schola rhetoris librum illum Ciceronis, qui Hortensius vocatur, accepi ... quasi a sottolineare che egli nei suoi studi non fece che seguire l'ordine consueto. Le novità saranno dal di dentro, dal suo spirito, e daranno modernità alle vecchie strutture.

Ma come mai ha potuto Agostino riconoscere la validità di un insegnamento che si imponeva attraverso verbera e cipigli e ferulae? Ricordate, prescindendo dal lontano plagosus Orbilius, cosa ce ne dice Prudenzio nella Praefatio: Aetas prima crepantibus flevit sub ferulis ... (vv. 7-8); ricordate come Ausonio consigliasse il nepos a discere libens e a non aver paura delle vergate:

 

tu quoque ne metuas, quamvis schola verbere multo

increpet et truculenta senex gerat ora magister

(Protr. ad nepot., v. 24 e 88)

 

E Sant'Agostino stesso ha pagine vive, e non certo convenzionali e retoriche, su quella che è la sofferenza dell'apprendere, il peso della scuola in tutte le discipline, senza eccezione; la costrizione che egli giudica necessaria, e cui é colpa resistere: in ipsa tamen pueritia … non amabam litteras et me in eas urgeri oderam; et urgebar tamen et bene mihi fiebat; nec faciebam ego bene: non enim discerem nisi cogerer.

E continua: «nessuno in verità riesce a far bene se non ne ha voglia, anche se quel che riesce a fare é un bene» (Ci serviamo della traduzione di A. MARZULLO, in SANT'AGOSTINO, Le Confessioni, Introduzione testo e traduzione a cura di A. M., premesse e note a cura di V. FOA' GUAZZONI, Bologna 1968.) (Conf. 1, 12).

Il libero consenso della volontà é necessario perché l'azione buona sia veramente tale (Le Confessioni, op. cit., p. 41, Introduzione a I, 12 di V. FOA' GUAZZONI). Ma perché Agostino studiava di malavoglia, pur riconoscendo che tale studio era un bonum che giustificava la stessa costrizione? In realtà la colpa era dei maestri e forse anche dei familiari, i quali lo spingevano allo studio non per amore puro del sapere e del bene, ma per fini di vanità e di successo: Nec qui me urgebant bene faciebant, sed bene mihi fiebat abs te, Deus meus. llli enim non intuebantur quo referrem quod me discere cogebant praeterquam ad satiandas insatiabiles cupiditates copiosae inopiae et ignominiosae gloriae (Conf. I, 12).

Dunque la cultura era un bene e andava acquisita, quella cultura: errore era in chi ne distorceva i fini, anzi il fine sommo, che non é quello di servire ambizioni ed interessi. Verrebbe la voglia, analogamente a quanto da altri é stato proposto per un passo non molto posteriore al citato (COURCELLE, op. cit., p. 30, n. 4 tra Conf. I, 19 e Seneca de const. sap. XII, l, raffronto istituito già dal De Labriolle), sempre delle « Confessioni », di pensare ad un motivo topico, retorico e di ricordare i capitoli iniziali del Satyricon petroniano, dove il retore Agamennone si lamenta appunto delle ambiziose pretese dei genitori che mettono in testa ai loro figlioli chimere di successo immediato (c. 4).

Ma la realtà del quadro agostiniano é troppo incisiva, per pensare solo a ripresa letteraria. Diciamo che qui c'é la denuncia di un costume o malcostume educativo ... forse non solo antico. Agostino, mentre ripudia questa falsificazione ed esteriorizzazione del fatto educativo, accetta come necessaria la sofferenza espiatrice che é nell'apprendere: «Tu, egli dice a Dio, tu vero, ..., errore omnium qui mihi instabant ut discerem utebaris ad utilitatem meam, meo autem qui discere nolebam utebaris ad poenam meam, qua plecti non eram indignus tantillus puer et tantus peccator (Conf. XII). In questo modo tu facevi ridondare a mio bene quanto quelli facevano non certo a fin di bene; e quanto a me, che certo peccavo, tu mi attribuivi giusta pena ».

E così l'errore dei maestri che superficializzavano e materializzavano la cultura e lo spirito recalcitrante dell'allievo diventano in Agostino, ad opera di Dio, più alta e completa scuola interiore: Iussisti enim et sic est, ut poena sua sibi sit omnis inordinatus animus (Conf. I, 12).

Ma quali queste discipline così pesanti? All'inizio tutte: legere et scribere et numerare (Conf. I, 13); poi però a Madaura nella scuola secondaria, cominciò ad amare le lettere latine non quas primi magistri, sed quas docent qui grammatici vocantur (Conf. 1,13); mentre invece odiò le lettere greche quid autem erat causae ... ne nunc quidem mihi satis exploratum est (Conf. 1,13).

E se pure nel rigorismo, di cui sono impregnate le « Confessioni », attribuisce al peccato et vanitate vitae la preferenza accordata agli Aeneae nescio cuius errores oblitus errorum meorum, e al compianto per Didone morta nei confronti dell'apprendimento del leggere e scrivere, e quasi sembra disprezzare la cultura letteraria (talis dementia honestiores et uberiores litterae puntantur quam illae quibus legere et scribere didici, Conf. I, 13), bisogna tenere presente che nel De ordine di un decennio prima si dà in forma dilemmatica l'assoluta indispensabilità del tipo di cultura filosofico-umanistico-dialettica. «O seguire questo lungo cammino o rinunciare a tutto» (MARROU, op. cit., p. 113 e n. 131.): aut ordine illo eruditionis aut nullo modo (Ord. II, 18, 47) (Si veda anche nella "Vita di Ambrogio" di Paolino di Milano c. 5 edoctus liberalibus disciplinis: nè risulta che Ambrogio abbia mai discusso la validità di tale sua formazione umanistica classica). Ma c'é di più: e gli é che però lo stesso Agostino mette in evidenza l'incanto spontaneo e libero della cultura letteraria e così riconosce la sua stessa funzione educativa: «Peccavo dunque quando da fanciullo mostravo maggior attaccamento a quelle fole (la vicenda di Enea) che non ai più utili precetti scolastici; anzi questi ultimi li odiavo, mentre di quelle altre ero tutto preso. Ché in realtà unum et unum duo, duo et duo quattuor odiosa cantio (cantilena) mihi erat, et dulcissimum spectaculum vanitatis equus ligneus plenus armatis et Troiae incendium atque ipsius umbra Creusae (Conf. I, 13)

(E si noti la citazione letterale da Aen. II, 772. Non è qui il luogo di ristudiare quanto già Schelkle ha fatto: ma è bene notare come il patetico vergiliano (errori di Enea, dramma di Didone, scomparsa di Creusa) impressionasse particolarmente Agostino). Non basta: ma egli individua proprio nella libera curiosità la ragione del suo amore per le fabellae latine e viceversa del suo odio per le analoghe dei greci, dello stesso Omero. Gli é che il latino lo apprese sine ullo metu atque cruciatu inter etiam blandimenta nutricum et ioca adridentium et laetitias adludentium: anzi: didici vero illa sine poenali onere urgentium, cum me urgeret cor meum ad parienda concepta sua, da cui viene la limpida enunciazione didattica: hinc satis elucet maiorem habere vim ad discenda ista liberam curiositatem (si noti!) quam meticulosam necessitatem (Conf. I, 14).

Apprese insomma il greco come lingua peregrina, straniera, ché, come osserva Marrou (op. cit., p. 350), da piccolo borghese d'Africa, «non potè conoscere il lusso d'una governante greca ». Ma opportuno al riguardo il richiamo al controllo che la «curiosità» (Su questo aspetto della cultura latina dell'età imperiale si veda H.I. MARROU, Saint Augustin et la fin de la culture antique, "Retractatio", Paris 1949, pp. 683-686) deve trovare nelle leggi di Dio « quelle leggi, dice, che vanno dalla ferula dei maestri sino alle prove dei martiri, quelle leggi che riescono a dosare certe loro proprie salutari asprezze, che sono quelle che ci riconducono a te, allontanandoci da quelle piacevolezze pestifere che ci avevano distolto da te» (Conf. I, 14).

Possiamo dunque dire che Agostino accetta l'ordine scolastico classico, rivalutando, soprattutto per il latino, la libera curiositas (e già Quintiliano nel I libro si scagliava contro le costrizioni nella educazione, specialmente per l'insegnamento del greco). Pur attaccando, su una trama platonica, la finzione artistica, accetta il programma iniziale di poesia latina e greca (che capovolto, nella Graeca urbs di Petronio, vediamo proposto da Agamennone, c. 5 v. Il det primos versibus annos, ma con in più aspetti creativi); sente il peso dell'apprendere, e rimane perplesso davanti alla necessità, alle volte, dell'intervento energico, tanto da dichiarare poi alla fine della sua vita nella «Città di Dio » XXI, 14, non immemore delle sofferenze dei suoi anni di scuola: non enim parva poena est insipientia vel imperitia, quae usque adeo fugienda merito iudicatur, ut per poenas doloribus plenas pueri cogantur quaeque artificia vel litteras discere; ipsumque discere, ad quod poenis adiguntur tam poenale est eis, ut nonnunquam ipsas poenas, per quas compelluntur discere, malint ferre quam discere (COURCELLE, op. cit., p. 50 n. 3 e MARROU, Storia dell'educazione, op. cit., p. 361 e n. 86).

E infatti, nonostante il formalismo che egli rimprovera, da posizioni rigoriste ripetiamo, alla scuola, troppo vincolata alla letteratura e poco o punto alla legge di Dio, non può non confessare didici enim in eis multa verba utilia e non può rinunciare a mettere a servizio di Dio quanto ha appreso: Ecce enim tu, Domine, rex meus et Deus meus, tibi serviat quid. quid utile puer didici, tibi serviat quod loquor et scribo et lego et numero, quoniam, cum vana discerem, tu disciplinam dabas mihi et in eis vanis peccata delectationum mearum dimisisti mihi. Didici enim in eis multa verba utilia ... (Conf. I, 15).

Ma del resto come poteva Agostino respingere o ripudiare, ad onta di certe sue riserve sull'insegnamento della poesia e della grammatica, la scuola classica? Non era essa, che, nonostante i suoi limiti (che sono i limiti di ogni umana cosa), gli aveva creato l'animo alla ricerca, non era essa che gli aveva trasformata la vita? Infatti Agostino passa alla scuola di retorica a Cartagine (sui termini e sul valore si veda ora A. Della Casa, Il Dubius Sermo di Plinio, Genova 1969, pp. 82-85): può stupire la valutazione negativa: habebant et illa studia quae honesta vocabantur, ductum suum intuentem fora litigiosa, ut excellerem in eis, hoc laudabilior quo fraudolentior. Tanta est caecitas hominum de caecitate etiam gloriantium! (Conf. III, 3). Ma é tradizionale: si ricordi Ovidio, il Catalepton V, quasi sicuramente vergiliano, Seneca filosofo, Petronio ecc. Il fatto é che Agostino brillava, anche a detta degli amici, in quella scuola: maior iam eram in schola rhetoris et gaudebam superbe et tumebam tyfo ... (Conf. III, 3) e vi faceva buone prove e si teneva lontano da cagnare e da scioperati o teppisti (che non amò neppure da insegnante!): remotus amnino ab eversionibus quas faciebant eversores - hoc enim nomen scaevum et diabolicum velut insigne urbanitatis est - inter quos vivebam pudore impudenti quia talis non eram ... (Conf. III, 3). Ma fu appunto qui, in questa scuola e in questo momento che avvenne il miracolo: l'incontro con Cicerone, con Cicerone maestro di filosofia più che di retorica. Come la grammatica aveva costituito l'approccio, sia pur condannato e riprovato, con la poesia quale appassionata dedizione estetica, così la retorica per Agostino é alla base della fondamentale sua esperienza filosofica.

L'Hortensius portò quindi Agostino dall'esterno all'interno, lo distolse dalle vanità, tutte le vanità del mondo, avviandolo alla ricerca dell'« io » vero. E questo libro, come pure la Consolatio ciceroniana in parte per Lattanzio, era un punto fisso nel programma di quella scuola che si apriva precisamente colla grammatica insegnata anche a forza di nerbate! Usitato iam discendi ordine con quel che segue, si ricordi (Per quest'incontro con relativa bibliografia COURCELLE, op. cit., pp. 57.60; M. TESTARD, Saint Augustin et Cicéron, I e II, Paris 1958, passim, ma particolarmente vol. I, pp. 19-39)! L'impressione esercitata sull'animo del giovane, che allora era impegnato sui libros eloquentiae in qua eminere cupiebam fine damnabili et ventoso per gaudia vanitatis humanae (Conf. III, 4), fu immensa e se ne colgono gli echi in molteplici sue opere. Ille vero liber mutavit affectum meum et ad te ipsum, Domine, mutavit preces meas et vota ac desideria mea fecit alia. Esso exhortationem continet ad philosophiam (Conf. III, 4), é un protrettico, adattamento romano di quello greco di Aristotele, non senza altri modelli (Poseidonio ad es.). E é in esso, in contrapposizione alla eloquenza come pura arte forense, l'esaltazione della filosofia in sé e per sé, della universa philosophia, non di un sistema singolo: della filosofia come disinteressata disciplina (niente ambizioni di genitori!) di vita, che supera tutte le vanità e le aspirazioni del mondo, come esistenza teoretica nei confronti della pratica, come porta dischiusa infine sul mistero, con una speranza se non proprio con una certezza di immortalità.

Nel riprendere l'antitesi platonica di anima e corpo, di essere e divenire, Aristotele prima e Cicerone poi ripetono anche il socratico dubbio (Apol. 32) davanti alla morte quae nobis dies noctesque considerantibus acuentibusque intelligentiam quae est mentis acies, caventibusque ne quando illa hebescat, id est in philosophia viventibus, magna spes est: aut si hoc quo sentimus et sapimus mortale et caducum est, iucundum nobis perlunctis muneribus humanis occasum neque molestam exstinctionem et quasi quietem vitae fore; aut si, ut antiquis philosophis iisque maximis longeque clarissimis placuit, aeternos animos ac divinos habemus, sic existimandum est, quo magis hi fuerint semper in suo cursu, id est in ratione et in investigandi cupiditate, et quo minus se admiscuerint atque implicuerint hominum vitiis et erroribus, hoc eis laciliorem ascensum et reditum in caelum fore ... Quapropter, termina il frammento ciceroniano proprio da Agostino trasmessoci (fr. 115 Grilli da De Trinit. 14, 19, 26), ut aliquando terminetur oratio (cfr. però S. Monti, Una probabile interpolazione in un passo dell'Hortensius ciceroniano nel De Trinitate di S. Agostino, in « Rendiconti dell'Accademia di Archeologia, Lettere e belle Arti di Napoli 1964, Napoli 1965, pp. 3.6 estratto), si aut exstingui tranquille volumus cum in his arcibus vixerimus, aut si ex hac in aliam haud paulo meliorem domum sine mora demigrare, in his studiis nobis omnis opera et cura ponenda est. Ed anzi si aprono prospettive di cielo rinunciando alla stessa eloquentia: si nobis, cum ex hac vita migrassemus, in beatorum insulis immortale aevum, ut fabulae ferunt, degere liceret, quid opus esset eloquentia, cum iudicia nulla fierent, aut ipsis etiam virtutibus? ... Una igitur essemus beati, così si conclude in quest'altro frammento pur esso donatoci da Agostino (fr. 110 Grilli da De Trinit. 14, 9, 12), cognitione naturae et scientia, qua sola etiam deorum est vita laudanda.

La scuola retorica insegnò insomma ad Agostino non tanto ad acuere linguam quanto la vera sapientia: viluit mihi repente omnis vana spes et immortalitatem sapientiae concupiscebam aestu cordis incredibili et surgere coeperam ut ad te redirem (Conf. III, 4). Quante persone avevano letto in quella scuola 1'« Ortensio » ciceroniano, e non ne avevano tratto alcun sostanziale giovamento! Anzi, a proposito di simili esortazioni, si parla perfino di «chiacchiere protrettiche» προτρεπτιχα λογάρια come dice (I, 7) Marco Aurelio. Ma proprio la reazione eccezionale, straordinaria, che quest'opera suscitò nell'animo di Agostino, é conferma di quanto diciamo: che egli in sostanza accetta la scuola tradizionale, rinnovandola dal di dentro, investendola di un nuovo soffio di responsabilità, addolcendola di comprensione per la necessaria fatica, riscoprendo nelle letture in essa vigenti essenziali contenuti. L'« Ortensio » fu per lui quindi l'iniziazione non tanto alla retorica quanto alla filosofia e a più profonde istanze religiose. Non crediamo di andare errati pensando che la successiva evoluzione di Agostino, nel senso stesso di fede astrologica, di misticismo manicheo, di neoplatonismo e poi di cattolicesimo, sia stata determinata dalla lettura dell'operetta ciceroniana: tanto amore philosophiae succensus sum ut statim ad eam me terre meditarer.

Ma, continua nel c. 4 del de beata vita, neque mihi nebulae defuerunt quibus confunderetur cursus meus et diu, fateor, quibus in errorem ducerer, labentia in Oceanum astra suspexi. Ma come mai? Ricordiamo che l'Hortensius concettualmente non é lontano dal Somnium Scipionis, ed entrambi, come e Harder e Jaeger e Bignone (Basti ricordare E. BIGNONE, L'Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, vol. I, Firenze 1936, pp. 69.98; pp. 227-261; W. JAEGER, Aristotele, trad. it., Firenze 1935, pp. 48.132; R. HARDER, Über Ciceros Somnium Scipionis, in « Kleine Schriften », München 1960, pp. 354-395; per il possibile momento astrologico di Agostino riflesso in de b.v. 4 si veda L. ALFONSI, Sant'Agostino, de beata vita, c. 4, in "Riv. di bil. cl.» 1958, pp. 249-254) hanno mostrato, si riportano, più ancora che a Posidonio, a quel fondo platonico-aristotelico misticizzante e orientalizzante che fu poi assai caro poi ai neoplatonici. Che Macrobio abbia commentato proprio il Somnium Scipionis é una conferma come l'Hortensius potesse segnare il primo passo sulla via che doveva condurre Agostino a Platone e a Plotino (Si veda M.F. SCIACCA, Agostino e i «Platonici», in «L'Itinerario della Fede in S. Agostino », Pavia 1969, pp. 47-60), sino poi a Cristo. E tanto più questo é possibile in quanto, come é stato osservato, Agostino continua da autodidatta la sua formazione filosofica, mentre altri come il suo discepolo, collega e amico Alipio, socialmente più favoriti, possono portare più avanti i loro studi, passano il mare, e vanno a Roma per dedicarsi pienamente al diritto (MARROU, Storia dell'educazione, op. cit., p. 391).

Ma, é da notare, l'iniziazione alla filosofia avvenuta alla scuola del retore, che agisce come formazione del carattere, avviamento alla meditazione, riflessione sui supremi problemi, iniziazione effettuatasi come lo straordinario nell'ordinario di un normale e tradizionale programma di studi, non comporta rifiuto della retorica. Anzi si ricordi come Agostino al c. II del libro VI delle « Confessioni », nel trentesimo anno di età ripensi alla sua vita dal diciannovesimo in poi, quo fervere coeperam studio sapientiae, in un interiore conflitto di contrastanti propositi e domande: e tra queste si imponga il quesito del suo insegnamento di retorica agli allievi, che gli sottraeva tempo per studiare la fede cattolica: antemeridianis horis discipuli occupant: ceteris quid facimus? Cur non id agimus? Sed quando salutamus amicos maiores quorum suffragiis opus habemus? Quando praeparamus quod emant scholastici? Quando reparamus nos ipsos relaxando animo ab intentione curarum? Pereant omnia et dimittamus haec varia et inania: conferamus nos ad solam inquisitionem veritatis ... Ma si affacciano residue ambizioni, anche politico-amministrative (cfr. Prudenzio Praefatio vv. 16-21) «ma attendi un poco: i beni di questa terra sono anche essi attraenti, habent non parvam dulcedinem suam ... Consideriamo del resto quanto ci vuole ut impetretur aliquis honor (per ottenere una qualsiasi carica). E allora, quando le abbiamo raggiunte, che cosa dobbiamo desiderare di più? Hai a tua disposizione quanti amici vuoi molto importanti; se proprio non abbiamo premura di ottenere qualche cosa di meglio, ti si può offrire il comando di una provincia vel praesidatus dari potest! (Conf. VI, II)

(Per la storia anche interiore di Agostino nelle diverse età, come riflessa nelle Confessiones si veda L. F. PIZZOLATO, Le Confessioni di Sant'Agostino, - Da biografia a "confessio", Milano 1968, pp. 28-126 specialmente e passim). Si può quindi dire che Agostino abbraccia in pieno, perfino nella sua logica conclusione amministrativa, il programma primario, grammaticale, retorico della scuola antica: con molte riserve per il suo formalismo, per l'ambizione fine a se stessa, per il suo rigore, talora indispensabile, ma sempre penoso: però anche il riconoscimento della sua positività, soprattutto per la lettura di opere, specialmente di indole filosofica, che esso comportava. E ancora è notevole che egli lo accetti, pur non avendolo seguito con rigoroso ordine, ma con interruzioni e riprese dovute a condizioni non sempre floride della sua famiglia (Si veda MARROU, Storia dell'educazione, op. cit., p. 391).

Ed anzi lo recuperi facendone scuola di virtù ed avviamento a Dio, alla conquista sua di Dio, prima di tutto. E questo programma metodico che é quello stesso di Apuleio (prima creterra litteratoris rudimento eximit, secunda grammatici doctrina instruit, tertia rhetoris eloquentia armat, Flor. XX, 3; e al rovescio in Svetonio, de gramm. 6 si veda il caso di Aurelius Opillus che philosophiam primo, deinde rhetoricam, novissime grammaticam docuit.), egli rivive prima di tutto nella sua attività di insegnante: saecularibus litteris eruditus apprime, omnibus videlicet disciplinis imbutus, quas liberales vocant. Nam et grammaticam prius in sua civitate et rhetoricam in Africae capite Carthagine postea docuit. Consequenti etiam tempore trans mare in urbe Roma et apud Mediolanium (come dice Possidio, suo biografo, al c. 1, 1-2). Poi Agostino applicò tale metodo alla catechesi, nel de cathechizandis rudibus del 400: ed esso, come é visibile già anche dal de magistro e dal piano di un'enciclopedia delle arti liberali, di cui compose col de musica la prima parte, rimase sempre vivo e attivo nel suo spirito. Infatti culturalmente Agostino (come poi il suo grande allievo Cassiodoro (Sia lecito rimandare al mio studio Cassiodoro e le sue «lnstitutiones », in « Klearchos» 1964, pp. 7.20 specialmente) alla prima comunità che aveva raccolto attorno a sè a Tagaste, ancora laico, aveva dato il carattere di monastero colto, prescrivendo l'esistenza di una biblioteca, in cui (come possiamo dedurre dall'analogia delle lnstitutiones di Cassiodoro!) non dovevano mancare i libri delle 7 arti liberali: e probabilmente (Marrou, op. cit., p. 436) la sua scuola monastica divenne, lui vescovo di Ippona, scuola episcopale, sempre basata sugli stessi principi, ed animata di stesso fervore apostolico.

Un ultimo punto: anche per le donne Agostino vuole cultura: e mentre Marziale, come è stato osservato, nei suoi sogni borghesi, desiderava una donna che non fosse «troppo sapiente », Agostino, immaginando nei suoi Soliloquia I, 10, 17 una fidanzata ideale, la vede «capace di leggere e scrivere o almeno che possa essere facilmente istruita dal suo sposo» (MARROU, Storia dell'educazione, op. cit., p. 363): e nelle «Regole» di ispirazione e discendenza agostiniane, come in quella di S. Cesario d'Arles, che é la più illustre creata per le donne, si « prescrive non vengano accettate fanciulle che non abbiamo almeno 6 o 7 anni, l'età in cui sono capaci di imparare a leggere e scrivere: tutte le religiose dovranno imparare a leggere, omnes litteras discant; ogni giorno dedicheranno due ore alla lettura e ricopieranno dei manoscritti » (Marrou, op. cit., p. 435). E naturalmente se lo studio delle lettere è così raccomandato alle donne ..., a fortiori lo è agli uomini; sicchè per merito principale di Agostino si può dire che anche nei giorni più oscuri « il monastero occidentale è rimasto un focolare di cultura (Marrou, op. cit., p. 436).

Ma c'è ancora dell'altro: Agostino ha seguita ed ideologicamente accettata dunque nella sostanza, come metodo, la scuola antica e i suoi contenuti, con accentuazione per l'aspetto retorico, filosofico e trascuratezza se non omissione, per quello puramente letterario ed estetico (Si veda N. SCIVOLETTO, Lezioni di letteratura latina medievale, Roma 1965, p. 104). Anche nella pratica la sua cultura rivela il carattere epitomatorio della notizia e del dato che è tipico della Spätantike, pur se il suo genio sa costruire sintesi assolutamente nuove. Però una questione può prestarsi a discussione in rapporto a quanto detto precedentemente. Ed é l'atteggiamento teorico di Agostino nei confronti dell'eloquentia e della retorica. Il problema è stato lungamente discusso da lui soprattutto nel IV libro del de doctrina christiana (Si veda CHR. MOHRMANN, Problèmes stylistiques dans la littérature latine chrétienne, in «Vigiliae Christianae» 1955, pp. 236-241 per noi pertinenti (ora in CHR. MOHRMANN, Etudes sur le latin des Chrétiens, tome III, Roma 1965, pp. 162-165).), scritto dopo il 426, quando egli nelle Retractationes parlava delle sue stesse opere, come scritte adhuc saecularium litterarum inflatus consuetudine. Orbene egli conferma anche qui il valore e l'utilità dell'eloquentia: cum ergo sit in medio posita facultas eloquii, quae ad persuadenda seu prava seu recta valet plurimum, cur non bonorum studio comparatur ut militet veritati, si eam mali ad obtinendas perversas variasque causas in usus iniquitatis et erroris usurpant? (de doctr. chr. IV, 2, 3). Ma essa non è che uno strumento e non bisogna cercarla per se stessa. Quindi per il cristiano non sarebbe indispensabile. Così come non è indispensabile la retorica, se pur può essere utile per raggiungere l'eloquenza.

Ora il punto di vista di S. Agostino è molto sfaccettato. Ma si vorrebbe trovare in S. Agostino, che pur riconosce eloquenza e retorica, anche una nuova posizione rivoluzionaria: basterebbe che il Cristiano facesse oggetto di studio e di meditazione attenta e quotidiana i maestri e i modelli dell'eloquenza sacra: la Sacra Scrittura prima di tutto e poi i migliori dei grandi autori cristiani. Infatti, egli dice, c'é un'eloquenza naturale, che ignora precetti e massime: et tamen in sermonibus acque dictionibus eloquentium impleta reperiuntur praecepta eloquentiae, de quibus illi ut eloquerentur vel cum eloquerentur non cogitaverunt, sive illa didicissent, sive ne attigissent quidem. lmplet quippe illa quia eloquentes sunt, non adhibent ut sint eloquentes (de doctr. chr. IV, 3, 4). Potrebbe quindi apprendersi l'eloquenza leggendo, ascoltando gli eloquenti, così come gli infanti imparano a parlare: quapropter, cum ex infantibus loquentes non fiant nisi locutiones discendo loquentium, cur eloquentes fieri non possint nulla eloquendo arte tradita sed elocutiones eloquentium legendo et audiendo et, quantum assequi conceditur, imitando? Quid, quod ita fieri ipsis quoque experimur exemplis? Nam sine praeceptis rhetoricis novimus plurimos eloquentiores plurimis qui illa didicerunt; sine lectis vero et auditis eloquentium dispu- tationibus vel dictionibus neminem (de doctr. chr. IV, 3, 5).

L'esempio dei grandi oratori è più efficace che i praecepta dei retori: ecco quindi che gli esempi, cui si debbono ispirare i Cristiani dotati per l'eloquenza, sono in primo luogo la Sacra Scrittura, e poi i grandi autori cristiani: si acutum et fervens adsit ingenium, facilius adhaeret eloquentia legentibus et audientibus eloquentes, quam eloquentiae praecepta sectantibus. Nec desunt ecclesiasticae litterae, etiam praeter canonem in auctoritatis arce salubriter collocatum, quas legendo homo capax, etsi id non agat sed tantummodo rebus quae ibi dicuntur intentus sit, etiam eloquio quo dicuntur, dum in his versatur imbuitur, accedente vel maxime exercitatione sive scribendi sive dictandi, postremo etiam dicendi, quae secundum pietatis ac fidei regulam sentit (ibid. IV, 3, 4). Certo parrebbe, questa posizione, totalmente nuova, e contro l'ordine di studi tradizionale. Ma lo è molto meno di quanto si creda, riflettendo una discussione viva nell'ambito stesso della scuola retorica. La Mohrmann ha citato come possibile fonte di S. Agostino al riguardo il περί ύψουζ.

Ma senza scomodare autori greci, basta pensare alle filippiche contro le vuote e sterili declamazioni, avulse dalla realtà contemporanea, contenute in Seneca il Vecchio (Contr., Praef. I, 6-9), in Petronio (1-2), nel dialogus de oratoribus (cc. 33-36): e ricordare come si insistesse per lo studio dei grandi autori, e per l'eloquenza - soprattutto nel dialogus - si rievocasse l'antica prassi di accompagnarsi giovane a un insigne oratore, per apprendere dalla sua viva e diuturna vicinanza l'autentica oratoria. A parte i legami dell'insegnamento stilistico agostiniano con Cicerone e Quintiliano, rilevati dallo stesso Auerbach (E. AUERBACH, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano 1960, pp. 33-67 (Sermo humilis)), anche qui il capovolgimento del concetto di humilis è tutto interiore nell'ambito della stessa precettistica antica, dandosi una nuova dignità a quanto era giudicato nella scala inferiore. E così Agostino poneva le premesse teoriche di un nuovo classicismo cristiano con suoi propri auctores da potersi affiancare agli antichi. Rivoluzionario dunque sì anche in questo caso S. Agostino, ma sempre nel senso da noi già illustrato: di ricreare dal di dentro, mantenendola, la tradizione, permeata di afflato nuovo: ai grandi maestri e scrittori classici sostituisce i Sacri Testi e gli scrittori cristiani, eliminando se mai in questa fase i poeti e con ciò portando al deterioramento del carattere estetico tipico, come si è visto, dell'educazione letteraria classica: si anticipa già la sintesi culturale che sarà del Medio Evo, un filone essenziale dell'età moderna.