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CICLo AGOSTINIANo di Marzio Ganassini a Viterbo

Affreschi di Ganassini nel chiostro della chiesa della SS. Trinità: Inviato a Milano da Simmaco

Particolare della scena in cui Agostino viene inviato a Milano da Simmaco

 

 

MARZIO GANASSINI

1610

Chiostro della Chiesa della SS. Trinità a Viterbo

 

Inviato a Milano da Simmaco

 

 

 

L'iscrizione in margine al dipinto riporta: Discedens Roma Simaco praetore iubente se confert Mediolanum lecturus ad Urbem. La scena si svolge in una ampia camera aperta su una balconata. Seduto su una cattedra nobile Simmaco, con un cappello nero in testa, si rivolge ad Agostino e sembra impartirgli l'ordine di andare a Milano presso la corte imperiale a svolgere la sua attività di insegnante. Agostino è ritto in piedi, con una faccia giovanile e il cappello fra le mani, con la testa leggermente reclinata in un atteggiamento di obbedienza al comando di Simmaco. Alle spalle di Agostino ci sono due persone, forse funzionari, o forse suoi amici: a destra, in primo piano, se ne sta seduta una persona con un cappello piumato. Dalla balconata della stanza il panorama si apre alla vista della città.

 

L'episodio si riferisce all'incontro che avvenne a Roma tra Agostino e il prefetto della città, il nobile Simmaco, che era imparentato con il vescovo Ambrogio. Simmaco tuttavia era pagano e sul finire del IV secolo apparteneva all'ala conservatrice romana che intendeva salvaguardare il patrimonio storico-religioso delle antiche divinità romane.

Per questo Simmaco, accogliendo una richiesta di una delegazione milanese, affidò ad Agostino, manicheo, il compito di insegnare a Milano presso la corte imperiale con lo scopo di dare ai milanesi un professore non cristiano.

 

Quinto Aurelio Simmaco (320 circa – 402/403) fu un senatore, console e poi praefectus urbis pagano del tardo Impero romano. È considerato il più importante oratore in lingua latina della sua epoca, paragonato dai contemporanei a Cicerone. La sua famosa relazione sulla controversia riguardante l'altare della Vittoria fu però fallimentare. Il suo coinvolgimento con un usurpatore e la sua opposizione all'imperatore cristiano Teodosio I lo obbligarono ad allontanarsi dalla vita politica. Negli ultimi anni della sua vita si dedicò alla filologia, disciplina che si può considerare fondata da lui. Tra il 365 e il 402 fu al centro di una corposa rete di scambi epistolari, che permettono di formare un ritratto insolitamente ricco per un personaggio non-cristiano della fine del IV secolo. Simmaco apparteneva ad una nobile famiglia romana di rango senatoriale, che aveva raggiunto un alto livello di influenza sotto Costantino I. Suo padre era Lucio Aurelio Avianio Simmaco, praefectus urbis di Roma nel 364-365 e console designato per il 377. La famiglia dei Symmachi aveva rapporti stretti con i Nicomachi, altra famiglia nobile ed influente; Simmaco strinse un rapporto d'amicizia con Virio Nicomaco Flaviano. Sposò, non oltre il 371, Rusticiana, da cui ebbe Quinto Fabio Memmio Simmaco; la figlia, invece, sposò nel 393 l'omonimo figlio di Flaviano, e in questa occasione fu probabilmente prodotto il dittico di Simmaco-Nicomaco. Suo bisnipote fu Quinto Aurelio Memmio Simmaco, autore di una Storia romana andata persa e padre adottivo del filosofo Boezio.

Tra i suoi discendenti, dopo l'unione con la gens Anicia, vi fu anche papa Gregorio I. La famiglia dei Symmachi era molto potente e ricca; tra i suoi possedimenti vanno considerate tre dimore a Roma e una a Capua e quindici ville suburbane, tre delle quali a Roma. Fu educato in Gallia e fu amico di Decimo Magno Ausonio, fu anche un buon conoscitore della letteratura greca e della letteratura latina. Nel suo cursus honorum ricoprì importanti cariche tra cui: proconsole d'Africa nel 373, praefectus urbis dal 383 al 385, fino a diventare console nel 391. In qualità di prefetto di Roma scrisse molti rapporti, o relationes. La più notadi questa relazioni è quella rivolta all'imperatore Valentiniano II nel 384 in cui si schiera a favore del mantenimento della antica Religione romana nelle cerimonie ufficiali dello Stato. L'occasione fu data dalla polemica sorta in occasione della rimozione dell'altare della Vittoria dalla curia del Senato romano, voluta dai senatori cristiani. I senatori pagani rendevano infatti ad essa omaggio, considerandola come simbolo della romanità e della sovranità dello stato, più che come divinità. I senatori cristiani, offesi da questo comportamento, ottennero nel 382 dall'imperatore Graziano, la sua rimozione, anche grazie all'intervento del vescovo di Milano Ambrogio. Morto Graziano, il senato di Roma inviò a Milano una delegazione al suo successore Valentiniano II. In questo contesto si sviluppò la polemica tra Simmaco e Ambrogio: Simmaco si fece portatore di una concezione ispirata al pluralismo e alla tolleranza religiosa che egli riassunse nelle parole: « Dobbiamo riconoscere che tutti i culti hanno un unico fondamento. Tutti contemplano le stesse stelle, un solo cielo ci è comune, un solo universo ci circonda. Che importa se ognuno cerca la verità a suo modo? Non si può seguire una sola strada per raggiungere un mistero così grande. » (Quinto Aurelio Simmaco, Relatio de ara Victoriae)