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IL COMPLESSO MONASTICO DI OLGINATE

Il complesso del monastero

Il monastero

 

 

IL COMPLESSO MONASTICO DI OLGINATE

Con gli Agostiniani di S. Ambrogio ad Nemus

testo di Gianluigi Riva

 

 

 

La presenza di una Cappella dedicata alla Vergine a Olginate, in un luogo posto ai bordi dell'antica strada che, proveniente da Milano, incrociava la strada militare romana, è documentata nel XIII secolo da Goffredo da Bussero nel suo "Liber notitiae Sanctorum Mediolani." In questa località, sul finire dell'Impero e durante le invasioni barbariche, epoca alla quale risalgono anche le fortificazioni di Capiate e di Lavello, esisteva un recinto fortificato in cui trovavano rifugio gli abitanti delle "ville" circostanti. In un documento del 1460 infatti si fa riferimento ad un campo denominato "ad strictam" confinante con la chiesa di Santa Maria. Con questo termine"stricta" si indicava normalmente un luogo fortificato in cui la popolazione si rifugiava per proteggersi dalle incursioni nemiche. Il restauro dell'antica sacrestia della chiesa ha riportato alla luce elementi che possono ricondurre a questa origine di rifugio del luogo "essendo possibile leggere una struttura di tipo, se non pre-romanico, di tipo protoromanico, nell'aggetto di tufo del soffitto a cupola della sacrestia".

La sacrestia, quindi, può essere stata ricavata utilizzando la base della torre del recinto fortificato. La cappella di S. Maria de Vico era probabilmente in origine un piccolo sacello sorto accanto a questo recinto fortificato: questo luogo svolse, quindi, nell'alto medioevo il duplice scopo di rifugio dalla violenza e di preghiera. Giovanni Dozio, dottore dell' Ambrosiana, definisce la chiesa di S. Maria in Vico come " ... vicana, la chiesa del vico, del comune, perché il vicanum o vicanale importa sempre nelle carte un' idea di diritto comunale ..., ecclesia vicana era la chiesa costrutta e tenuta a spese comuni". Era quindi una chiesa a cui facevano riferimento i contadini che abitavano i piccoli agglomerati rurali e le masserie isolate che sorgevano nella zona.

A poca distanza, sempre sulla strada che conduceva a Milano, sorgeva la "masseria" di Albegno mentre altri insediamenti abitativi (Villa, Parzanella, Capiate, Olginate, Valgreghentino) ne distavano diverse miglia. In atti notarili redatti tra fine del trecento e la metà del quattrocento, che trattano vendite o permute di terreni posti nelle vicinanze della chiesa di S. Maria de Vico, ricorrono spesso toponimi come: "ad Vichum" (1392), "ad strictam" (1460); "post ecclesiam" (1462) ma non vi sono riferimenti a conventi o almeno rovine di costruzioni accanto ad essa. Alla fine del 1300 la piccola chiesa dipendeva dalla Prepositura e dal Capitolo di Garlate. Era dotata di una buona rendita, ricavata per la maggior parte da terreni dati in affitto, tanto che nel 1398 i suoi beni risultavano tassati per una notevole somma. Nel 1459, il Prevosto di Garlate, Stefano de Bassi, come Cappellano titolare della Cappellania di "S. Marie de Vico seu de Vignola", concesse questi beni in affitto a Pietro Matteo de Bassi. In questo atto si può notare come si cominciasse ad aggiungere all'antico titolo "de Vico" quello "de Vignola" che divenne in seguito "alla Vite", segno che oramai nel linguaggio comune la chiesa era individuata dagli annessi vigneti. Solo verso la metà del 1400 nelle fonti scritte si trova un primo accenno alla necessità di restaurare questa chiesa. Infatti nel 1448, Martino de Ferrari, appartenente ad una famiglia già attestata in Olginate nel XIV secolo, fece voto alla Madonna di andare mendicando, per il periodo di un anno, per le terre del Ducato in modo da raccogliere denari per finanziare i lavori di rifacimento della chiesa di S. Maria che nel frattempo erano già stati iniziati. Prima di intraprendere questo pio pellegrinaggio fece testamento e dispose che, in caso di morte, il suo erede dovesse versare quarantotto lire imperiali ai Deputati di questa chiesa "affinché l'anima di me testatore sia assolta e liberata".

Nel 1448 si era già incominciato a lavorare per restaurare questo edificio che pare fosse composto da una piccola navata con un unico altare. Ad avvalorare questa data vi è un lascito di un drappo o tovaglia per l'altare della chiesa di Santa Maria de Vico, da parte di Andriola de Crotti, vedova di Melchiorre dei Capitani di Lavello, fatto nel 1441, cioè sette anni prima dell'inizio dei restauri. Questi lavori furono certamente interrotti dalle guerre che investirono il Ducato milanese negli ultimi anni del governo del duca Filippo Maria Visconti e che toccarono questi luoghi di confine con invasioni temporanee del territorio brianzolo a occidente dell' Adda da parte delle truppe venete che ne saccheggiarono anche i paesi, i cui abitanti, come dice Cristoforo da Soldo nella sua cronaca, "erano grassi et pieni .. non sapevano che cosa fusse guerra". Passato questo tribolato periodo e con il consolidarsi del Ducato sotto la dinastia sforzesca, la comunità di Olginate, rifiorita economicamente, tornò ad occuparsi della chiesa di S. Maria de Vico. Ma questa volta non si trattò di lavori solo di restaurò ma anche di ampliamento che probabilmente portarono alla quasi completa demolizione della sua primitiva struttura. Si possono formulare delle ipotesi sulle motivazioni e su chi furono i promotori di questa opera pensata certamente in funzione del suo inglobamento in un complesso monastico. La seconda metà del XV secolo fu un periodo di grande sviluppo per i monasteri e gli ordini religiosi nel Ducato milanese, il cui espandersi toccò anche il nostro territorio. I Francescani si insediarono a Lecco nel 1474, sul monte Barro nel 1480 e a Galbiate nel 1490, i Serviti a Lavello di Calolzio nel 1489. Un convento nella zona di Olginate, su di un confine "caldo" come quello dell' Adda, in cui la presenza di contrabbandieri e di esuli politici rendeva turbolenta la popolazione, era ben visto, e forse voluto, dalla duchessa Bianca Maria Visconti, della quale erano note le simpatie verso le correnti riformatrici che miravano a riportare gli ordini religiosi all'osservanza delle loro regole originarie.

Alle autorità ducali interessava valorizzare questa chiesa come centro di spiritualità in modo di pacificare e controllare un territorio situato su di un confine di fresca costituzione, lungo il quale le contrapposizioni erano profonde e violente. È anche significativo rilevare che l'ampliamento della chiesa di Santa Maria de Vico venne concepito e realizzato nel periodo in cui le chiese esistenti nel paese capo-pieve, Garlate, erano lasciate in completa rovina, come risulta dagli atti della Visita Pastorale compiuta nel 1455 dall' arcivescovo Gabriele Sforza. Ancora nel 1494, la chiesa di San Vincenzo in Garlate, nella quale era stata fondata nel 1413 dalla famiglia d'Adda una Cappellania all'altare di S. Maria, era da molti anni in stato di totale abbandono, tanto da non potervi più celebrare le messe: ciò costrinse la Curia di Milano a chiedere ed ottenere dai d'Adda, a cui spettava il diritto di juspatronato, lo spostamento di questa Cappellania nella vicina chiesa prepositurale di Santa Agnese. A riprova che i Deputati responsabili dei lavori in S. Maria de Vico potevano contare su potenti protettori presso la Corte sforzesca, vi è un documento del maggio 1469 con il quale l'arcivescovo di Milano Stefano Nardini raccomandava a tutto il clero della Diocesi milanese di permettere, a un non meglio specificato Guarisco, di parlare nelle loro chiese per esortare la gente ad elargire offerte per il restauro e l'ampliamento della chiesa di "Sancte Marie de Vico territorij de Olzinate" a causa della "par vitale et vetustate eius." La chiesa, nel 1469, era ancora molto piccola e molto vecchia, e i lavori a cui si fa riferimento nel documento del 1448 non erano stati iniziati o non erano stati portati a termine. Inoltre non si fa alcun accenno ad un convento accanto alla chiesa.

 

 

Il convento

Non è noto se la costruzione del convento sia stata coeva ai lavori di ampliamento della chiesa. E' certo però che il 26 febbraio del 1472 venne stipulato dal Prevosto di Garlate e Cappellano della chiesa di Santa Maria de Vico, Stefano de Bassi, l'atto con cui egli rinunciò a quest'ultimo suo beneficio in favore dei frati di S. Ambrogio ad Nemus. La scelta di chiamare gli Agostiniani di S. Ambrogio ad Nemus ad Olginate, un ordine religioso caratteristico della Diocesi milanese che si ispirava alla Regola di S. Agostino e che contemplava anche l'impegno nella "curam animarum", preferendoli ad altri ordini monastici, si può spiegare non solo con il bisogno di assicurare l'assistenza religiosa ad una popolazione sparsa su un ampio territorio e lasciata, per le appena passate vicende belliche, per molti anni in balia a un clero corrotto e che trascurava i propri doveri, ma anche per la loro vicinanza alle idee della corte forzesca. Scelta certamente approvata anche dal Prevosto di Garlate, Stefano de Bassi, il quale, giunto ormai ad una veneranda età, si dimise dalla sua carica nell'aprile dell'anno seguente 1473 e si fece frate entrando nell'ordine di S. Ambrogio ad Nemus, finendo poi i suoi giorni nel convento di S. Maria de Vico.

Il suo esempio fu seguito, dopo pochi anni, da un altro Canonico del Capitolo di Garlate, Pietro Matteo Ugieri. Occorre dire che il casato dei de Bassi, presente ad Olginate e in Milano, fu sempre fedele alla causa dei Visconti e poi degli Sforza: suoi componenti ressero la prevostura di Garlate durante tutto il periodo sforzesco. Lo stesso Stefano era stato in gioventù castellano della rocca nuova di Castellazzo, vicino ad Alessandria. Ebbe poi la prevostura di Garlate molto probabilmente perché lo Sforza volle mettere un suo uomo di fiducia a reggere una pieve posta su di un confine caldo e turbolento dopo che, nel 1449, il Prevosto in carica Bartolomeo Riva aveva fatto causa comune con i veneziani favorendoli nella loro temporanea occupazione di tutto il territorio della Brianza orientale. Il suo successore Giovanni de Bassi, che era anche suo fratello, ricoprì anche la carica di Cappellano ducale della duchessa Bona di Savoia. Il 1472 è l'anno in cui è attestata la presenza degli agostiniani di S. Ambrogio ad Nemus a S. Maria de Vico. Il convento di S. Maria fu, quindi, il primo insediamento monastico nella Brianza orientale e non era destinato, nelle intenzioni dei suoi fondatori, ad essere un piccolo convento di campagna, ma un centro importante di vita religiosa della zona. Infatti, se nei secoli successivi il numero dei frati presenti non supererà mai quello di cinque, all'inizio della sua attività poteva contare su una più consistente presenza: nel 1488 esso ospitava 7 frati e 7 conversi. Uno dei primi priori del convento fu frate Primo o Primino Testori di Olginate che nel febbraio del 1478 attestò di aver ricevuto da Cristoforo detto Rossino o Gossino de Adda del fu Zanino, abitante "in domus Caromano", cinque lire imperiali, un cappone e 12 uova. È di nuovo priore nel 1495 - 1496 quando si accordò con il Prevosto di Garlate, Giovanni de Bassi, per la divisione dei legati esistenti nella chiesa di S. Maria.

Nel 1472 l'ampliamento della chiesa era terminato almeno nelle sue strutture murarie. Al complesso conventuale si lavorerà invece ancora per molto tempo: un atto del 1543 attesta la presenza a S. Maria la Vite di un "magistro Stefano Vercelono". Ai frati venne quindi consegnata una chiesa, come dice Oleg Zastrow, "grandiosa ... la cui lunghezza complessiva era superiore ai 31 metri con la nave misurante oltre 11 metri di larghezza (...) questa grandiosità unita alla presenza di una buona concezione architettonica (...) chiarisce che la committenza dovette essere dotata di mezzi economici non indifferenti". I finanziamenti per quest'opera, che fu certamente molto costosa, vennero dalla popolazione tutta, ma vi contribuirono anche, come abbiamo visto, tutta la Diocesi, probabilmente la corte sforzesca e certamente le famiglie più eminenti di Olginate e del suo territorio: i d'Adda, i Lavelli de Capitani, i Testori de Capitani, i Crotti, i de Bassi e i de Rocchi della Parzanella. Per molti secoli i de Rocchi ed i Testori de Capitani avranno in questa chiesa il loro sepolcro di famiglia.

 

 

La cappella della Madonna

Nel gennaio del 1491, domino Jacobino d'Adda, all'epoca la persona più eminente di Olginate, fece testamento e, tra le altre cose, dispose che si celebrassero messe in suo suffragio "in Cappella una que hedificata fuit per me testatorem ad dictam ecclesiam domine Sancte Marie". Quale è la cappella fatta costruire da questo importante personaggio nella chiesa di Santa Maria la Vite ? In un anonimo "Status Ecclesiarum expositio" del 1592 sono elencati l'altare maggiore, dedicato alla Vergine, e quattro altari secondari: rispettivamente quelli di S. Maria, di S. Caterina, di S. Antonio e del Santissimo Sacramento. Quello di Santa Maria, collocato sul lato settentrionale del pseudo-transetto, appartiene certamente alla cappella fatta edificare da Jacobino d'Adda. La parete è ricoperta da un affresco suddiviso in tre fasce orizzontali: nella parte superiore è ritratto il trionfo di Maria con i santi Pietro e Paolo; nella parte centrale l'ultima cena con Gesù e gli Apostoli; in quella inferiore, a destra di chi guarda, divisa in due riquadri, vi è uno stemma gentilizio e una serie di figure, femminili e maschili, in preghiera, rivolte verso la parete dell'arco volto ad oriente che separa lo pseudo-transetto dal presbiterio dove esisteva un'immagine della Madonna, sovrastate dalla scritta "Salve regina misericordie vita dulcedo et spes nostra". Queste figure rappresentano la famiglia del committente di questo altare.

Purtroppo parte di questo affresco e di quello dell'Ultima Cena sono andati persi per l'apertura di una porta laterale. Lo stemma gentilizio è quello della casata di Jacobino d'Adda: è composto da uno scudo a cui fa sostegno la testa di un'aquila con corona ducale, forse richiamo alla fedeltà verso i Duchi di Milano, e a lato, in due listelli svolazzanti, il motto o impresa "DI - DE - TI -", di oscura interpretazione, Lo scudo, a sei bande diagonali a tre colori tra loro alternati (bianco-nero-verde), è sormontato da un'aquila imperiale in campo dorato, chiaro riferimento all'appartenenza della famiglia al campo ghibellino, e da un elmo chiuso che all'epoca designava una casa patrizia. Sopra il riquadro con lo stemma vi è una data purtroppo mutila: don Angelo Rota, che riportò alla luce gli affreschi, lesse 1374 ma è impossibile che si possano far risalire a quella data, soprattutto per lo stile che non è gotico, anche se di buona mano. Il testamento di Jacobino ci permette però di conoscere con buona approssimazione il periodo in cui furono eseguiti gli affreschi di questo altare laterale. Jacobino d'Adda, oltre alla moglie Caterina, figlia di Michele dei Capitani di Vicomercato, aveva cinque figli: Pietro Francesco, Susanna, Filippo, Giovanni Battista e Pagano i cui nomi appaiono dipinti accanto alle figure degli offerenti: un solo nome, "Filipini", si legge chiaramente anche oggi e corrisponde ad uno dei figli elencati nel testamento. Due dei figli, quelli raffigurati nell'affresco in età giovanile ed in coppia, all'epoca del testamento erano minorenni e questo particolare ci permette di restringerne la datazione tra il 1475 e gli anni '80 dello stesso secolo e di affermare che il termine dell'ampliamento della chiesa fu coevo all'insediamento dei frati di S. Ambrogio ad Nemus o appena successivo. Ma chi era questo Jacobino d'Adda, figlio di Antonino, meglio conosciuto dai suoi contemporanei anche con il soprannome di Payno ? Le notizie di cui disponiamo, partomo dai resti di una torre, oggi inglobata nella Villa Sirtori ad Olginate. Essa faceva parte di una casa-forte costituita da una torre e da una rocchetta che sorgeva a quel tempo fuori del borgo di Olginate, su un'appendice di terra che si spingeva nel lago omonimo.

Essa venne costruita da Galeazzo Crotti tra il 1456 ed il 1466 dopo averne ottenuto il permesso dal nuovo duca di Milano Francesco Sforza. I Crotti furono una delle più importanti e conosciute famiglie di Olginate tra i secoli XII e XV: nel 1209 un Jacobus Croto figura come debitore verso il nobile Arderico de Vicomercato de Lavello e negli stessi anni è citato anche come console di Foppenico; nella seconda metà del 1300, Stefano Crotti svolgeva in paese l'attività di notaio ed alla sua morte, avvenuta alla fine dello stesso secolo, gli successe il figlio Gotardo. Di un altro Stefano, figlio di Gotardo, conosciamo che era fabbricante e mercante di panni lana. Jacobino d'Adda, succeduto alla guida della famiglia per la morte del fratello Pagano, acquistò il complesso fortificato dai Crotti nel 1480 circa. I d'Adda, come mercanti, erano presenti in Olginate da secoli, sempre in una posizione di preminenza: un Girardo d'Adda, nel 1297, è console della Comunità, mentre altri componenti della casata parteciparono in prima linea alle lotte tra Guelfi e Ghibellini, distinguendosi per l'attaccamento alla causa ghibellina. Un ramo dei d'Adda, quello facente capo ad Antonino, alla metà del 1400, pervenne a una posizione di predominio in Olginate. I suoi figli: Pagano, Stefano, Taddeo, Cavallino, Jacobino, Cristoforo e Francesco, nel 1453, venivano descritti come violenti e brutali, che "non temeno Papa ne Imperatore et ogni dì menazano ala mia famiglia che se vano verso Adda che li taliarano in peze". Nonostante questa fama essi riuscirono ad ammantare di legalità la grande ricchezza accumulata col commercio di ogni sorta di mercanzia, non disdegnando di gestire, spregiudicatamente, anche il redditizio contrabbando di granaglie col vicino Stato Veneto. I d'Adda divennero così una "potentissima famiglia, vera dominatrice della vita industriale e finanziaria milanese", una delle più influenti del Ducato, riuscendo nello stesso tempo ad inserirsi nella nobiltà milanese.

Da questo ramo dei d'Adda di Olginate uscirono poi i Conti di Sale e i Marchesi di Pandino. Jacobino, pur avendo un'intensa attività mercantile, non disdegnò, come i suoi fratelli, di praticare anche il contrabbando, mentre, nello stesso tempo, manteneva buoni rapporti con la corte sforzesca e con il Segretario ducale, Bartolomeo Calco. Da questi ottenne, nell'ottobre 1483, in un periodo in cui le frontiere con Venezia erano chiuse per la guerra, di potere prelevare, sulla sponda bergamasca dell'Adda, una partita di ferro e di acciaio che alcuni abitanti di Calolzio compiacenti gli avevano venduto. Negli stessi anni egli ricoprì anche la carica di "caneparo" o daziere della Pieve di Garlate. Abile e astuto, e per certi versi ambiguo, pur di salvaguardare i propri interessi si attirò il rancore di parte della popolazione Olginatese. Nello stesso tempo non mancò, secondo la mentalità del tempo, di acquisire benemerenze spirituali, contribuendo con generosità alla realizzazione di opere a carattere religioso, mentre a livello personale cercava di vivere una intensa vita devozionale: seguace, forse, di Bernardino da Siena, egli iniziava le lettere con il monogramma "IHS". La sua devozione alla Madonna lo portò a frequentare anche il Santuario della Madonna del Lavello, dove risulta nell'elenco delle persone che dichiararono di essere state miracolate dall'acqua sgorgata in quel luogo essendo stato miracolosamente guarito dalla gotta che lo aveva colpito alla mano destra.

È possibile che componenti la famiglia d' Adda e forse lo stesso Jacobino siano stati sepolti in questa Cappella. Solo scavi archeologici sotto l'attuale pavimento del presbiterio e dello pseudo-transetto potrebbero portare alla luce queste sepolture ed anche le fondamenta dell'antico sacello altomedioevale. Ciò sarebbe utile per risalire fino alle origini di questo edificio e porre così un altro tassello nel mosaico della ricostruzione delle storia di questo territorio.