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Teologi agostiniani: EGIDIO DA ROMANO

Immagine di Egidio Romano, immagine dalla Libreria del convento di S. Barnaba a Brescia

Egidio Romano

 

 

EGIDIO DA ROMANO E DANTE

di Ugo Mariani O.S.A.

 

 

 

Crediamo opportuno accennare alle relazioni che Egidio da Romano ebbe con il nostro maggiore poeta. La tesi, che soltanto supponendo un intento polemico di Dante contro Egidio Romano possiamo spiegare alcuni passi del convivio e della Monarchia, ci è sembrata importante. L'abbiamo accolta dopo lunghe meditazioni e la presentiamo ai lettori convinti di recare con le nostre ricerche, un contributo, sia pur modesto, agli studi danteschi. Nel gennaio 1302, una sentenza di messer Cante Gabrielli di Agobbio, potestà di Firenze, gettava vagabondo sulle vie dell'esilio il divino Poeta. Le corti d'Italia videro in seguito errare lunghi anni questa magra e arcigna figura di sognatore che fremeva come un eroe, e come un apostolo declamava sulle catastrofi politiche del suo tempo. Ma non s'accorgeva, il Poeta, che sotto il crollo dell'idea imperiale da lui vagheggiata, si delineava il profilo di un'era nuova, sbocciava il virgulto di una civiltà superiore. E tenace, inesorabile negli amori e negli odi, scagliava a capofitto nel suo Inferno, nella cerchia dei pozzi infiammati dei simoniaci, Bonifazio VIII, campione della teocrazia, e causa prima, con l'invio di Carlo di Valois nella bella città di Toscana, delle sue sventure.

A Firenze Dante, pochi mesi avanti la sua condanna, aveva apertamente osteggiato la politica di papa Gaetani. Per ben due volte nel giugno del 1301, quando Matteo d'Acquasparta, ambasciatore della curia romana, aveva domandato al Comune cento cavalieri da inviarsi in Romagna a servizio della Chiesa, la sua voce aspra e grave si era levata contro questa proposta nei consigli della città, facendo pericolare la richiesta del legato pontificio. In sulla fine di settembre o nei primi di ottobre di quello stesso anno, un'ambasceria spedita da Firenze si recava dal papa per impedire che Carlo di Valois fosse mandato, come paciere, in Toscana. A quanto riferisce Dino Compagni (II, 25), di questa ambasceria fu incaricato Dante insieme a Maso di messer Ruggerino Minerbetti e messer Corazza da Signa. A Roma l'occhio di Bonifazio dovette posarsi tra malevolo e curioso sull'oscuro personaggio che sapeva capo a Firenze di una minoranza avversa ai suoi disegni. Il papa intuì che l'uomo esile e forte che gli stava dinanzi era il nemico più pericoloso dei suoi progetti, e, rimandati in patria gli altri due ambasciatori, lo trattenne alcun tempo presso di sé, quasi in ostaggio. Ma non poteva prevedere qual tremendo avversario la storia gli avesse posto di fronte! La vita del Poeta nei giorni trascorsi a Roma ci è purtroppo sconosciuta. Ignoriamo quali parole fossero da lui raccolte dagli anfiteatri e dai fori abbandonati e risuonanti delle note melanconiche delle cornamuse pastorali, dalle rovine che cingevano in un silenzio tombale l'antica città dei Cesari. Anche i monumenti del medio Evo, le sale sfarzose del Laterano dovettero parlare a Dante, schiudergli le grandi pagine del passato della Roma cristiana, la gloriosa istoria del potere teocratico. Ma l'animo suo così imbevuto di pensiero e di aspettazione spiritualista, rimase chiuso a questa visione, mentre ad una certa meraviglia fu certamente mosso alla vista del lusso di cui si circondava la corte del vicario di Dio. Forse fu una tale constatazione che un giorno lo fece uscire in quella invettiva messa in bocca di S. Pietro contro la fastosità della Sposa di Cristo, così lontana dalla semplicità dei secoli eroici della povertà e del martirio (Parad., XXVII, 40-66 ).

Non è improbabile che il grande Poeta, nella turba dei prelati che si aggiravano tra gli splendori della basilica e del patriarchio lateranense, sia apparsa la pallida figura di Egidio Romano, l'eloquente difensore della potenza politica dei papi. Proprio in quei giorni partiva dalla S. Sede l'ordine di convocazione, per l'autunno del 1302, di un concilio che giudicasse la condotta di Filippo il Bello, ed il pontefice incaricava l'antico generale degli Eremitani, diventato da pochi anni arcivescovo di Bourges, di scrivere il "De potestate ecclesiastica", un'opera destinata a diffondere, presso il pubblico colto, oltre la cerchia angusta dei teologi e dei canonisti, la supremazia del papato su tutte le potestà terrene. E' perciò verosimile che egli si trovasse in sulla fine del 1301 presso l'amico e protettore Bonifazio VIII, e che s'incontrasse col Poeta. Vera o no quest'ipotesi, il nome di Egidio era così celebre nel mondo scientifico che Dante non poteva ignorarlo. E più volte in seguito, l'esule ghibellino, combatterà le teorie del monaco agostiniano e dei migliori scrittori della sua scuola, pur senza menzionarli. Nell'ultimo scorcio del secolo XIII, alla fioritura economica di Firenze, si era aggiunto quello intellettuale. Mentre i ricchi mercanti e banchieri della città acquistavano un vero e proprio monopolio in alcune branche del commercio internazionale, i letterati creavano la poesia del dolce stil nuovo e gli artisti iniziavano un vasto movimento di riforma nell'arte. In pochi anni si era costruito il palazzo del Bargello, rivestito di marmi il bel S. Giovanni, avviata la fondazione di Palazzo Vecchio e di S. Maria del Fiore, portate a compimento le costruzioni delle chiese di S. Croce e di S. Maria Novella. Presso i monasteri fioriva lo studio delle scienze e della filosofia, e Dante frequentava queste scuole, perché ci dice nel "Convivio" (II, 13) che era solito assistere alle disputazioni dei fìlosofanti.

Oltre i francescani e i domenicani, anche gli eremiti di S. Agostino avevano aperto un importante centro di studi nella casa fondata, verso la metà del secolo, da frate Aldobrandino, nella località detta di S. Spirito (Cfr. Bollettino Storico Agostiniano, Firenze, anno I, fasc. I, pag. 11). Questo convento acquistò ben presto molte benemerenze nel campo scientifico e letterario, e numerò parecchi illustri alunni. Ad un religioso che vi lasciò un nome celebre, il P. Luigi Marsili, fine scrittore ed umanista, inviava il Petrarca già vecchio un libretto delle "Confessioni di S. Agostino" che a lui a Parigi un altro agostiniano, fra Dionigi Roberti da Borgo S. Sepolcro, aveva donato. Ed il Boccaccio venne in questa casa, dopo la crisi e la conversione religiosa per cercarvi un po' di conforto e di consiglio, e l'ebbe da fra Martino da Signa che elesse suo confessore, cui, morendo, lasciò per testamento i libri andati poi miseramente perduti. Sebbene Dante fosse di quelli che si cibano per sé della sapienza divina e umana, nondimeno la conversazione dei pii religiosi della sua città influì beneficamente sul suo progresso intellettuale e nelle scuole dei monasteri fiorentini s'iniziò ai grandi sistemi scolastici e al nuovo linguaggio poetico.

E apprese che la grandezza dei letterati antichi non consiste nell'ornamento favoloso onde essi rivestirono i loro fantasmi di arte, ma nei precetti di filosofia che vollero con bella forma insegnare, che nel poema di Virgilio si velava una sapiente rappresentazione allegorica della vita, come già aveva insegnato Fulgenzio Planciade, che vero poeta è colui che sa creare un opus doctrinale, una poesia cioè grave di verità e di ammaestramento. A S. Maria Novella udì spiegare la Summa di Tommaso di Acquino, a S. Spirito ebbe la notizia delle Opere di Egidio Romano, diventato fin dal 1287 il filosofo ufficiale degli Eremitani di S. Agostino. E al grande maestro, derogando dal costume medioevale di citare nei libri soltanto gli autori già morti e consacrati dalla gloria, tributò l'alto onore di menzionarlo, ancor vivo, nel Convivio: "e lasciando stare quello che Egidio eremita ne dice (di questo diverso processo delle etadi) nella prima parte dello Reggimento de' Principi ... dico che questa prima etade è porta e via per la quale s'entra ne la nostra buona vita" (IV, 24).

Malgrado la sua contrarietà alle idee politiche del celebre discepolo di S. Tommaso, il grande Poeta s'inchinava alla sua autorità, e l'onorava come uno dei filosofi più acclamati dell'Università parigina. Ma quanta diversità di carattere, quale insanabile dissidio di teorie fra i due scrittori ! Egidio è amico di Bonifacio VIII e scrive un trattato per difenderne l'elezione, Dante invece conserva sempre una paurosa avversione verso l'inflessibile pontefice, di cui anche nell'Empireo condanna la memoria (Parad., XXX, 148), bollando, in pari tempo, d'infamia con un verso oscuro, ma forte del suo inferno, Celestino V che ne aveva facilitato, abdicando, l'assunzione alla cattedra di Pietro. L'uno, l'agostiniano, nel Contra exemptos si schiera decisamente in favore di Filippo il Bello contro i Templari, l'altro, il Poeta, lancia all'ambizioso sovrano l'invettiva atroce di aver rinovellato a Cristo, con il dramma di Anagni l'insulto del fiele e dell'aceto, e di aver portato sanza decreto, nel Tempio, le cupide vele. Ma nel Convivio per la prima volta, trattando dell'essenza della nobiltà, il Poeta incrociò il ferro con il filosofo. L'occasione gli fu offerta da un'idea sostenuta nel "De Regimine Principum" dal maestro eremitano.

Esponendo le norme che devono regolare i rapporti del sovrano con i sudditi e i ministri, Egidio aveva giustamente osservato che il Re deve comportarsi con i dipendenti signorilmente, secondo i dettami della carità e della giustizia. E appellava "curialitas", cioè derivata dalle tradizioni di cortesia e gentilezza delle case nobiliari, (curiae) l'abitudine di seguire queste regole nella vita pratica (De Regim. Princip., lib. II, pars III, c. 189).

Ma aveva espresso alcune teorie sulla nobiltà che a Dante sembrarono fortemente sospette di attaccamento ai pregiudizi di casta. Egli distingueva una duplice nobiltà, di nascita e di costumi, fondando l'una sull'opinione del volgo solito a mettere in prima linea i beni materiali e la potenza terrena, e l'altra cui attribuiva maggior pregio, sul valore morale e intellettuale l'individuo (Ibid.,: Possumus enim distinguere duplicem nobilitatem, unam secundum opinionem, ut nobilitatem generis: et aliam secundum veritatem, ut nobilitatem mororum... Vera tamen nobilitas est secundum excessum virtutem et nobilitatem morum).

Ma anche la prima merita tutto il nostro rispetto, e basta il consenso della maggior parte degli uomini per conferirgli la vera essenza della nobiltà, essendo impossibile, secondo il detto di Aristotele, che un'opinione diffusa non abbia un fondamento di realtà (Ibid.,: Tamen quia nunquam fama totaliter perditur, et quod communiter dicitur, impossibile est esse falsum secundum totum, ut videtur velle Philosophus 7° Ethicorum, hujusmodi vulgaris opinio alicui probabilitati innititur). Dante volle anch'egli definire il concetto di nobiltà nel quarto libro del Convivio. Nessun dubbio per noi che alcuni passi di questo trattato siano rivolti contro le teorie esposte nel "De Regimine Principum" da Egidio. Egli risponde al monaco agostiniano che non esiste nobiltà se non nella virtù, e allude a lui con frasi che hanno un aspro sapore d'ironia e di sdegno. Ma lasciamo la parola al grande Poeta: "...dov'è da sapere che Federigo di Soave, ultimo imperadore de li Romani ... domandato che fosse gentilezza, rispuose ch'era antica ricchezza e belli costumi. E dico che altri fu di più lieve savere: chè, pensando e rivolgendo questa defìnizione in ogni parte, levò via l'ultima particula, cioè li belli costumi, e tennesi a la prima, cioè a l'antica ricchezza; e, secondo che lo testo pare dubitare, forse per non avere li belli costumi non volendo perdere lo nome di gentilezza, definizione quella secondo che per lui faceva, cioè possessione d'antica ricchezza. E dico che questa opinione è quasi di tutti, dicendo che dietro da costui vanno tutti coloro che fanno altrui gentile per essere di progenie lungamente stata ricca, con ciò sia cosa che quasi tutti così latrano" (Convivio, IV, 3, pag. 249-250. (Testo critico della Società dantesca italiana)). Vi era dunque uno scrittore così autorevole da trascinare molte persone dietro di sé e da esser preso in considerazione dal Poeta, un personaggio importante che, nato di famiglia patrizia, riponeva nell'antica ricchezza, cioè nei beni di fortuna ereditati da una lunga serie di antenati, il concetto di nobiltà. Ma a quale autore meglio che ad Egidio Romano convengono le allusioni di Dante? L'antico superiore degli Eremitani era infatti discendente della casata dei Colonna (e le parole del Convivio confermerebbero la notizia tramandataci intorno alla sua nascita da Giordano di Sassonia), godeva di tanta celebrità da essere appellato da Goffredo di Fontaines il migliore filosofo della sua epoca in Parigi, melior de tota villa, e sosteneva le teorie condannate dal Poeta. Nè deve ingenerarci il dubbio l'accenno velato ad una sua condotta morale degna di biasimo, "forse per non avere li belli costumi non volendo perdere lo nome di gentilezza". Sappiamo che spesso l'acredine politica fa velo a Dante trascinandolo a giudizi e condanne severe verso i suoi avversari, e inoltre voci malevole erano corse più volte sul conto del monaco agostiniano. Pietro Zittau, per citare uno scrittore contemporaneo, lo accusò di ambizione e di servilismo a Bonifazio VIII, e queste dicerie potevano esser giunte all'orecchio di Dante. Ma vi ha un altro argomento decisivo in favore della nostra tesi. Egidio appoggiava il suo ragionamento, come abbiamo veduto, su una sentenza di Aristotele, letta probabilmente nel Commento all'Etica Nicomachea di. S. Tommaso: "Illud enim in quod omnes vel plures consentiunt, non potest esse omnino falsum" (Comm. in decem libros ethicorum ad Nicomachum, Parma typ. Fiaccadori 1866, Lib. VII, I. XIII, pag. 257, col. I).

Ebbene proprio questo passo dello Stagirita è riportato nel Convivio come la prova più forte addotta dall'autore combattuto a sostegno della propria asserzione, e riceve dall'Alighieri una diversa interpretazione. "Queste due opinioni, dice il poeta, (l'una di Federico II, l'altra dello scrittore di cui l'opera dantesca non ci rivela il nome), due gravissime ragioni pare che abbiano in aiuto: la prima è che dice lo Filosofo che quello che pare a li più, impossibile è del tutto essere falso" (Convivio, IV, 3, pag. 250). Ma questo argomento, vero in sé, non ha valore nel caso nostro, perchè "quando lo Filosofo dice: Quello che pare a li più, impossibile è del tutto, essere falso, non intende dire del parere di fuori, cioè sensuale, ma di quello dentro, cioè razionale: con ciò sia cosa che: 'l sensuale parere secondo la più gente, sia molte volte falsissimo, massimamente ne li sensibili comuni, là dove lo senso spesse volte è ingannato" (Ibid., pag. 262). E conchiude il Poeta: "E così quelli che dal padre o d'alcun suo maggiore (è stato scorto e errato ha 'l cammino), non solamente è vile, ma vilissimo, e degno d'ogni dispetto e vituperio più che altro villano" (Ibid., pag. 260). Vi è in queste parole di Dante come un'eco del soffio democratico che aveva pervaso l'Italia e specialmente Firenze, pervenuta con gli Ordinamenti di Giustizia ad un alto grado di libertà non mai raggiunto da nessun altro governo di quel popolo. In seguito, disgustato degli uomini che agitavano la sua città nativa spadroneggiandovi colla petulanza provocante dei nuovi arrivati, il Poeta che pure aveva dato il suo nome alle corporazioni delle arti, si raccolse nelle memorie del passato, e nel canto di Cacciaguida si compiacque di essere disceso da avi illustri (Anche nella Monarchia (II, 3) per provare che ai Romani apparteneva l'impero del mondo, risalendo alle loro origini, tesse l'elogio della nobiltà dei natali).

Ma quando componeva il Convivio il suo concetto della nobiltà era diverso ed egli attaccava uno scrittore dissenziente da lui e certamente notorio se poteva muoverlo ad una critica così acerba. Di questo autore egli non rivela il nome né il libro, ma riferisce le idee e gli argomenti che sono gli stessi esposti nel "De Regimine Principum", e li riporta con le stesse parole usate da Egidio Romano. Possiamo dunque identificare con questo ultimo l'innominato personaggio, oggetto delle ire di Dante.

In un'altra opera dell'Alighieri la lotta contro l'arcivescovo di Bourges diviene più serrata. E' sembrato giustamente al Vossler (KARL VOSSLER, La "Divina Commedia" studiata nella sua genesi e interpretata. Trad. di Stefano Iacini, Bari, Laterza, 1910, vol. I, parte II, pag. 443) che la forma esteriore della Monarchia divisa in tre parti, ricordi in qualche modo la partizione, triplice anch'essa, della materia del "De Potestate ecclesiastica. Ambedue i trattati espongono il fine e l'essenza di un potere mondiale, dell'imperatore e del papa, secondo il sistema politico di ciascun autore, estendono a tutti i beni temporali il diritto di dominio di quella potestà, confutano infine le singole ragioni degli avversari. Tuttavia non bisogna credere che la Monarchia sia un'opera sistematicamente contrapposta al De Potestate ecclesiastica, sarebbe un rimpicciolire il valore dello scritto dantesco, attribuire una mente gretta e velenosa al suo autore. Gli argomenti dei curialisti combattuti dal Poeta si trovano, è vero, nel trattato egidiano, ma erano allora di dominio pubblico e correvano per le bocche e nei libri di tutti. Ma d'altra parte non si possono chiamare fortuiti i continui punti di contatto che risaltano anche ad una superficiale lettura delle opere dei due scrittori. E non mancano del resto le allusioni particolari all'arcivescovo di Bourges, specialmente in merito alla questione della proprietà ecclesiastica che per Egidio è, in fondo, l'unica legittima. Era questo uno dei grandi quesiti di quei tempi su cui si dividevano gli animi dei trattatisti. La discussione sugli inizi del secolo XIV si era improvvisamente allargata, e su di essa veniva maturando lo scisma dei Minoriti che costituì una delle pagine più bizzarre della storia della Chiesa. Si disputava acremente sulla povertà stessa di Cristo e degli apostoli, i quali, non avendo posseduto nulla di proprio, avrebbero fatto di quella virtù, secondo gli Spirituali, uno stretto articolo di fede per i cristiani. Trattando di questa questione Dante non manca di lanciare i suoi strali contro il monaco agostiniano. Lo Stato, egli dice, dà o lascia beni materiali al clero per il solo vantaggio dei poveri, e questo è il titolo unico al possesso delle cose temporali. "Contro al romano principato, (l'impero), han fatto un gran fremere e rivolto vani pensieri coloro che si dicono zelanti della fede cristiana eppur non hanno compassione dei poveri di Cristo: i quali non solo son defraudati dei semplici proventi ecclesiastici, ma tuttodì sono derubati del patrimonio stesso, con l'impoverir che si fa la chiesa" (Monarchia, II, XI, pagg. 338-389).

E il Poeta continua: "Del resto codesto stesso impoverimento della Chiesa non avviene senza divino giudizio. Gli è che né con le sostanze della Chiesa si sovvengono i poveri, dei quali esse sono patrimonio, né all'impero, che è quel che le offre, si serba la debita gratitudine. Tornino dunque pure donde provennero: vennero bene, tornino male; giacché furono ben date e mal possedute. Ma che importa di ciò ai pastori quali li abbiamo? che importa loro se la sostanza della Chiesa se ne sfuma, purché s'aumentino gli averi dei loro parenti? Ma è meglio forse ritornare al nostro proposito, ed in pio silenzio aspettare il soccorso del nostro Salvatore" (Ibid.. Cito la versione che di questo passo ha dato Francesco d'Ovidio: "La proprietà ecclesiastica secondo Dante", in Studii sulla Divina Commedia, Sandron, Palermo 1901, pag. 407). Ma chi sono costoro che fremono e rivolgono pensieri contro l'impero e non hanno pietà dei poverelli di Cristo? Dante allude in primo luogo ad Egidio Romano. Il confronto di un altro luogo della Monarchia rende quasi certa questa nostra ipotesi. Nel secondo libro del De Potestate ecclesiastica ben dieci capitoli (1-10) trattano della liceità della proprietà ecclesiastica.

Dopo avere riportato e interpretato alcuni testi scritturali che sembrano contrari al suo assunto (Num. XVIII, 20: Matt. X, 9: Luca X, 4), l'arcivescovo di Bourges ne adduce finalmente altri che si prestano ad un senso favorevole (Num. XXXV, 2sgg.: Luca XXII, 36). Specialmente su due passi di Luca egli si sofferma, traendone la conclusione che in un primo tempo il Signore proibì ai suoi ministri il possesso dei beni temporali, ed in seguito revocò tale divieto. Ecco le parole del filosofo agostiniano: "Nam, ut diximus, Lucae, X, Dominus mandavit discipulis non portare sacculum neque peram: postea, Lucae, XXII, Dominus dixit eis: Qui habet sacculum, tollat similiter et peram. Primo ergo Dominus inhibuit discipulis habere temporalia, postea concessit" (De Potestate eccl., II, 3). Ebbene si confronti questo periodo del "De Potestate" con un altro della Monarchia: "Sed Ecclesia omnino indisposta erat ad temporalia recipienda per preceptum prohibitivum expressum ut habemus per Matheum sic: Nolite possidere aurum, neque argentum, neque pecuniam in zonis vestris, non peram in via, etc. Nam etsi per Lucam habemus relaxationem precepti quantum ad quedam, ad possessionem tamen auri et argenti licentiatam Ecclesiam post prohibitionem illam invenire non potui" (III , 10, pag. 404). Da questo luogo balza chiaro e limpido il pensiero di Dante sulla derivazione e sullo scopo delle ricchezze ecclesiastiche e sull'uso che è lecito farne. Anche il Poeta attribuisce, proprio come Egidio, a S. Luca alcune parole che farebbero supporre una rilassatezza (relaxatio) nel precetto divino, ma nega che dai libri sacri il clero possa trarre l'autorizzazione all'acquisto e al possesso dei beni terreni. Nella Monarchia si accenna alla frase dell'evangelista senza indicare il capo da cui essa è tratta, ma crediamo che si debba identificare questo luogo di S. Luca col capo XXII, v. 36, collo stesso passo cioè di cui si valeva l'arcivescovo di Bourges per provare la liceità della proprietà ecclesiastica (Il MOORE (Studies in Dante, Clarendon 1896, pag. 390) ha creduto che il Poeta alludesse al versetto IX, 3 di Luca o X, 4. Ma non mi sembra chiaramente espressa in questi passi l'idea della relaxio del precetto divino. Per il raffronto tra la Monarchia e il De Potestate ecclesiastica cfr. anche G. BOFFITO, Saggio di Bibliografia egidiana, Firenze, Olscki 1911, pagg. XXXVIII-XXXI).

Il poeta probabilmente ha letto l'interpretazione egidiana del passo di S. Luca e la teoria del filosofo agostiniano sulla proprietà ecclesiastica e ha voluto confutarla. Avrebbe così un nuovo appoggio la tesi da noi sostenuta che tra le finalità che mossero Dante a scrivere il celebre trattato politico, vi fosse anche quella di contrapporre un lavoro scientificamente condotto, alla propaganda in favore dell'idea teocratica fatta da Egidio Romano col De Potestate ecclesiastica. Noi non neghiamo la difficoltà di provare il nostro assunto. Non ci moviamo nel campo metafisico, dove, secondo il principio d'Aristotele, la verità o la falsità di un asserto si dimostrano soltanto con quegli argomenti che valgano a fissare la ragione dialettica del rapporto enunciato nella tesi. Ma il nostro è il terreno spesso infido della critica, dove la certezza rampolla da un fascio di probabilità, e la prova di ogni assunto contenuto nella sfera delle indagini critiche è raccomandato spesso, come nel caso nostro, ad un insieme ampio di ricerche e d'induzioni. Un'altra particolare allusione ad Egidio si può vedere nel terzo, libro della Monarchia, nell'enumerazione delle varie categorie degli oppositori dell'immediata derivazione della potestà imperiale da Dio. L'idea centrale del De Potestate ecclesiastica è tutta racchiusa nel concetto che lo Stato è un organo della Chiesa. E perciò il sommo gerarca, in virtù dell'autorità di cui lo investì Cristo, può istituire la potestà terrena, e destituirla o trasferirla ove lo creda opportuno. Questa teoria comune agli scrittori di curia è invece aspramente combattuta da Dante, che analizzandola minutamente e ribattendola, coglie in pari tempo l'occasione di colpire Egidio e forse il suo discepolo Giacomo da Viterbo. "Summus namque Pontifex, Domini nostri Iesu Christi vicarius et Petri successor, cui non quicquid Christo sed quicquid Petro debemus, zelo fortasse clavium, nec non alii gregum christianorum pastores, et alii quos credo zelo solo matris Ecclesiae promoveri, veritati quam ostensurus sum de zelo forsan, ut dixi, non de superbia contradicunt" (Mon., III, 3, pag. 393). Vi sono dunque alcuni Pastori del gregge cristiano che in buona fede, per attaccamento al potere teocratico, negano l'origine diretta da Dio dell'impero unendo le loro voci a quella del papa per combattere la supremazia nel temporale della monarchia universale laica.

A questa constatazione di fatto, il Poeta aggiunge l'osservazione che il Capo supremo della comunità dei fedeli non gode della stessa autorità che aveva Cristo, ma soltanto di quella più modesta che spettava a Pietro. Ma proprio quest'argomento del diritto del Sommo Pontefice ad essere investito di tutta la potestà concessa in terra al Figliuolo di Dio, è una delle teorie principali sostenute dai due monaci agostiniani. E ad essi possiamo asserire che alludesse Dante, specialmente se consideriamo che erano, se non gli unici, almeno i più illustri dignitari della Chiesa che contraddicessero al divino Poeta.

Ma non basta ancora. Nell'ultima pagina della Monarchia sono esposti e confutati nove argomenti, uno naturalista, cinque biblici, due storico-giuridici e l'ultimo metafisico della pubblicistica guelfa. Il primo è il noto paragone del sole e della luna, quelli scritturali riguardano fatti dell'antico e del nuovo Testamento, come il diritto di anzianità di Levi, figlio di Giacobbe, sul fratello Giuda, la deposizione di Saul eseguita da Samuele per comando di Dio, l'offerta dell'oro e dell'incenso a Cristo nel presepio, le due spade che avevano gli apostoli quando Gesù fu catturato, la potestas ligandi et solvendi concessa ai dodici dal Signore. Le ragioni storico-giuridiche si fondano sulla pseudo-donazione di Costantino e sul trasferimento dell'impero, per ordine del papa, ai greci prima e poi ai tedeschi.

Infine l'ultima prova desunta dall'ordine metafisico si basa sul principio dell'unità che coordinava nel medioevo le scienze e si voleva che regolasse anche la politica. A questo ragionamento degli avversari, Dante ne opponeva un altro che non è qui il luogo di discutere e di analizzare. Ma è probabile che alcuni degli argomenti fondamentali dei sostenitori del potere spirituale, egli li abbia letti nel "De Potestate ecclesiastica". Infatti nel trattato egidiano le due ragioni storico-giuridiche sono esposte nel capo terzo del libro primo, nel quinto del secondo e nel secondo del terzo: quella delle due spade ricorre più volte nei libri primo (c. 3°) e secondo (cc. 5°, 13° e 15°): l'offerta dell'incenso e dell'oro è menzionata nel c. 5° del libro secondo: la deposizione di Saul è ricordata come prova della dipendenza della potestà laica da quella sacerdotale nei capitoli 4° e 7° dello stesso libro secondo. Riscontri questi che potrebbero essere anche eventuali essendo comuni alla pubblicistica dell'età di mezzo, ma che acquistano nel caso nostro un rilievo speciale dalle altre affinità ed analogie osservate fra l'opera di Dante e quella di Egidio, e concorrono anch'essi a formare quel fascio di probabilità da cui rampolla, come abbiamo detto, la certezza per la nostra tesi.

Un parallelismo di altre teorie filosofico-sociali del Convivio e della Monarchia con alcune concezioni dello stesso ordine del De Regimine Principum volle istituire Carlo Cipolla in un pregevole lavoro pubblicato nel 1891 (CARLO CIPOLLA, Il trattato De Monarchia di Dante Alighieri e l'opuscolo De Potestate Regia et Papali di Giov. da Parigi. Torino, Carlo Clausen, 1892).

A lui sembra possibile confrontare la prima parte del terzo libro del trattato egidiano, in cui si coordinano subordinatamente le società di famiglia, di città e di regno, e si dichiara propter quod bonorum inventae fuerunt quelle comunità, con i passi del quarto libro del Covivio che trattano del medesimo argomento. Una lontana relazione nota inoltre fra le ragioni che muovono lo scrittore agostiniano a preferire il governo monarchico a quello democratico e i motivi che inducono Dante a stabilire la necessità dell'impero. Ma sono idee generiche e comuni ai trattatisti di quell'età che si trovano alla base di qualsiasi sistema sociale-politico in quei tempi escogitato E riteniamo perciò insieme al Boffito, che siano meramente fortuiti questa volta i richiami fra i due autori.

Il filosofo agostiniano che un giorno riempì Parigi e il mondo cattolico della sua fama è oggi un dimenticato. Le sue opere manoscritte o stampate giacciono polverose nelle biblioteche e pochi studiosi di storia e di scienza medioevale le ricercano. Ma io mi accostai con amore questo grande che una vasta orma segnò nella scolastica, e un contributo notevole portò alla letteratura politica del suo tempo. Recentemente un colto professore del Collegio Angelico gli tributava la lode di scopritore d'importanti teorie nel campo della psicologia sperimentale (P. M. BARBADO, La Conciencia sensitiva sugun Santo Tomas. Madrid, Tipogr. de la "Rivista de Archivos, Bibliotecas y Museos", 1924, pag. 32). Alcune sue interpretazioni delle dottrine di S. Tommaso fecero testo nella filosofia cattolica, come quella intorno alla materia, principio d'individuazione. Questo signum, questo principium individuationis, egli lo ripose nella stessa materia, ma in quella "certa quantità di essa che s'investe di una data forma per costituire un individuo, né può costituirne più d'uno, né può investirsi d'altra forma" (GENTILE, I problemi della scolastica. Laterza, Bari, 1913, pag. 184).

Invece la gloria di Dante si è librata sempre nel corso dei secoli. Le poche linee con cui fu disegnata la maschera di questo terribile poeta, rimasero scolpite indelebilmente nella memoria degli uomini. Egli assommò in sé tutti i caratteri della nostra razza, e ne fu il genio ed il cantore. Ma si può dire che nella sua opera titanica fece echeggiare il canto eterno della cristianità. In una idea il Poeta s'incontrò col suo troppo minore antagonista: nella glorificazione di un concetto universale che partiva da Roma. Ed era il potere imperiale in Dante, quello teocratico in Egidio. Ma sempre la forza ideale dell'Urbe, il fascino eterno di una città allora circondata di silenzio e di campagne malsane, muoveva i loro cuori e le loro intelligenze.

E quanto più vuota di abitanti, quanto più ravvolta di rovine, tanto più l'antica sede dei Cesari e poi dei Sommi Pontefici, splendeva sulle coscienze come potenza morale.