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Teologi agostiniani: AGOSTINO TRIONFO

Immagine di Agostino Trionfo

Agostino Trionfo

 

 

 

Le Opere minori di AGOSTINO TRIONFO

di Ugo Mariani O.S.A

 

 

 

Oltre la "Summa de Potestate Ecclesiastica" ad Agostino Trionfo si devono ascrivere alcuni trattati minori non tutti ancora stampati. Il Gandolfi gli attribuisce quattro operette inedite:

1. Contra Divinatores et Somniatores.

2. Super Facto Templariorum.

3. De Potestate S. Collegii mortuo Papa.

4. De Potestate Praelatorum.

Giuseppe Lanteri, altro suo biografo, ne aggiunge altre due:

5. De Sacerdotio et regno ac de donatione Constantini.

6. De Ortu Romani Imperii (IOSEPHUS LANTERI, Postrema saecula sex Religionis Augustinianae. Tolentini, typ. Guidoni, 1850, vol. I, pag. 77).

Le prime quattro furono riportate da Biccardo Scholz fra i testi del suo classico lavoro sulla pubblicistica del tempo di Filippo il Bello e di Ludovico il Bavaro. Le ultime due sono invece ancora completamente sconosciute. Inoltre il Finke inserì nelle Fonti per la storia di Bonifacio VIII un'operetta attribuita ad Agostino Trionfo, di carattere polemico, scritta per ribattere le calunnie che gli avversari di papa Gaetani diffondevano, dopo la sua morte, nel mondo cristiano. Con la scorta dello Scholz, sottile indagatore del pensiero politico medioevale, approfittando delle Preziose notizie e del commento che egli premette ai testi, esamineremo queste opere minori dello scrittore agostiniano.

 

Tractatus contra articulos ad diffamandum sanctissimum patrem Bonifacium papam sanctae memoriae et de commendacione ejusdem

(Pubblicato dal FINKE, Aus den Tagen Bonifaz VIII, II, Quellen, LXIX e ss).

E' contenuto nel codice 4046 della Nazionale di Parigi, dalla carta 19.a alla 28.a. L'operetta fu scritta probabilmente durante i primi anni del pontificato di Clemente V, quando già questo pontefice, dopo aver pellegrinato quattro anni per il mezzodì della Francia, si era fermato ad Avignone nel 1309. Lo Scholz ottimo giudice, attribuisce decisamente questo breve lavoro al nostro autore (R. SCHOLZ, Op. cit., pag. l75). Agostino Trionfo si rivela un abile agente e un portavoce del partito di Bonifacio. Egli intende non soltanto comporre un memoriale in difesa della condotta del Gaetani, ma anche d'indicare ai superstiti seguaci del fiero pontefice, la via che li deve condurre al successo nella lotta intrapresa contro la politica della corte papale troppo ligia ai disegni e alle ambizioni di Filippo il Bello. Il trattatello è dedicato ad un cardinale di curia, cui si rivolge l'autore nella chiusa con parole di lode: "Vobis specialiter convenit propter Bonifacii memoriam quae in omnibus aliis fuit perdita, solum in vobis fuit servata".

Il Finke ha creduto di potere, identificare questo personaggio importante con il nipote di Bonifazio, il Card. Francesco Gaetani, colto porporato, devoto alla memoria dello zio. Le accuse contro il papa così atrocemente insultato in Anagni, messe fuori all'inizio del suo pontificato, aggravate durante la lotta contro i Colonna e gli Spirituali, furono ripetute nella lunga contesa che ebbe con la corte di Francia. A i 30 giugno 1303, in un'assemblea presieduta dal Re, erano risuonate più che mai violenti le voci contro Bonifazio VIII. Ventinove capi di accusa accumularono su di un uomo tutti i vizi e i delitti di quell'età avvilita. Le calunnie più triviali, si scagliarono contro il pontefice; alcune come quelle che il papa non credesse all'immortalità dell'anima, alla transustanziazione, che avesse un demonio in casa, sommamente ridicole. Si chiese la convocazione di un concilio ecumenico perché motivi di coscienza spingevano il Re a quanto egli assicurava, a chiedere alla Cristianità un rimedio alle sventure che i vizi di Bonifazio attiravano sulla Chiesa. I prelati che assistevano alla riunione, lungi dal protestare, aderirono incondizionatamente alla convocazione del concilio, perché in tal modo si dava l'occasione al vicario di Cristo di provare pubblicamente la sua innocenza. Degni cortigiani di quel monarca simulatore, che affermava che avrebbe volentieri coperto col suo mantello le nudità del Santo Padre (ROCQUAIN, Op. cit., pag. 272). I decreti dell'assemblea furono letti al popolo: Commissari regi si sparsero per le provincie ed ottennero ben settecento adesioni dai capitoli, dai monasteri, dalle città, dalle province, molte date spontaneamente, non poche strappate a forza. L'Università di Parigi aderì con entusiasmo.

Il Re scrisse allora ai principi, ai vescovi, ai cardinali perché convocassero il concilio che doveva dare la pace alla Cristianità. La notizia di quanto era avvenuto in Francia pervenne a Bonifazio in Anagni, sua patria, dove si era recato nei caldi della stagione. Subito, in pieno concistoro, il 15 agosto si purgò per sacramento dalle imputazioni a lui mosse e pubblicò una bolla che testimoniava il suo nobile carattere. Non degli attacchi alla sua persona, ma degli oltraggi alla sua dignità egli si mostra preoccupato. Una sola frase mostra che è consapevole delle calunnie ignominiose che gli furono lanciate. "Noi conosciamo, egli esclama, i delitti che ci sono imputati, ma sono accuse lanciate da uomini che immergevano la lingua nel fango, mentre tenevano gli occhi rivolti al cielo" (ROCQUAIN, Op. cit., pag. 280).

Neanche la morte del Gaetani fece tacere le malevoli voci. E più volte il Nogaret e lo stesso Filippo chiesero a Clemente V l'aperta condanna della memoria di Bonifazio VIII. L'operetta del Trionfo è divisa in tre parti. Nella prima (carte 18-22) vengono riferite e confutate le principali accuse. Di alcune frasi imputate al papa che potrebbero aver sentore di eresia, l'autore spiega il vero senso in modo da renderle perfettamente ortodosse, di altre, come in genere degli addebiti più gravi, mostra l'evidente esagerazione e falsificazione dei nemici del pontefice. Contro gli avversari di Bonifazio uomini carentes sanctitate, auctoritate et ventate sacrae scripturae (cioè non maestri in sacra pagina) e quindi immeritevoli di ogni fiducia, Agostino si mostra in tutto il trattato particolarmente severo, specialmente nella seconda parte (carte 22-24) quando rievoca diffusamente il dramma di Anagni. Dopo gli studi del Renan (E. RENAN, Etudes sur la politique religieuse da règne de Philippe le Bel. Paris 1899), del Finke, e in seguito dell'on. Pietro Fedele (PIETRO FEDELE, Per la storia dell'attentato di Anagni, in Bollettino dell'Istituto storico italiano. Vol. 41, pagg. 195 ss), siamo in grado di ricostruire gli avvenimenti che si succedettero a dì 7 settembre 1303 nella piccola città del Lazio. Il vecchio pontefice visse ore veramente tragiche, e seppe mostrarsi in tutto consapevole della dignità altissima di cui era investito. Disposto a morire, ma non a cedere i suoi diritti, egli ripeteva ai suoi nemici: "Ecco il capo, ecco il collo". Sciarra Colonna l'avrebbe ucciso se non si fosse opposto il Nogaret, al quale premeva troppo trascinare in prigione il papa in Francia, perché servisse ai disegni di Filippo il Bello. Le cose però non dovettero andare in modo così tranquillo come vorrebbe far credere l'astuto ministro del Re francese nelle varie apologie della sua condotta in Anagni, pubblicate dopo la morte di Bonifazio. Un testimonio oculare, il card. Nicola Boccasini che non aveva voluto abbandonare il pontefice nel pericolo, salito poi sulla cattedra di S. Pietro col nome di Benedetto XI, nella bolla Flagitiosum scelus, pubblicata per condannare gli autori del triste avvenimento, asserisce che "manus in eum iniecerunt impias, protervas erexerunt cervices, ac blasphemiarum voces funestas ignominiose jactarunt". Ricordando con dolore questi fatti, Agostino Trionfo si lamenta che gli autori del sacrilego attentato siano rimasti impuniti, e che proprio nel paese del nemico abbia il papa trasferito la sua residenza. Da questa condotta di Clemente V grandi mali verranno alla comunità cristiana, perché dalla fortuna dei persecutori del pontefice i malvagi trarranno motivo d'imitarli nelle loro gesta e di opprimere i pastori del gregge di Cristo.

Il Trionfo non si oppone alla canonizzazione di Celestino V, sollecitata dagli Spirituali e dalla corte di Francia, ma dice che più del suo predecessore è Bonifazio VIII, morto come un martire al servizio della Chiesa, degno degli onori dell'altare. La terza parte, la più importante perché contiene un'amara e violenta satira contro Clemente V e i cardinali di Francia, è priva di tre capitoli, l'ottavo, il nono e il decimo, i cui titoli sono riportati in un indice posto nella carta 24a. Iddio, osserva Agostino, affida talvolta ad un vicario indegno il governo della comunità cristiana, per provare e punire il suo popolo. Egli permise che fosse insultato Bonifazio VIII, suo fedele ministro, per dare ai buoni ed ai cattivi il monito di umiliarsi a Lui. Anche ora che sulla cattedra di Pietro è asceso un Pastore noncurante dell'onore del proprio ufficio e della giusta vendetta contro i carnefici di papa Gaetani, la Provvidenza agisce secondo alti disegni. Permettendo il male, il Signore ha voluto richiamare all'idea del dovere i cardinali d'Italia che nel conclave decisero col loro voto dell'elezione del candidato francese, sperando di farne un avversario delle ambizioni di Filippo il Bello. Inoltre tutti i fedeli hanno avuto la prova delle virtù del grande pontefice oltraggiato, perché "non poterat Bonifacii virtus et excellentia cagnosci, nisi per vitium et defectum alterius". I costumi dell'alto clero sono noti ad Agostino Trionfo che enumera i difetti dei componenti il Sacro Collegio. Richiamandosi alla fragilità umana, egli esorta i prelati e il papa a stabilire la loro residenza fuori della patria, per evitare le pretese e le ingerenze sul ministero ecclesiastico dei loro parenti, amici e concittadini. Le ragioni addotte per non riportare la curia pontificia a Roma sono analizzate e confutate. Nondimeno ai cardinali malcontenti della sede di Avignone, è rivolta l'esortazione di non chiedere licenza di ritornare ad titulum cardinalatus, almeno finché la domanda non sia giustificata da qualche grave ragione, quale potrebbe essere il numero sufficiente dei cardinali che rimarrebbero in corte, la residenza non ordinata e instabile della curia, la necessità di provvedere al governo della propria chiesa o al proprio sostentamento e a quello della famiglia, il pericolo personale che potrebbe sorgere dalla permanenza nella curia pontificia. Nelle circostanze attuali, finché il papa risiederà nella terra di Francia, è doveroso che ciascun cardinale dimori presso di lui, menando una vita austera e silenziosa, "cum humilitate, pocius tacendo quam loquendo". Lo scritto di Agostino Trionfo ha grandissimo valore come espressione del profondo e generale disgusto prodotto in Italia dal trasferimento della sede pontificia. Evidentemente i cardinali italiani tramavano di abbandonare Clemente V ed Avignone per ritornare in patria. Il nostro Scrittore tenta di dissuaderli da questo disegno. Egli consiglia di rimanere in curia per lottare contro la parte francese e preparare il movimento di ritorno a Roma, residenza naturale del Successore di Pietro.

 

Brevis tractatus super facto Templariorum

E' contenuto nello stesso codice della Nazionale di Parigi (carte 28-30), dopo l'operetta esaminata, e prima di due altri trattatelli di Agostino, il De duplici potestate praelatorum et laicorum (cc. 30-32) e il De potestate Collegii mortuo papa (cc. 32-34). Segue nel codice uno scritto anonimo intitolato De origine ac translatione ac statu romani imperii (carte 34-36), diretto contro i principi tedeschi che negavano la subordinazione dell'autorità temporale a quella spirituale. Secondo lo Scholz, anche di questa breve dissertazione è probabilmente autore Agostino Trionfo. Il nome dell'autore non è menzionato nel manoscritto parigino, ma noi abbiamo già veduto che un lavoro con questo titolo è attribuito al monaco agostiniano dai suoi biografi, e inoltre il codice 939 della Vaticana lo riporta indicandolo come opera del Trionfo. Il 13 ottobre 1307 tutti i cavalieri dell'antico e glorioso Ordine del Tempio che si trovavano sul suolo francese furono arrestati e posti in carcere dai funzionari dello Stato. Approfittando delle voci pubbliche che accusavano di grave immoralità questi religiosi soldati, Filippo il Bello, per impossessarsi delle loro immense ricchezze, chiese a Clemente V l'abolizione dell'Ordine. Lungamente si oppose il papa, tergiversando, alle richieste del potente monarca, ma infine fu costretto a rimettere la questione al 15° concilio ecumenico convocato negli anni 1311-1312 a Vienna nel Delfinato. Il 22 marzo 1312 comparve la bolla Pax in excelso che decretava lo scioglimento dell'Ordine come inutile e pericoloso. Molti cavalieri erano già periti fra le torture dei tribunali francesi; Giacomo Molay, ultimo gran maestro, fu bruciato vivo il 13 marzo 1313. Subito dopo l'imprigionamento dei cavalieri, il Re aveva interpellato la facoltà teologica di Parigi per domandare un parere sulla legalità dei provvedimenti presi. Con sua grande meraviglia i professori dell'Università, già così ligi alla sua politica durante la lotta contro Bonifacio VIII, non dettero la risposta d'incondizionata approvazione che egli desiderava (Cfr. DENIFLE, II, n. 664, pag. 125).

Fra i maestri interpellati alcuni appartenevano, come Alessandro da S. Elpidio, all'Ordine degli Eremetani di S. Agostino. Forse il Trionfo compose in questa occasione il suo trattato per meglio dilucidare la risposta che il collegio accademico aveva dato a Filippo il Bello in quella circostanza. Egli riassume la sua tesi in poche parole: regibus et principibus saecularibus non licet hereticos capere sine requisitione ecclesiae. E adduce in prova passi del vecchio e del nuovo Testamento e i soliti argomenti filosofici della superiorità dell'anima sul corpo e quindi del potere spirituale su quello temporale. La questione, come si vede, è generica e abbraccia tutti gli eretici e non soltanto i Templari che in qualità di appartenenti ad un ordine monastico non era dubbio che avessero il diritto di essere giudicati dal tribunale ecclesiastico (SCHOLZ, Die Publizistik, ecc., pag. 510: Verum quia predicti Templarii religiosi dicebantur post eorum capcionem et eorum confessionem dubitat predictus rex francorum, an predictos et universaliter hereticos ipse posset proprio iudicio (eos) capere et condemnare sine requisicione ecclesiae. Et quia omnes articuli, de quibus dubitat ipse rex super hac materia, ex isto primo pendent, ideo volumus ostendere, quod non solum Templarios, qui erant persone immediate subiecte ecclesie, verum etiam quoscunque alios hereticos nec rex nec aliquis secularis princeps habet auctoritatem capiendi vel judicandi sine ecclesie requisitione).

Nondimeno in un caso egli concede alla potestà laica d'intervenire per reprimere l'eresia, quando vi fosse pericolo che i nemici della fede, forti del loro numero, mettessero in pericolo l'ortodossia della nazione, e mancasse il tempo di consultare tempestivamente l'autorità ecclesiastica (SCHOLZ, Die Publizistik, ecc., pag. 515: Ad ultimum dicimus ergo, quod si reges et principes viderent sic hereticos pullulare in eorum regno, ut merito possent timere, quod eorum subditi fideles inficerentur et corriperentur per eos, et cum hoc commode non possent ita cito consulere ecclesiam, ut tali periculo subveniret, credimus, quod in tali casu regibus et principibus licitum esset dictos hereticos capere, ita tamen quod semper haberent propositum eos ecclesie reddere et eos sub potestate ecclesie tradere ad requisicionem eius). Ma i sovrani moderni, conchiude argutamente Agostino alludendo all'imprigionamento improvviso e non autorizzato dei Templari, rassomigliano a quel medico che prima ordinò la medicina all'infermo e poi consultò i libri per sapere se la cura era giusta. E tornato presso il paziente si accorse che costui era morto.

 

TRACTATUS BREVIS DE DUPLICE POTESTATE PRELATORUM ET LAICORUM QUALITER SE HABENT

Menzionata negli antichi cataloghi delle opere del Trionfo, questa non lunga dissertazione sulla natura dei due poteri, è riportata anonima nel codice parigino (cc. 30-32). Sebbene non vi sia indicata la data di composizione, la possiamo con ogni probabilità assegnare a quel periodo di tempo che Agostino, dopo il 1300, trascorse insegnando nell'Università della capitale di Francia. Anche gli altri scritti esaminati appatengono a questi fecondi anni della vita del nostro scrittore. L'esordio dei trattato ha un'intonazione alquanto amara. Non mancano ai nostri giorni, dice l'autore, coloro che avendo dimenticato il detto aristotelico "amicus Plato, sed magiis amica veritas", osano negare, per non dispiacere agli uomini alcune verità per sé evidenti. Fra queste è da annoverarsi la dottrina della dipendenza e dell'origine immediata della potestà spirituale. E non soltanto il potere concesso ai principi secolari, ma anche l'autorità di cui sono investiti i dignitari della Chiesa deriva da Dio per mezzo del pontefice. Come Egidio nel De Renuntiatione Papae, così Agostino si diffonde in questa operetta a definire la duplice "potestas ordinis et jursdictionis" dei Prelati. La prima, che importa la facoltà di offrire il sacrificio e amministrare i sacramenti, fu concessa da Cristo a tutti gli apostoli e quindi si trasmette in modo eguale ai vescovi e al papa, loro successori, ed è inalienabile. La seconda, che si può anche chiamare la potestas subditos regendi, fu data soltanto a Pietro in tutta la pienezza ed universalità e conseguentemente ai Romani Pontefici, e subordinatamente, cioè mediante Petro et mediante papa agli altri apostoli e ai pastori che sono eredi spirituali del loro potere. Che poi la suprema autorità eeclesiastica abbia ricevuto da Dio il dominio perfetto delle cose temporali per comunicarlo ai laici, con il diritto di controllo è l'obbligo di privarne gli indegni, è provato dall'autore con dimostrazioni assunte da principi di ordine naturale, metafisico, morale e divino. Ma tutti gli argomenti che egli adduce possiamo ridurli a quell'unico su cui s'imperniò la letteratura canonistica e politica del suo tempo: la missione ultraterrena della Chiesa e la superiorità dello spirito sulla materia.

 

De potestate Collegii mortuo papa

E' la più breve delle opere minori del nostro scrittore. Occupa appena una carta, la trentaduesima, del codice parigino. Tratta della questione importante dei poteri del sacro Collegio durante la vacanza della S. Sede, e sebbene nel scritto da cui la trascrisse lo Scholz sia anonima, tuttavia è nominata negli antichi cataloghi tra i lavori di Agostino Trionfo. Sui limiti della potestà concessa in tali occasioni ai cardinali, si discuteva da lungo tempo fra i cultori del diritto canonico, e a rendere più fervide le loro polemiche e a provocare severe condanne da parte dei fedeli pensavano gli stessi porporati coi loro dissensi, gelosie e rivalità. Dopo la morte di Celestino IV avvenuta il 17 o 18 novembre 1241, la S. Sede restò vacante diciannove mesi. Gregorio X fu eletto dopo un interregno di tre anni, Niccolò IV dopo undici mesi, Celestino V dopo due anni e tre mesi. Undici mesi corsero fra la morte di Benedetto XI e l'elezione di Clemente V, due anni furono appena sufficienti al sacro collegio per innalzare Giovanni XXII al trono pontificio. Forse in una di queste due ultime vacanze della S. Sede pubblicò AgostinoTrionfo il suo trattato. Partendo dal principio dell'immortalità della Chiesa e del papato, Egidio aveva sostenuto nel De Renuntiatione papae la trasmissione dell'autorità di giurisdizione ai cardinali, in caso di decesso o di abdicazione del Sommo Pontefice.

Anche per il Trionfo, come del resto per tutti i teologi cattolici, la Chiesa, essendo il Corpus mysticum Christi, è un organismo soprannaturale che non può essere soggetto alla morte perchè sempre vivrà il suo Sposo divino, e non perderà mai quella massa di diritti e di poteri che le sono connaturali avendoli ricevuti dalla divinità, anche se dovesse rimaner priva, per un tempo più o meno lungo, del suo capo terreno, il vescovo di Roma, vicario di Cristo. In tal caso depositario della potestas Jurisdictionis, durante il periodo di vacanza, è il Sacro Collegio cui spetta, oltre l'elezione del novello pontefice provvedere ad un regolare governo della Chiesa, salvaguardare la comunità dei fedeli dalla propaganda degli errori contro la fede, amministrare e tutelare i beni materiali del clero. Ma non si trasmette ai cardinali la pienezza dell'autorità. Numerose restrizioni limitano, specialmente nel campo legislativo, la loro potestà di giurisdizione. Così essi non possono, abrogare gli statuti dal papa stabiliti nè crearne dei nuovi a proprio favore, nè in genere compiere quegli atti di governo od arrogarsi quei diritti che personalmente furono riservati al Successore di Pietro. Queste limitazioni si basano sulle Costituzioni emanate da Gregorio X nel concilio di Lione del 1273 (Cap. un. Tit. III, Lib. V in VI) e ribadite in quello di Vienna da Clemente V (Cap. 3. Tit. VI, Lib, I in VI). Lo scopo dei Sommi Pontefici nel pubblicare queste ordinanze era d'impedire gl'interregni prolungati governo della Chiesa così dannosi alla disciplina del clero e dei fedeli. Ma i cardinali non accolsero docilmente queste disposizione. E dopo la morte di Benedetto XI e Clemente V due lunghe vacanze ebbe a soffrire la S. Sede, l'una di undici mesi e l'altra di oltre due anni.

 

Tractatus contra divinatores et somniatores

Menzionata dai biografi di Agostino, conservata nel codice Vat. lat. 939, nelle carte 31v-46v, questa breve dissertazione, importante documento della potenza sociale raggiunta dagli Spirituali nel secolo XIV, fu recentemente pubblicata e commentata dallo Scholz (Unbekante Kirchenpolitische Streitschriften aus der Zeit Ludwig des Bayern (1327-1354). Rom. Verlag von Loescher, pag. 191ss (commento) e pag. 481ss. (testo)). Quando il Trionfo componeva i suoi trattati ecclesiastico-politici, il mondo cristiano che oltre un secolo prima era stato sospinto dalle predizioni dell'abate Gioacchino di Flora nei terrori dell'Apocalisse, subiva ancora il fascino della predicazione di Francesco di Assisi che era scesa su di esso come un largo raggio di sole e come la squisita grazia di un mattino di aprile. Il movimento di rinascita spirituale iniziatosi improvvisamente nelle campagne dell'alta Umbria, si era in breve tempo propagato in tutta l'Italia, mantenuto vivo per lunghi decenni dai figli del grande apostolo che si erano assunto il compito di attivare il lievito dell'amore nelle coscienze e di destare nelle anime le forti passioni religiose. Ma S. Francesco tutto pervaso dall'eroico desiderio di una vita perfetta, non aveva preveduto il duro conflitto che, subito dopo la sua morte, sarebbe sorto dell'Ordine da lui fondato tra i due partiti dei moderati e dei rigidi interpreti della sua regola. Pensò forse a delle apostasie, a una riconciliazione di molti seguaci colla vita del secolo, ma che un grande numero, forse la parte più pura dei suoi discepoli, sarebbe arrivata allo scisma e alla ribellione alle supreme autorità della Chiesa, questo il mistico e forte figlio di Assisi non poteva immaginarlo. Sino al 1312 la questione della disciplina del grande istituto monastico, sembrava in apparenza che fosse l'oggetto della lotta fra le diverse tendenze dell'Ordine. La condotta della S. Sede verso i pii ed esaltati monaci, chiamati dal popolino Fraticelli, era stata dapprima prudentemente benevola. Essa aveva saputo valutare il fermento d'idee, la ricca fioritura di misticismo che gli Spirituali suscitavano nella comunità dei fedeli. Anche quando l'Università di Parigi custode, secondo la frase del Romanzo della Rosa, della chiave della cristianità, insorse unanime nel 1254 contro l'introductorium ad Evangelium aeternum di frate Gerardo da S. Donnino, discepolo di Giovanni da Parma, capo della corrente spiritualistica francescana, il tribunale teologico, pur condannando il libro radicalmente sovvertitore dell'ortodossia, cattolica tenne un contegno moderato. Negli anni che Egidio Romano aveva trascorso a Parigi giovinetto, per addottorarsi nelle discipline filosofiche e teologiche, durava ancora l'eco dell'ardenti polemiche dell'Università contro gli Ioachimiti e gli Spirituali, invelenito dal desiderio dei maestri secolari di compromettere gli ordini mendicanti per sbarazzarsi di pericolosi competitori nella conquista delle cattedre della celebre scuola. Ma alla mente equilibrata e sillogistica del monaco agostiniano non dovette riuscire simpatica quella lunga schiera di mistici che vivevano nell'estasi e nel sogno, aspettando l'era dell'Evangelo Eterno di Gioacchino da Flora, il rinnovamento sociale e religioso dell'umanità. Educato da S. Tommaso all'assimilazione del genio realistico della filosofia d'Aristotele, ravvisò subito il pericolo di quell'idealismo eccessivo e tenne lontano l'Ordine cui apparteneva e la scuola che aveva fondato dal movimento di acceso ascetismo. Negli anni che precedettero immediatamente il concilio di Vienna, e specialmente dal 1309 in poi, ci fu un serio tentativo nella corte di Avignone per creare un ambiente di simpatia agli Spirituali e riabilitare la memoria e le opere di Pier Giovanni Oliva. Lavorarono concordemente a questo scopo Arnaldo da Villanova, Raimondo Lullo, il Nogaret e il partito cardinalizio dei Colonna. Una commissione fu incaricata di esaminare le opere dell'Oliva: fu allora che Ubertino da Casale pubblicò Arbor vitae crucifixae. Clemente V desiderava di aver notizie predisse sul valore e sulla portata del movimento spiritualista. Agostino Trionfo colse l'occasione e scrisse l'acre operetta polemica (SCHOLZ, Die Publizistik, ecc., pag. 482: Ut tamen vestre sanctitati faciliter occurrat quod scire desiderat, prelibatum tractatum ultro per capitula distinguo). Vi è una lunga schiera di esaltati e di pseudoprofeti, dice il monaco agostiniano, ai quali non si deve prestar fede. Questi visionari spacciano per moneta sonante le loro menzogne, simulando la pietà, abusando della Sacra Scrittura come testimone delle loro profezie. Sono così arroganti che osano suggerire, senza l'autorizzazione della potestà ecclesiastica, una norma evangelica di vita non soltanto ai semplici fedeli, ma anche ai principi ed ai sovrani (SCHOLZ, Die Publizistik, ecc., pag. 484: Sunt aliqui sic supersticiosi ut dicant se velle tradere motivum explicare viam quibusdam regibus et principibus, secundum que vivere debeant iuxta regulam evangelii; sed quod hoc non liceat facere alicui sine speciali mandato et requisicione ecclesiae racionibus et auctoritatibus comprobatur. Igitur heretici non immerito isti possunt appellari). Questi fantastici spacciatori di vani sogni, sono facilmente riconoscibili dall'irrequietezza della loro vita. Trascorrono infatti i loro giorni peregrinando di luogo in luogo, ora ammogliati, ora celibi, ora secolari, ora monaci in cerca sempre di proseliti (SCHOLZ, Die Publizistik, ecc., pag. 481: Si igitur videmus aliquos mobiles et fluctuantes in statu eorum, ut nunc sint uxorati, nunc continentes, nunc seculares, nunc religiosi, nunc ultra mare, nunc citra, nunc mundum spernentes, nunc apparentes, signum est visiones factas talibus non esse divinas revelationes, sed dyaboli illusiones).

L'allusione a Raimondo Lullo e Arnaldo da Villanova è qui evidente. Il primo, cavaliere e gran siniscalco di Giacomo d'Aragona, a trentadue anni, improvvisatosi missionario e riformatore della Chiesa, abbandonò moglie, figli, ricchezze per assumere il saio di frate minore, e studiò l'arabo e le lingue orientali per diffondere il vangelo nei paesi infedeli. Passato a Tunisi, vi sfuggì a stento la morte: si rifugiò in seguito a Genova, a Napoli, dove Arnaldo da Villanova lo iniziò all'alchimia, in Francia, scrivendo, predicando, soffrendo dispute, prigionie, deriso come un folle, esaltato come un santo, glorificato dall'Università di Parigi con l'adozione della sua celebre Ars Magna. Il secondo, strana figura di scienziato e di avventuriero, nato in Catalogna, medico di Pietro III d'Aragona e di Bonifazio VII, si era rifugiato presso Federico Re di Sicilia per sfuggire alle censure dei tribunali ecclesiastici che avevano proibito i suoi libri. Dedito all'alchimia e alla ricerca della pietra filosofale, era amico e sostenitore degli Spirituali. In un'altra pagina del trattato, Agostino Trionfo lancia nuovi strali alle dottrine di Raimondo Lullo, specialmente contro il principio filosofico di questo scrittore, che si deve anteporre la dimostrazione alla fede, essendo quest'ultima sovrasensibile ma non indimostrabile (SCHOLZ, Die Publizistik, ecc., pag. 484). Nè risparmia le critiche alle teorie di Pier Giovanni Oliva, e non dubita di chiamarle eretiche, lamentandosi che, sebbene condannate dai confratelli del monaco francese, trovino ancora difensori e propagandisti (SCHOLZ, Die Publizistik, ecc., pag. 485: Quia doctrinam cujusdam fratris minoris Petri Iohannis interim extollant et commendant, ut praeter illam religionem christianam et regulam evangelicam dicant non posse haberi vel servari. Et ipsos fratres minores sacrae fidei professores eo quod doctrinam illius fratris tanquam superstitiosam et erroneam extirpaverunt, petant condemnari et annullari. Cum tamen clare clarius apparet doctrinam illius fratris vel sapere confusionem paganorum vel supersticionem hereticorum vel languorem schismaticorum vel cecitatem Iudeorum, sicut liquide apparet per XII articulos qui in dictis eius reperiuntur. Nel Chartularium Univ. Paris., II, pagg. 238-239, n. 790 è riportata la nota dei dodici articoli incriminati di Pier Giovanni Oliva e la relazione fatta di essi a Giovanni XXII nel 1318 dai professori di Parigi).

In seguito Agostino, mettendo nello stesso livello superstizione e spiritualismo, tratta della negromanzia e divinazione, della magia che è proibita anche se praticata dai medici in soccorso della loro arte, dell'interpretazione dei sogni che non è ritenuta sicura. Ma alle previsioni astrologiche, all'osservazione del tempo e del raffreddamento degli animali nelle bufere atmosferiche, egli presta una certa fede, purché si escluda il fatalismo e il determinismo della volontà sotto l'influsso delle stelle. Nella Summa de Poteste ecclesiastica chiamerà non soltanto cattivo professionista, ma moralmente colpevole quel medico che trascurasse, nella cura dei suoi ammalati, l'osservanza di certi usi superstiziosi (Summa de Potestate Ecclesiastica. Romae, apud Vincentium Accoltum, 1582, p. 542. Respondeo dicendum, quod medicos peccare dantes medicinam non in debitis signis astrorum dupliciter potest intelligi. Primo peccato artis ignorantiae per eorum negligentiam. Secundo peccato culpae conscientiae per eorum malitiam). Suo malgrado, il nostro autore non è del tutto immune dall'idee superstiziose del tempo, come non lo furono personaggi più notevoli e spiriti di lui più forti.