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opera omnia di sant'agostino:  DE LIBERO ARBITRIO

Agostino e Gerolamo di Gerolamo Genga

Agostino e Gerolamo

 

 

DE LIBERO ARBITRIO

Libro secondo

 

 

DIO E IL LIBERO ARBITRIO

 

 

Dio uomo e volontà (1, 1 - 2, 6)

 

Dio e il libero arbitrio.

1. 1. Evodio - Se è possibile, manifestami la ragione per cui Dio ha concesso all'uomo il libero arbitrio della volontà. Se non l'avesse, non potrebbe peccare.

Agostino - Ma per te è apoditticamente noto che Dio gli ha dato questo potere e pensi che non doveva essergli dato?

Evodio - Per quanto mi è sembrato di capire dal libro precedente, si ha il libero arbitrio della volontà e soltanto per esso si pecca.

Agostino - Anche io ricordo che questo tema ci si è reso evidente. Ma ora io ti ho chiesto se tu hai conoscenza certa che proprio Dio ci ha dato questo potere che evidentemente si ha e per cui evidentemente si pecca.

Evodio - Nessun altro, penso. Da lui siamo e tanto che si pecchi o si agisca bene, da lui si hanno la pena e il premio.

Agostino - Ma anche questo voglio sapere, se ne hai conoscenza certa, ovvero se, mosso dall'autorità, lo ammetti per fede opinatamente, senza averne scienza.

Evodio - Ammetto che sull'argomento dapprima mi soli rimesso alla autorità. Ma che cosa di più vero che ogni bene è da Dio e che ogni cosa giusta è bene e che è cosa giusta la pena a chi pecca e il premio a chi agisce bene? Ne consegue che da Dio è retribuito con l'infelicità chi pecca, con la felicità chi agisce bene.

 

L'uomo è da Dio.

1. 2. Agostino - Non faccio obiezioni. Chiedo però ancora come sai che siamo da lui. Questo ancora non lo hai dimostrato, ma soltanto che da lui si hanno la pena e il premio.

Evodio - Ma questo lo considero dimostrato soltanto in base al principio ormai reso evidente che è Dio a punire i peccati poiché da lui è la perfetta giustizia. Può essere di una qualsiasi bontà concedere benefici ad estranei che non ne dipendono, ma non è della giustizia punire chi non ne dipende. Ne consegue che noi da lui dipendiamo perché non solo è benigno verso di noi nel dare, ma è anche giustissimo nel punire. Inoltre si può dimostrare che l'uomo è da Dio anche dal principio da me posto e da te concesso che ogni bene è da Dio. Infatti l'uomo, in quanto uomo, è un determinato bene perché, quando vuole, può vivere secondo ragione.

 

Anche la volontà è da Dio.

1. 3. Agostino - Certo che se le cose stanno così, è già risolto il problema che hai proposto. Se l'uomo è un determinato bene e se non potesse agire secondo ragione se non volendolo, ha dovuto avere la libera volontà, senza di cui non poteva agire moralmente. Infatti non perché mediante essa anche si pecca, si deve ritenere che per questo Dio ce l'ha data. È ragione sufficiente che doveva esser data il fatto che senza di essa l'uomo non può vivere moralmente. Si può inoltre comprendere che per questo scopo è stata data anche dal motivo che se la si userà per peccare, viene punita per ordinamento divino. Ma sarebbe ingiusto se la libera volontà fosse stata data non solo per vivere secondo ragione ma anche per peccare. Come infatti sarebbe giustamente punita la volontà di chi l'ha usata per un'azione per cui è stata data? Quando invece Dio punisce il peccatore, sembra proprio dire: " Perché non hai usato la libera volontà per il fine cui te l'ho data? "; cioè per agir bene. Se l'uomo fosse privo del libero arbitrio della volontà, come si potrebbe concepire quel bene per cui si pregia la giustizia nel punire i peccati e onorare le buone azioni? Non sarebbe appunto né peccato né atto virtuoso l'azione che non si compie con la volontà. Conseguentemente, se l'uomo non avesse la libera volontà, sarebbero ingiusti pena e premio. Fu necessario dunque che tanto nella pena come nel premio ci fosse la giustizia poiché questo è uno dei beni che provengono da Dio. Fu necessario quindi che Dio desse all'uomo la libera volontà.

 

Perché se ne usa male?

2. 4. Evodio - A questo punto concedo che ce l'ha data Dio. Ma non ti sembra, scusa, che se è stata data da Dio per agire secondo ragione, non dovrebbe esser possibile che si volga a peccare? È lo stesso caso della giustizia che è stata data all'uomo per agire moralmente. È forse possibile che mediante la giustizia che già si possiede si viva male? Così mediante la volontà non si potrebbe peccare se la volontà fosse stata data per agire moralmente.

Agostino - Come spero, Dio mi concederà di poterti rispondere o piuttosto che tu possa risponderti perché te lo insegna nell'interiorità la stessa verità che è la sovrana maestra di tutti. Ma dimmi un po' se è opportuno dire che non doveva esserci dato ciò che riconosciamo come dato da Dio, supposto che ritieni come certo e oggetto di conoscenza ciò che ti avevo chiesto, cioè se Dio ci ha dato una libera volontà. Se non è certo che ce l'ha data, ragionevolmente indaghiamo se ce l'ha data per il bene sicché, una volta scoperto che ci è stata data per il bene, è accertato anche che ce ne ha fatto dono colui da cui derivano all'uomo tutti i beni. Se poi si scoprisse che non è stata data per il bene, si comprenderebbe che non ce l'ha potuta dare lui perché è blasfemo considerarlo colpevole. Se invece è certo che egli l'ha data, bisogna riconoscere, comunque sia stata data, che doveva esser data e non altrimenti da come è stata data. L'ha data un essere, la cui opera è assolutamente impossibile biasimare.

 

S'invoca la fede.

2. 5. Evodio - Ritengo queste verità con fede incrollabile, ma poiché non ne ho ancora scienza, iniziamo la ricerca come se tutte fossero opinabili. Osservo infatti che dalla supposizione che la libera volontà è stata data per agire secondo ragione, supposizione che rimane opinabile perché mediante essa possiamo anche peccare, diviene opinabile anche l'altra: se doveva esser data. Se infatti è opinabile che è stata data per agire moralmente, è opinabile anche che doveva esser data. Ne consegue che sarà opinabile anche che ce l'ha data Dio perché se è opinabile che doveva esser data, è opinabile anche che da lui sia stata data. Sarebbe blasfemo pensare che abbia dato un dono che non doveva esser dato.

Agostino - Per lo meno è apodittico per te che Dio esiste.

Evodio - Anche questo ritengo innegabile non per conoscenza intellettuale ma per fede.

Agostino - Ma supponi che uno di quegli insipienti, di cui è stato scritto: Ha detto l'insipiente dentro di sé: Dio non esiste (1), ti facesse proprio questo discorso e non volesse ammettere con te per fede ciò che tu ammetti, ma conoscere se per fede ammetti delle verità. Pianteresti in asso questo tizio ovvero riterresti opportuno dimostrare in qualche modo ciò che ritieni innegabile, soprattutto se egli non intendesse resistere per cocciutaggine, ma conoscere criticamente?

Evodio - L'ultima tua clausola mi indica sufficientemente ciò che dovrei rispondergli. Anche nell'ipotesi che fosse completamente irragionevole, mi concederebbe che non si deve discutere di alcun argomento, e soprattutto di argomento tanto importante, con un tipo sleale e cocciuto. Quando mi ha concesso questo, prima dovrebbe intendersi con me perché io gli creda che con disposizione sincera indaga sull'argomento e che in lui, per quanto attiene all'argomento, non si nascondono slealtà e cocciutaggine. A questo punto gli dimostrerei, cosa possibile a tutti secondo me, quanto sarebbe disposizione più equanime se, come egli desidera che un interlocutore gli creda nei confronti dei propri sentimenti intimi, a lui noti e ignoti all'altro, così anche egli credesse all'esistenza di Dio sull'autorità dei Libri di uomini illustri. Essi hanno testimoniato nelle scritture di esser vissuti col Figlio di Dio ed hanno tramandato di aver visto cose che sarebbero assolutamente impossibili se Dio non esistesse. Soggiungerei che sarebbe ben presuntuoso se mi criticasse perché ho creduto a loro, quando pretende che io creda a lui. Concluderei che non può trovare pretesti per non volere imitare ciò che non riesce a rimproverare ragionevolmente.

Agostino - Dunque tu supporresti che sia criterio sufficiente dell'esistenza di Dio il fatto che non pregiudizialmente abbiamo giudicato di doverci rimettere ad uomini autorevoli. E allora perché, scusa, non pensi ugualmente che dobbiamo rimetterci all'autorità dei medesimi scrittori per quanto attiene agli altri argomenti che abbiamo iniziato ad esaminare come opinabili e misteri addirittura? Potremmo non affannarci più nella indagine.

Evodio - Ma noi desideriamo avere conoscenza e scienza di quanto accettiamo per fede.

 

Fede e ragione.

2. 6. Agostino - A ragione ricordi il tema che non possiamo negare di aver posto all'inizio della precedente discussione. Se altro non fosse credere ed altro conseguire con l'intelletto e se prima non si dovesse credere la verità di ordine superiore e trascendente che desideriamo conseguire con l'intelletto, non a proposito avrebbe detto il Profeta: Se non crederete, non conseguirete con l'intelletto (2). Ed anche nostro Signore con le parole e le azioni ha esortato coloro che ha chiamato alla salvezza ad avere prima la fede. Ma in seguito, parlando del dono che doveva dare ai credenti, non disse: " Questa è la vita eterna che credano ", ma: Questa è la vita eterna che conoscano te solo vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo (3). Poi a coloro che già credono dice: Cercate e scoprirete (4). E non si può considerare scoperto ciò che, non essendo oggetto di scienza, si accetta per fede e nessuno diviene idoneo a scoprire Dio se prima non accetta per fede ciò di cui in seguito avrà scienza. Quindi ossequenti al precetto del Signore cerchiamo con insistenza. Ciò che cerchiamo perché ce ne esorta, lo scopriremo perché ce lo mostra nei limiti in cui è possibile scoprire in questa vita l'oggetto trascendente da individui come noi. Si deve poi credere che dai più buoni, mentre ancora sono in questo mondo, e da tutti gli uomini buoni e pii dopo questa vita, tale oggetto con più perfetta chiarezza è conseguito per visione. Si deve sperare che sia così anche per noi e, disprezzate le cose terrene e umane, lo si deve considerare ed amare con ogni impegno.

 

 

Dio esiste (3, 7 - 15, 40)

 

Essere, vivere e pensare nell'uomo.

3. 7. Ricerchiamo dunque, se vuoi, nel seguente schema: primo, come si dimostra l'esistenza di Dio; secondo, se da lui sono tutte le cose in quanto sono buone; infine, se fra le cose buone sia da porre la libera volontà. Dalla loro evidenza risulterà apodittico, come ritengo, se essa con ragione sia stata data all'uomo. E tanto per cominciare con le nozioni più immediate, prima di tutto ti chiedo se tu stesso esisti. Ma forse temi che nel corso di questo dialogo stai subendo una illusione perché se tu non esistessi, non potresti assolutamente subire illusioni?.

Evodio - Passa ad altro piuttosto.

Agostino - Dunque poiché è evidente che esisti e non ti sarebbe evidente se non vivessi, è evidente anche che vivi. E pensi che queste due nozioni sono assolutamente vere?

Evodio - Lo penso certamente.

Agostino - Dunque, anche questo è evidente: che tu pensi.

Evodio - Sì.

Agostino - E delle tre nozioni quale ritieni superiore?

Evodio - Il pensiero.

Agostino - E perché lo ritieni?

Evodio - Vi sono tre nozioni: essere, vivere e pensare. Anche la pietra è, anche la bestia vive, ma non penso che la pietra viva e la bestia pensi. È assolutamente certo invece che chi pensa è e vive. Non ho alcun dubbio dunque nel giudicare superiore il soggetto, nel quale siano tutte e tre a preferenza di quello, al quale ne manchino due o una sola. Chi vive, certamente esiste ma non segue che pensi. E suppongo che tale sia la vita della bestia. Chi esiste, non per questo vive e pensa. Posso ammettere che esistono cadaveri, ma nessuno direbbe che vivono. E chi non vive, a più forte ragione non pensa.

Agostino - Stiamo affermando dunque che delle tre nozioni due mancano al cadavere, una alla bestia, nessuna all'uomo.

Evodio - Sì.

Agostino - Affermiamo anche che delle tre è superiore quella che l'uomo possiede assieme alle altre due, cioè il pensare, perché implica in chi la possiede l'essere e il vivere.

Evodio - Sì, certamente.

 

Sensi, sensibile e senso interiore.

3. 8. Agostino - Dimmi ora se conosci di avere i sensi che tutti conoscono: della vista, udito, odorato, gusto e tatto.

Evodio - Sì.

Agostino - Che cosa pensi che sia di competenza della vista, cioè cosa pensi che si percepisca con la vista?

Evodio - Tutti gli oggetti sensibili.

Agostino - Dunque con la vista percepiamo anche il duro e il molle?

Evodio - No.

Agostino - Quale è dunque l'oggetto proprio della vista che con essa si percepisce?

Evodio - Il colore.

Agostino - E con l'udito?

Evodio - Il suono.

Agostino - Con l'odorato?

Evodio - L'odore.

Agostino - Col gusto?

Evodio - Il sapore.

Agostino - E col tatto?

Evodio - Il molle e il duro, il levigato e il ruvido e simili.

Agostino - E le figure sensibili, grandi e piccole, quadrate e rotonde e simili non si percepiscono forse col tatto e con la vista e quindi non sono di competenza soltanto del tatto o della vista, ma dell'uno e dell'altra?

Evodio - Comprendo.

Agostino - Comprendi dunque anche che i singoli sensi hanno oggetti propri che trasmettono alla coscienza e alcuni hanno oggetti comuni.

Evodio - Anche questo capisco.

Agostino - Si può dunque con uno dei sensi discriminare la competenza propria di ciascuno e quale oggetto comune hanno tutti o alcuni di essi?

Evodio - No assolutamente, ma tali competenze sono discriminate da un senso interiore.

Agostino - Ed è forse la ragione di cui le bestie sono prive? Col pensiero appunto, come suppongo, ci rappresentiamo i sensibili e li conosciamo nel loro essere obiettivo.

Evodio - Direi piuttosto che con la ragione ci rappresentiamo l'esistenza di un determinato senso interno, al quale dai cinque sensi esterni sono rimandati tutti i sensibili. Altro è infatti il senso con cui la bestia vede ed altro la facoltà con cui, nell'atto del vedere, percepisce, fugge o appetisce. Il primo si ha nel senso della vista, l'altro dentro, nell'anima. Con esso appunto gli animali appetiscono e si procurano, se soddisfatti nel bisogno, ovvero fuggono e respingono, se disgustati, gli oggetti che si percepiscono non solo con la vista, ma anche con l'udito e gli altri sensi. E questa facoltà non si può considerare né vista, né udito, né odorato, né gusto, né tatto, ma non saprei quale altra facoltà che unifica gli altri. E sebbene questo atto lo avvertiamo con la ragione come ho detto, non posso tuttavia chiamarlo pensiero poiché è chiaro che è presente anche nelle bestie.

 

Senso e ragione.

3. 9. Agostino - Conosco tale facoltà qualunque sia e non esito a chiamarla senso interiore. Ma se l'oggetto percepito con i sensi non trascende anche questo senso, non può raggiungere scienza. Si ha scienza soltanto dell'oggetto che è rappresentato con la ragione. È scienza ad esempio, per tacere di altri casi, che è impossibile percepire i colori con l'udito e i suoni con la vista. E nell'atto che se ne ha scienza, essa non si raggiunge né con la vista, né con l'udito, né col senso interiore, di cui anche le bestie non sono prive. Non si può ammettere infatti nelle bestie la conoscenza che la luce non si percepisce con l'udito e il suono con la vista poiché tali competenze si distinguono per riconoscimento e rappresentazione del pensiero.

Evodio - Non posso dire di avere chiaro il concetto. Quale difficoltà se le bestie col senso interno, di cui, per tuo consentimento, non sono prive, discriminassero che i colori non si percepiscono con l'udito e i suoni con la vista?

Agostino - Ma tu pensi davvero che siano capaci di distinguere un colore dall'altro, il senso che risiede nell'organo della vista da quello interiore non organico e la ragione con cui queste nozioni sono separatamente definite e analizzate?

Evodio - No, certamente.

Agostino - E la ragione al contrario potrebbe distinguere queste quattro nozioni l'una dall'altra se ad essa non fossero riportati il colore mediante il senso della vista, questo a sua volta mediante il senso interno che lo regola, e questo da sé, a meno che non si sia interposta un'altra funzione?

Evodio - Non vedo come sarebbe altrimenti possibile.

Agostino - E vedi anche che il colore si percepisce col senso della vista, ma che un senso da sé medesimo non si percepisce? Infatti con lo stesso senso con cui vedi il colore non vedi che la vista vede.

Evodio - Non del tutto lo vedo.

Agostino - Sforzati di avere distinti questi concetti. Non puoi negare, penso, che altro è il colore ed altro vedere il colore ed altro ancora, quando il colore non è presente, avere il senso per cui si possa vedere se fosse presente.

Evodio - Distinguo i concetti e ammetto che differiscono.

Agostino - E dei tre oggetti con la vista vedi altro che il colore?

Evodio - Nient'altro.

Agostino - Di' dunque con che vedi gli altri due. Non potresti distinguerli se non fossero percepiti.

Evodio - Non so altro; so che ci sono, e basta.

Agostino - Non sai davvero se è già la ragione stessa, oppure quella facoltà vitale che abbiamo chiamato senso interno regolatore dei sensi, oppure altro?

Evodio - No.

Agostino - Sai per lo meno che tali oggetti possono essere distinti soltanto dalla ragione e che la ragione distingue soltanto gli oggetti che sono offerti alla sua attenzione.

Evodio - Certo.

Agostino - Ed ogni altra facoltà dunque con cui si può percepire tutto ciò di cui si avrà scienza è in funzione della ragione, alla quale offre e rimanda qualsiasi oggetto conosciuto. Così gli oggetti percepiti possono essere distinti nelle rispettive competenze ed essere rappresentati non solo col senso ma anche con la ragione.

Evodio - Sì.

Agostino - Quindi la ragione stessa, che distingue l'una dall'altra le facoltà subalterne e le loro rappresentazioni e conosce la differenza fra di esse e se stessa, conferma su di loro la propria superiorità. Può dunque essere rappresentata da altra facoltà fuorché da se stessa, cioè dalla ragione? Oppure potresti esser cosciente di aver la ragione se non ne avessi la certezza dalla stessa ragione?.

Evodio - Assolutamente vero.

Agostino - Quando dunque si percepisce il colore, col senso stesso non si percepisce di percepire, e quando si ode un suono, non si ode anche l'udito e quando si odora una rosa, non dà odore anche l'odorato e quando si gusta qualche cosa, non ha sapore lo stesso gusto e nel toccare qualche cosa, non si percepisce col tatto lo stesso senso del tatto. È chiaro dunque che i cinque sensi non si possono percepire da sé, sebbene con essi si percepiscano i vari sensibili.

Evodio - Chiaro.

 

Funzione del sensi interiore.

4. 10. Agostino - È chiaro anche, suppongo, che il senso interno non percepisce soltanto gli oggetti che ha ricevuto dai cinque sensi esterni, ma che da esso sono percepiti i sensi stessi. La bestia non si modificherebbe sensibilmente o appetendo un oggetto o fuggendolo, se non percepisse di percepire, non per avere scienza che è soltanto della ragione, ma per modificarsi, e questo certamente non lo percepisce con qualcuno dei cinque sensi. Se il concetto rimane oscuro, si chiarirà se poni attenzione a ciò che, a titolo d'esempio, si nota sufficientemente in un senso, come la vista. Sarebbe infatti assolutamente impossibile alla bestia aprire gli occhi e modificare la vista osservando l'oggetto che istintivamente vuol vedere se precedentemente non percepisse di non vederlo perché o tiene gli occhi chiusi o non modificati dall'oggetto in parola. Se poi percepisce di non vedere mentre non vede, è necessario anche che percepisca di vedere mentre vede, giacché non col medesimo stimolo modifica la vista se vede e la modifica se non vede. Indica così di percepire l'uno e l'altro. Ma non è altrettanto evidente che una tale vita, che percepisce di percepire i sensibili, sia cosciente di sé. Certo che ciascun uomo, se si analizza, scopre che ogni essere vivente rifugge dalla morte. E poiché essa è contraria alla vita, è necessario che la vita abbia coscienza di sé nell'atto che rifugge, dal suo contrario. E se il concetto non è ancora evidente, si passi avanti. Dobbiamo muoverci verso il nostro obiettivo con argomenti pienamente evidenti. Frattanto sono evidenti le nozioni: che col senso si percepiscono gli oggetti sensibili, che un senso non si può percepire da sé, che col senso interno si percepiscono i sensibili mediante il senso e immediatamente il senso stesso, che con la ragione si conoscono tutte le suddette nozioni ed essa stessa e divengono così contenuti di scienza. Non ti pare?

Evodio - Sì, certo.

Agostino - Ed ora dimmi qual è l'origine di questa discussione. Da un bel po', desiderosi di giungere alla soluzione, ci stiamo affaccendando per questa via.

 

Essere reale ed essere vivente.

5. 11. Evodio - Per quanto ricordo, si sta ancora svolgendo il primo dei tre problemi che poco fa, per stabilire, il procedimento della discussione, ci siamo proposti, cioè come si possa rendere evidente che Dio esiste, sebbene si debba credere con assoluta fermezza.

Agostino - Ricordi cori precisione. Ma desidero che rammenti con esattezza anche che nel chiederti se hai pura conoscenza di esistere, ci si è rivelato che hai pura conoscenza non solo di questa nozione, ma anche di altre due.

Evodio - Anche questo ricordo.

Agostino - E adesso considera a quale di queste tre nozioni pensi che appartenga l'oggetto sensibile in genere. In altri termini rifletti in quale categoria ritieni di dover assegnare in genere l'oggetto che il nostro senso percepisce con l'organo della vista o con qualsiasi altro corporeo, se cioè, nella categoria dell'essere che è soltanto reale, oppure anche vivente o addirittura pensante.

Evodio - In quella dell'essere soltanto reale.

Agostino - E in quale delle tre categorie includi il senso?

Evodio - In quella dell'essere vivente.

Agostino - E dei due quale giudichi superiore, il senso o il sensibile?

Evodio - Il senso, certamente.

Agostino - Perché?

Evodio - Perché l'essere vivente è superiore all'essere soltanto reale.

 

Il senso interiore superiore agli altri ...

5. 12. Agostino - Nella precedente indagine abbiamo considerato il senso interno inferiore al pensiero e comune con le bestie. Ma dubiteresti di considerarlo superiore al senso, con cui ci rappresentiamo il sensibile e che, come è già stato detto, è da considerarsi superiore al sensibile stesso?

Evodio - No, certamente.

Agostino - Ma vorrei sapere da te anche la ragione per cui non ne dubiti. Non potrai affermare certamente che il senso interno sia da assegnarsi, fra le tre categorie, a quella dell'essere pensante, ma sicuramente a quella dell'essere reale e vivente, sebbene sia privo di pensiero. Il senso interno appunto è presente anche nelle bestie, in cui il pensiero non è presente. Stando così le cose, chiedo perché consideri il senso interiore più perfetto del senso con cui si rappresentano i sensibili, dal momento che entrambi sono nella categoria dell'essere vivente. Hai considerato il senso che rappresenta i sensibili superiore ai sensibili appunto perché essi sono sul piano dell'essere soltanto reale, esso invece su quello del vivente. Dimmi dunque perché reputi più perfetto il senso interno, se anche esso è su quel piano. Potrai dire che il senso interno percepisce l'altro. Ma, secondo me, non troverai una regola con cui possiamo fissare che il senziente è in genere superiore al suo sensato. Potremmo forse esser costretti ad ammettere che il pensante è in genere superiore al suo pensato. Ed è falso. L'uomo ha pura intellezione della sapienza, ma non è più perfetto della sapienza stessa. Esamina dunque perché ti sei fatta l'opinione che il senso interiore è da considerarsi superiore al senso con cui si rappresentano i sensibili.

Evodio - Perché lo considero come regolatore e giudice dell'altro. Se infatti al senso esterno venisse a mancare qualche aspetto della sua funzione, l'altro, per così dire, richiederebbe la dovuta prestazione come ad un subalterno, come dianzi è stato detto. L'organo della vista non vede di vedere o non vedere e poiché non lo vede, non può giudicare per quale aspetto la percezione è manchevole o perfetta. È il senso interno che stimola anche l'anima della bestia ad aprire gli occhi chiusi e a rendere compiuto ciò che percepisce manchevole. E non si può certamente dubitare che chi giudica è superiore a ciò che si giudica.

Agostino - Vuoi dir dunque che l'organo corporeo in qualche modo giudica il sensibile? Sono di sua competenza appunto il piacere e la molestia secondo che è stimolato dal sensibile con dolcezza o violenza. Infatti come il senso interno giudica che cosa manca o è sufficiente alla sensazione visiva, così la sensazione visiva giudica che cosa manca o completa i colori. Allo stesso modo, come il senso interno giudica del nostro udito se è insufficiente mente o sufficientemente disposto, così l'udito giudica dei suoni distinguendo se una loro parte scorre armonicamente e un'altra urti perché stonata. Non è necessario addurre gli altri sensi. Già puoi avvertire, come penso, ciò che intendo dire, che cioè il senso interno giudica dei sensi esterni nell'avvertirne la integrità e nel richiederne la funzione, allo stesso modo che i sensi esterni giudicano i sensibili accogliendone l'impressione se piacevole, respingendola se spiacevole.

Evodio - Vedo e ammetto che i concetti sono del tutto veri.

 

... ad esso la religione ...

6. 13. Agostino - Ed ora considera se la ragione giudica anche del senso interno. Ed ormai non ti chiedo più se dubiti che essa gli è superiore perché non dubito che così giudichi. D'altronde non ritengo di dover chiedere se la ragione giudica del senso interiore. In definitiva soltanto la ragione avverte in quali termini fra gli oggetti che le sono inferiori, cioè i corpi, i sensi esterni e il senso interno, uno sia superiore all'altro e di quanto esso sia loro superiore. Non lo potrebbe se non li giudicasse.

Evodio - Chiaro.

Agostino - Allora alla natura che è soltanto reale, non vivente e non pensante, come è un corpo senza vita, è superiore quella che non è soltanto reale, ma anche vivente e non pensante, come è l'anima delle bestie, e a questa, a sua volta, è superiore quella che è insieme reale, vivente e pensante, come nell'uomo l'intelligenza. Dunque, secondo te, in noi, cioè in esseri in cui la natura ha per costitutivo di renderci uomini, è possibile scoprire un principio superiore a quello che, fra i tre, abbiamo posto al terzo posto? È chiaro che noi abbiamo un corpo e una determinata vita, per cui il corpo è animato e vivificato. I due principi li troviamo anche nelle bestie. Vi è poi un terzo principio, quasi capo oppure occhio della nostra anima, o altro che possa dirsi più convenientemente dell'intelligenza che pensa. E la natura delle bestie non l'ha. Rifletti dunque, ti prego, se puoi scoprire qualche altro principio che nella natura umana sia più sublime della ragione.

Evodio - Penso proprio che sia il più alto.

 

... alla ragione l'eterno immutabile.

6. 14. Agostino - E se si potesse scoprire un essere, di cui non puoi dubitare non solo che esiste, ma anche che è superiore al nostro pensiero, dubiteresti, a parte la sua essenza, di considerarlo Dio?

Evodio - Se io potessi scoprire un essere superiore a ciò che della mia natura è più perfetto, non necessariamente dovrei ammettere che è Dio. Non sono d'accordo di dover considerare Dio l'essere, a cui il mio pensiero è inferiore, ma quello a cui nessun essere è superiore.

Agostino - Proprio così poiché egli ha concesso al tuo pensiero di pensarlo con vera religiosità. Ma, scusa, se tu scoprirai che sopra il nostro pensiero v'è soltanto l'eternamente immutabile, dubiterai ancora di considerarlo Dio? Sai infatti che i corpi sono nel divenire; ed è evidente anche che la vita stessa, da cui il corpo è animato, non è esente, attraverso vari fenomeni, dal divenire. Si dimostra inoltre che è sicuramente nel divenire il pensiero stesso che ora si muove ed ora non si muove al vero e talora lo raggiunge e talora non lo raggiunge. Dunque se il pensiero senza il sussidio dell'organo corporeo e senza la mediazione del tatto, del gusto, dell'odorato, dell'udito, della vista e altro senso, inferiore al pensiero stesso, ma da sé immediatamente intuisce un essere eterno e immutabile e ad un tempo se stesso inferiore, deve anche necessariamente ammettere che quell'essere è il suo Dio.

Evodio - Ammetterò che è Dio se risulterà che non v'è essere a lui superiore.

Agostino - D'accordo. A me basta dimostrare che esiste un essere tale che dovrai considerare come Dio, ovvero, se ve n'è uno a lui superiore, dovrai ammettere che è Dio. Quindi tanto se v'è come se non v'è un essere a lui superiore, sarà evidente che Dio esiste, quando, secondo la promessa, avrò dimostrato col suo aiuto che è superiore al pensiero.

Evodio - Dimostra dunque ciò che dici di aver promesso.

 

Senso e ragione sono individuali ...

7. 15. Agostino - Lo farò, ma prima chiedo se il mio senso esterno è il medesimo del tuo o al contrario il mio è soltanto mio e il tuo soltanto tuo. Se così non fosse, io non potrei vedere un oggetto senza che anche tu lo veda.

Evodio - Ritengo che, quantunque identici come forma, noi abbiamo distinti i sensi della vista, dell'udito e gli altri. Un individuo può non soltanto vedere, ma anche udire ciò che un altro non ode, e percepire col proprio senso qualsiasi oggetto che un altro non percepisce. È chiaro dunque che il tuo senso è soltanto tuo e che il mio è soltanto mio.

Agostino - Ed anche del senso interno risponderai così o diversamente?

Evodio - Non diversamente. Il mio senso interno percepisce il mio senso esterno e il tuo percepisce il tuo. Spesso infatti da qualcuno che vede un determinato oggetto sono richiesto se anche io lo vedo perché io, e non l'interlocutore, percepisco di vedere o non vedere.

Agostino - Ed anche il pensiero, ciascuno ha il suo? Può avvenire appunto che io sto pensando ad una cosa mentre tu non la pensi e che ti è impossibile sapere se la penso, mentre io lo so.

Evodio - È evidente anche che ogni individuo ha una propria mente.

 

... ma non l'oggetto sensibile della vista e udito ...

7. 16. Agostino - Ma puoi dire anche che nel vedere si ha un proprio sole o luna o stella di Venere, sebbene ciascuno li vede col proprio senso personale?

Evodio - Non lo potrei dire assolutamente.

Agostino - Si può dunque vedere contemporaneamente in molti un unico oggetto sebbene ognuno ha sensi propri. Ma con essi tuttavia si percepisce un unico oggetto che si vede contemporaneamente. Ne consegue dunque che, sebbene il mio senso sia distinto dal tuo, non sia distinto in mio e tuo l'oggetto che vediamo, ma si rappresenti ad entrambi e da entrambi sia visto contemporaneamente.

Evodio - Chiarissimo.

Agostino - Possiamo inoltre udire contemporaneamente un medesimo suono. E sebbene il mio udito è distinto dal tuo, non è distinto in mio e tuo il suono che udiamo o che un suo aspetto è ricevuto dal mio udito e un altro dal tuo, ma tutto il suono nella sua unità e interezza si offre da udirsi contemporaneamente ad entrambi.

Evodio - Anche questo è chiaro.

 

... gusto e odorato ...

7. 17. Agostino - Puoi estendere il nostro discorso anche agli altri sensi esterni. Per quanto attiene all'argomento, essi si comportano in maniera non del tutto eguale e non del tutto diversa dagli altri due della vista e dell'udito. Infatti tu e io possiamo riempire le vie respiratorie della medesima aria e percepire come odore la condizione fisica dell'aria respirata. Così entrambi possiamo gustare di un medesimo miele o altro cibo o bevanda e percepire come sapore la loro qualità. E sebbene l'oggetto sia uno solo e i nostri sensi distinti, a te il tuo e a me il mio, entrambi percepiamo un solo odore e un solo sapore. Tuttavia tu non lo percepisci col mio senso né io col tuo oppure con un altro determinato senso che sia comune ad entrambi, ma per me v'è il mio senso e per te il tuo, sebbene dall'uno e dall'altro si percepisca un solo odore o sapore. Da quanto detto si mostra dunque che questi sensi hanno una tale caratteristica in comune quale gli altri due nel vedere e nell'udire. Ma si differenziano per quanto attiene a ciò che stiamo per dire. Sebbene entrambi aspiriamo attraverso le narici la medesima aria e gustiamo il medesimo cibo, tuttavia io non aspiro la medesima parte d'aria che aspiri tu e non prendo la medesima parte di cibo che prendi tu, ma una io e un'altra tu. Dunque mentre respiro di tutta una massa d'aria, non ne aspiro se non quella parte che mi basta e tu ugualmente di tutta la massa ne aspiri quanto ti basta. Anche il cibo, quantunque sia il medesimo e sia consumato tutto da me e da te insieme, non può tuttavia esser preso tutto da me e tutto da te al modo che io odo tutta una parola e tu la puoi udire tutta nel medesimo tempo. Così tu puoi vedere di una determinata figura tanto quanto ne vedo io. Al contrario è necessario che del cibo e della bevanda una parte passi in me e l'altra in te. Non capisci molto queste cose?

Evodio - Ammetto anzi che sono molto chiare ed evidenti.

 

... e tatto.

7. 18. Agostino - E penseresti che sull'argomento di cui si tratta il senso del tatto sia da paragonarsi ai sensi della vista e dell'udito? In effetti possiamo entrambi percepire col tatto non solo il medesimo corpo, ma tu potresti toccare anche la medesima parte che toccherò io. Così entrambi potremmo percepire col tatto non solo il medesimo corpo, ma anche la medesima parte del corpo. Non è possibile infatti che io prenda tutto un cibo presentato e tu tutto egualmente se entrambi ce ne cibiamo. Ma non così avviene per il toccare, ma a te è possibile toccare un medesimo oggetto e tutto intere che io avrò toccato sicché entrambi lo tocchiamo, non in parti distinte, ma ciascuno di noi tutto intero.

Evodio - Ammetto che per questo aspetto il senso del tatto è molto simile ai primi due sensi anzidetti. Ma è differente, secondo me, per il fatto che è possibile ad entrambi vedere oppure udire in un medesimo tempo un medesimo oggetto nella sua interezza, ma non è possibile ad entrambi toccare nel medesimo tempo un determinato oggetto nella sua interezza, ma in parti distinte oppure la medesima parte in tempi distinti. Non mi è possibile applicare il tatto a una parte che tu percepisci col tatto se prima tu non avrai rimosso il tuo.

 

L'alimento è individuale.

7. 19. Agostino - Hai risposto con accortezza. Ma devi notare anche questo fatto. Di tutti i sensibili alcuni li percepiamo io e tu, altri o io o tu. I nostri sensi al contrario li percepiamo ciascuno per proprio conto sicché io non percepisco il tuo senso e tu non percepisci il mio. E degli oggetti che da noi sono percepiti mediante i sensi, cioè delle qualità sensibili, possiamo percepire, non entrambi insieme ma singolarmente, soltanto ciò che diviene così nostro che lo possiamo assimilare e trasformare in noi. È il caso del cibo e della bevanda. Non ne potrai prendere la medesima parte che prenderò io. È vero che le nutrici offrono ai bimbi gli alimenti già masticati. Ma è assolutamente impossibile che sia restituita come cibo del bimbo quella parte che l'organo di masticazione destinerà per ingurgitamento allo stomaco della nutrice. Quando il palato gusta un alimento con piacere ne reclamerà una parte, sia pur piccola, ma irrestituibile e determina così il fenomeno conveniente alla natura del corpo. Se non fosse così, non rimarrebbe nella bocca alcun sapore dopo che i cibi masticati sono restituiti per rigurgitamento. La stessa cosa si può dire ragionevolmente del volume d'aria che inaliamo attraverso le narici perché, sebbene puoi immettere quell'aria che io emetterò, non potrai certamente immettere anche ciò che di essa si è convertito nel mio sostentamento e perciò non si può ridare. I medici appunto insegnano che si riceve il sostentamento anche dalle narici. Io soltanto posso percepire tale sostentamento respirando e non posso restituirlo emettendo, affinché inalato dalle tue narici sia percepito anche da te. E sebbene percepiamo anche gli altri sensibili, tuttavia percependoli non li trasformiamo nel nostro corpo e tutti e due possiamo percepirli sia contemporaneamente sia in momenti successivi in maniera che sia percepito anche da te il tutto o la parte che io percepisco. Tali sono la luce, il suono e anche insensibili che si percepiscono senza trasformarli.

Evodio - Capisco.

Agostino - È evidente dunque che gli oggetti che non si trasformano, eppure si percepiscono con i sensi esterni, non appartengono al modo di essere dei nostri sensi e sono quindi più comuni perché non sono trasformati col mutarsi in oggetto proprio e quasi privato.

Evodio - Sono proprio d'accordo.

Agostino - Si deve quindi intendere per proprio e quasi privato ciò che ciascuno di noi ha da solo, che da solo in sé percepisce e che appartiene a titolo particolare al proprio essere. È al contrario comune e quasi pubblico ciò che si percepisce senza sostanziale trasformazione da tutti i soggetti senzienti.

Evodio - Sì.

 

Il numero puro universale ...

8. 20. Agostino - Ed ora sta attento. Dimmi se si dà un oggetto che tutti i soggetti pensanti universalmente vedano con l'atto puro del proprio pensiero. L'oggetto visto sarebbe rappresentabile a tutti, non si trasforma in possesso di coloro che se lo rappresentano, come il cibo e la bevanda, ma rimane totalmente inalterato, tanto se i pensanti lo vedono come se non lo vedono. Ma forse tu ritieni che non v'è un tale oggetto?

Evodio - Anzi vedo che ve ne sono molti. Basta ricordarne uno. L'ideale verità del numero è così rappresentabile a tutti i soggetti pensanti che ogni studioso di matematica tenta di raggiungerla con un proprio atto di puro pensiero. Ma uno lo può più facilmente, un altro più difficilmente e un altro non lo può affatto, sebbene essa si offre ugualmente a tutti coloro che hanno la capacità di comprenderla. E quando qualcuno la conosce nella sua verità, non si trasforma divenendo un quasi cibo di chi la conosce, e quando qualcuno la esprime erroneamente, essa non viene a mancare, ma rimanendo vera e indefettibile, quegli è tanto più in errore quanto meno la comprende.

 

... non si conosce col senso.

8. 21. Agostino - Bene. Osservo però che hai imbroccato subito la risposta come competente in materia. Ma se ti si dicesse che i numeri non in virtù della loro proprietà ma degli oggetti sensibili sono rappresentati al nostro pensiero come immagini determinate di cose visibili, che risponderesti? La pensi anche tu così?

Evodio - Non potrei certamente pensarlo. Se ho conosciuto secondo verità i numeri con un senso, mi sarebbe stato possibile conoscere col senso anche le regole della divisione o addizione. Infatti con la luce dell'intelligenza disapprovo colui che mentre fa i calcoli nell'addizionare o sottrarre ottiene un risultato erroneo. E non so per quanto tempo rimangano ancora gli oggetti che tocco col senso, come questa atmosfera e questa terra e gli altri corpi che percepisco esistenti in essi. Ma sette e tre fanno dieci, e non solo ora ma sempre, e non v'è mai stato un tempo in cui non abbiano fatto dieci e mai vi sarà tempo in cui sette e tre non faranno dieci. E ho già detto che l'indefettibile verità del numero è universale per me e per ogni soggetto pensante.

 

L'uno è sempre intelligibile.

8. 22. Agostino - Non ti faccio obiezioni perché affermi nella risposta verità innegabili. Ma potrai anche facilmente notare che i numeri stessi non sono derivati dalla esperienza sensibile se penserai che ogni numero varia il nome ogni volta che aumenta dell'uno. Ad esempio, se si ha due volte l'uno, il numero si chiama due; se tre, tre; e se si ha l'uno dieci volte, si denomina dieci ed ogni numero in genere si considera di tanto di quante volte ha l'uno. Ora se si ha la vera nozione dell'uno, si trova certamente che non può essere percepito dai sensi. Si ha certezza infatti che l'oggetto sensibile universalmente non è uno ma molteplice perché è corpo ed ha quindi innumerevoli parti. Un corpuscolo, per non parlare delle sue parti ridottissime e meno differenziate, ha per lo meno una parte a destra e una a sinistra, una di sopra e una di sotto, oppure una di qua e una di là o anche alcune alla periferia e una al centro. Dobbiamo per logica necessità riconoscere che esse sono presenti in ogni particella del corpo per quanto piccola. Pertanto non si ammette che alcun corpo sia uno da un punto di vista ideale. Ma soltanto mediante la distinta conoscenza dell'uno ideale si possono in esso suddividere tante parti. Quando dunque cerco l'uno nel corpo e non dubito di non trovarvelo, so ciò che cerco, ciò che non vi trovo e che non potrò trovarvi, anzi che non v'è affatto. Se dunque so che il corpo non è uno, so che cos'è l'uno. Se infatti non conoscessi l'uno non potrei distinguere i molti nel corpo. In tutti gli esseri infatti in cui apprenderò l'uno, non lo apprendo mediante il senso. Mediante il senso conosco soltanto il corpo che, ne siamo certi, da un punto di vista ideale non è uno. Inoltre se non si ha pura conoscenza dell'uno col senso, non si ha col senso conoscenza di alcun numero, ovviamente di quelli intelligibili. Di essi appunto non ve n'è alcuno che non si denomini dalle volte che contiene l'uno e la conoscenza pura dell'uno non si ottiene col senso. Infatti una mezza parte di un corpo per quanto piccolo, sebbene il tutto risulti di due parti, ha anche essa la sua metà. Quindi le due parti sono in quel corpo ma non nel senso che siano due indivisibilmente. E il numero che ha il nome di due, poiché contiene due volte quello che è indivisibilmente l'uno, non lo può la sua metà, cioè quello che è indivisibilmente l'uno non può a sua volta contenere la mezza, la terza o un'ulteriore parte perché è indivisibile e idealmente uno.

 

Legge fondamentale dell'addizione.

8. 23. Inoltre seguendo la serie dei numeri dopo l'uno si incontra il due. Esso rapportato all'uno è il doppio. Il doppio di due non viene successivamente ma, interposto il tre, segue il quattro che è il doppio di due. Questa norma si estende con legge fissa e immutabile a tutti gli altri numeri. Così dopo l'uno, cioè il primo di tutti i numeri, con lo scarto che esso indica, è primo quello che contiene il suo doppio; infatti segue il due. Dopo il secondo, cioè dopo il due, con lo scarto che esso indica è secondo quello che contiene il suo doppio; dopo il due infatti primo è il tre, secondo il quattro che è il doppio del secondo. Dopo il terzo, cioè il tre, con lo scarto che esso indica, è terzo quello che è il suo doppio; infatti dopo il terzo, cioè il tre, primo è il quattro, secondo il cinque, terzo è il sei che è il doppio del terzo. Così dopo il quarto con lo scarto corrispondente il quarto contiene il suo doppio; infatti dopo il quarto, cioè il quattro, primo è il cinque, secondo il sei, terzo il sette, quarto l'otto che è il doppio del quarto. Così in tutti gli altri numeri scoprirai la norma che si verifica nella prima coppia di numeri, cioè nell'uno e nel due, e cioè di quante unità è un determinato numero inizialmente, di tante dopo di esso è il suo doppio. Ma da quale facoltà si apprende questa norma che si conosce come immutabile, fissa e indefettibile attraverso tutti i numeri? Non si raggiungono certamente col senso tutti i numeri. Sono innumerevoli. In quale facoltà dunque si conosce che questa legge si verifica in tutti i numeri ovvero in quale rappresentazione o rappresentabile sensibile si conosce con tanta certezza una verità tanto inderogabile nell'infinita serie dei numeri se non nella luce interiore che il senso ignora?

 

Obiettività della legge dei numeri.

8. 24. Con queste e molte altre dimostrazioni evincenti, coloro, ai quali Dio ha dato capacità alla teoresi e che l'eccessiva polemica non avvolge di foschia, sono convinti ad ammettere che l'intelligibile verità dei numeri non è di pertinenza del senso, permane idealmente immutabile ed è universale nella conoscenza per tutti i soggetti pensanti. Molte altre nozioni possono presentarsi che universalmente e quasi di pubblico diritto si rendono accessibili ai soggetti pensanti e sono intuite con atto di puro pensiero da tutti coloro che sanno intuirle, sebbene esse permangano inderogabili e fuori del divenire. Tuttavia non posso accettare malvolentieri il fatto che, quando hai inteso rispondere alla mia domanda, ti si è presentata a preferenza l'intelligibile verità del numero. Non a caso nella Bibbia il numero è stato associato alla sapienza nel testo seguente: Io ho scrutato perfino il mio cuore per conoscere, valutare e ricercare la sapienza e il numero (5).

 

Diverse opinioni sulla sapienza.

9. 25. E a proposito, scusa, che cosa si deve pensare, secondo te, della stessa sapienza? Ritieni che ogni individuo abbia una certa personale sapienza, ovvero è una, universalmente accessibile a tutti e quanto più se ne partecipa, tanto più si è sapienti?

Evodio - Non so ancora di quale sapienza intendi parlare. Osservo che gli individui hanno varie opinioni nei confronti dell'azione e del discorso sapiente. Coloro che scelgono la milizia, a sentir loro, agiscono con sapienza e coloro che, abbandonata la milizia, impiegano un premuroso lavoro nel coltivare il campo, vantano quest'attività e la attribuiscono a sapienza. Coloro che sono accorti nell'escogitare maniere per accumulare ricchezze si ritengono sapienti e coloro che trascurano o anche rifiutano questi e tutti gli altri interessi temporali e trasferiscono interamente l'impegno nella ricerca della verità per conoscere se stessi e Dio, giudicano che proprio questo è il grande compito della sapienza. Coloro al contrario che non vogliono dedicarsi al libero esercizio della ricerca e contemplazione del vero, ma vivono in incombenze e incarichi molto faticosi per tutelare gli interessi dei propri simili e si occupano della legislazione. e governo delle cose umane, ritengono di esser loro i sapienti. Quelli infine che fanno l'uno e l'altro e in parte vivono nella contemplazione della verità e in parte nelle attività pubbliche, che ritengono dovute alla associazione umana, pensano di avere in mano la palma della sapienza. Non parlo poi delle innumerevoli sette. Ognuna di esse, vantando i propri proseliti sugli altri, li ritiene gli unici sapienti. Ora nell'argomento che trattiamo si deve rispondere non in merito a quel che accettiamo per opinione, ma a ciò che comprendiamo con illuminata intelligenza. Dunque non potrò affatto rispondere alla tua domanda, se non conoscerò per intuizione e visione del pensiero ciò che ritengo per opinione, e cioè che cos'è sapienza in sé.

 

Sapienza, felicità e sommo bene.

9. 26. Agostino - Ma, secondo te, la sapienza non è verità, in cui si conosce e possiede il sommo bene? Tutti coloro di varie opinioni che hai ricordato desiderano il bene e fuggono il male, ma hanno diverse opinioni perché ciascuno considera il bene diversamente dall'altro. Se dunque si desidera ciò che non si doveva desiderare, sebbene non si desidererebbe senza l'opinione che sia un bene, si erra comunque. Ma è impossibile errare se non si desidera nulla e se si desidera ciò che si deve desiderare. Non si ha errore dunque nel senso che tutti gli uomini desiderano la felicità. Si ha errore al contrario in quanto non tutti seguono la via che conduce alla felicità, sebbene esplicitamente si professi che non si vuole altro che raggiungere la felicità. L'errore si ha appunto quando si segue una via, la quale non conduce alla meta che si intende raggiungere. E quanto più si erra nella via della vita, tanto meno si è sapiente perché si è più lontani dalla verità, in cui si conosce e si possiede il sommo bene. Ma si diviene felici soltanto col conseguimento e possesso del sommo bene. E tutti concordemente lo vogliamo. Come dunque è evidente che vogliamo esser felici, è evidente anche che vogliamo esser sapienti perché felici non si può esser senza sapienza. Non si è felici infatti senza il sommo bene che si conosce e possiede nella verità che denominiamo saggezza. Ora l'idea di felicità è impressa nel nostro spirito prima ancora di esser felici. È mediante essa infatti che siamo coscienti e innegabilmente affermiamo, senza alcun dubbio, di voler essere felici. Quindi, ancor prima di esser sapienti, abbiamo innata nello spirito l'idea di sapienza e mediante essa, ciascun individuo, richiesto se vuole esser sapiente, senza ombra di dubbio risponde di volerlo.

 

Una è la sapienza.

9. 27. Dal nostro dialogo perciò risulterebbe già il concetto di sapienza che forse non riuscivi a spiegare a parole. Se infatti non ne avessi l'idea nello spirito, non saresti affatto cosciente di voler essere sapiente e di doverlo volere. Suppongo che non oserai negarlo. Ed ora devi dirmi se, a tuo avviso, la sapienza si manifesta come universale a tutti i soggetti pensanti allo stesso modo della ideale legge del numero, o piuttosto, dal momento che tante sono le intelligenze umane quanti gli uomini, sicché io non conosco nulla della tua intelligenza e tu nulla della mia, se, secondo te, si danno tante sapienze quanti potrebbero essere i sapienti.

Evodio - Se il sommo bene è uno per tutti, necessariamente anche la verità, in cui si conosce e possiede, cioè la sapienza è universale.

Agostino - Ma tu hai dei dubbi che il sommo bene, qualunque cosa sia, è uno per tutti gli uomini?

Evodio - Naturalmente, perché osservo che qualcuno gode di una cosa come suo sommo bene ed altri di altre.

Agostino - Vorrei veramente che non si dubitasse del sommo bene come non si dubita, qualunque cosa sia, che soltanto conseguendolo si diventa felici. Ma è un grosso problema e richiede un lungo discorso. Supponiamo dunque addirittura che tanti siano i sommi beni, quante sono le varie cose che sono desiderate come sommo bene dai vari individui. Ne conseguirebbe forse che anche la sapienza non è una e universale perché sono molti e vari i beni che mediante essa gli individui conoscono e scelgono? Se lo pensi, potresti aver dubbi anche sull'unità della luce del sole perché sono molti e vari gli oggetti che si scorgono per la sua mediazione. In questa moltitudine ciascuno sceglie a piacere l'oggetto, di cui può godere mediante la vista. Un tale osserva volentieri l'altezza d'una montagna e gode nel guardarla, un altro il campo pianeggiante, un altro il fondo delle valli, un altro il verde dei boschi, un altro l'increspata superficie del mare, un altro infine di tutte queste cose o di alcune di esse ne raccoglie molte insieme per la gioia del vedere. Dunque sono molti e vari gli oggetti che si vedono nella luce del sole e che si preferiscono per il godimento, eppure è una la luce, in cui lo sguardo di ciascuno vede e sceglie l'oggetto di cui gioire. Così quantunque molti e vari siano i beni, fra cui ciascuno può scegliere quello che preferirà e che, conoscendo e possedendo per goderne, può considerare rettamente e veramente il proprio sommo bene, è possibile tuttavia che la luce stessa della sapienza, in cui si possono conoscere e possedere questi beni, sia una e comune a tutti i sapienti.

Evodio - È possibile, lo ammetto, e nulla impedisce che la sapienza sia universalmente una per tutti, anche se molti e diversi sono i sommi beni. Ma vorrei sapere se è così in realtà. Nell'ammettere la possibilità che una certa cosa sia così, non necessariamente ammettiamo che è così in realtà.

Agostino - Frattanto riteniamo per certo che la sapienza è una realtà. Non riteniamo ancora se sia universalmente una, ovvero se ciascun sapiente ne abbia una propria come l'anima e l'intelligenza.

Evodio - Sì.

 

Universalità di certe verità.

10. 28. Agostino - Ma dove conosciamo che esistono sapienza e sapienti e che tutti gli uomini vogliono essere felici? Non potrei proprio dubitare che ne hai conoscenza e che è vero. Lo conosci dunque come una tua particolare rappresentazione che io non conosco affatto se non me la manifesti, ovvero di questo vero hai una pura conoscenza così che possa esser conosciuto da me anche se da te non viene espresso?

Evodio - Non dubiterei anzi che possa essere conosciuto da te, anche se io non voglio.

Agostino - E dunque un solo vero che conosciamo, ciascuno con la propria intelligenza, è comune a ciascuno di noi due?

Evodio - Chiarissimo.

Agostino - Inoltre, suppongo, non puoi negare che ci si deve applicare alla sapienza e devi ammettere che anche questo è vero.

Evodio - Non ne dubito affatto.

Agostino - Inoltre questo vero è uno e universale nella conoscenza per tutti quelli che ne hanno scienza, sebbene ciascuno lo intuisca con la propria intelligenza, e non con la mia, la tua o di un altro. L'oggetto intuito infatti è universalmente accessibile a tutti quelli che lo intuiscono. Lo possiamo negare forse?

Evodio - No, assolutamente.

Agostino - Così non dovrai ammettere come assolutamente vero e accessibile a me, a te e a tutti quelli i quali sono capaci di intuire, che si deve vivere con giustizia, che le cose meno perfette si devono subordinare alle più perfette, che fra le cose eguali è valido il criterio dell'equità, che si deve dare a ciascuno il suo?

Evodio - D'accordo.

Agostino - E potresti dire che l'essere immateriale non è più perfetto del materiale, l'eterno del temporale, il non diveniente del diveniente?

Evodio - Ma chi lo potrebbe?

Agostino - Dunque questo vero può forse esser considerato particolare, dal momento che si presenta invariabilmente oggetto di pura conoscenza per tutti coloro che sono capaci di averla?

Evodio - Non si può assolutamente considerarlo particolare perché è tanto uno e universale quanto è vero.

Agostino - E si può forse negare che si deve volgere lo spirito in direzione opposta al mondo materiale e volgerlo allo spirituale, cioè all'immateriale e che il mondo spirituale si deve amare?. E se si ammette che questo è vero, non si deve forse anche comprendere che è immutabile e conoscere che è universalmente accessibile a tutti quelli che sono capaci di averne puro pensiero?

Evodio - Assolutamente vero.

Agostino - E si potrà dubitare che la vita, la quale non si distoglie a causa delle avversità da una solida concezione morale, è più perfetta di quella che a causa dei disagi del mondo facilmente rovina in frantumi?

Evodio - Chi ne può dubitare?

 

Sapienza e universalità delle leggi morali.

10. 29. Agostino - Non esaminerò altri temi in proposito. Mi basta che assieme a me conosci e ammetti la innegabile certezza che queste quasi norme generali e certi luminosi concetti morali sono veri e non divenienti e che o l'uno o l'altro o tutti sono universalmente accessibili alla conoscenza di coloro che sono capaci di intuirli, ciascuno con un proprio atto di puro pensiero. Ma mi sia concesso chiederti se, secondo te, essi sono di competenza della sapienza. Dovresti ritenere appunto, suppongo, che è sapiente chi ha conseguito la sapienza.

Evodio - Certo che lo ritengo.

Agostino - E chi vive secondo giustizia, potrebbe vivere così, se non conosce quali azioni meno perfette deve subordinare alle più perfette, quali azioni eguali deve associare in una medesima valutazione e quali le cose di ciascuno che a ciascuno deve distribuire?

Evodio - No.

Agostino - E potrai dire che chi conosce queste norme, non le conosce secondo sapienza?

Evodio - No.

Agostino - E chi vive secondo prudenza non sceglie forse l'immunità dal male e stabilisce di preferirla alla soggezione?

Evodio - Chiarissimo.

Agostino - E si può dire che non sceglie secondo sapienza quando sceglie l'oggetto cui convertire lo spirito, dato che nessuno mette in dubbio che si deve scegliere?

Evodio - Io non potrei certo dirlo.

Agostino - Quando dunque converte lo spirito all'oggetto che sceglie con sapienza lo fa con sapienza.

Evodio - Pienamente evidente.

Agostino - E chi a causa di timori e sofferenze non si allontana dall'oggetto che sceglie con sapienza e al quale con sapienza si converte, senza dubbio agisce con sapienza.

Evodio - Senza alcun dubbio.

Agostino - È dunque pienamente evidente che quelle che abbiamo chiamato norme e luminosi concetti morali sono di competenza della sapienza. Infatti quanto più se ne usa per realizzare la vita e secondo esse si realizza, tanto più si vive e si agisce con sapienza. Ma tutto ciò che si fa con sapienza non si può ragionevolmente dire che sia separato dalla sapienza.

Evodio - È proprio così.

Agostino - Come dunque sono invariabilmente vere le leggi dei numeri, dei quali hai detto che la loro ideale verità è invariabilmente e universalmente accessibile a tutti coloro che la intuiscono, così sono invariabilmente vere le leggi della sapienza. Ora, interrogato particolarmente su alcune di esse, hai risposto che sono evidentemente vere e ammetti che esse si presentano universalmente per la conoscenza a tutti coloro che sono capaci di intuire tali oggetti.

 

Sapienza e numero.

11. 30. Evodio - Non ne posso dubitare. Ma vorrei proprio sapere se le due idee di sapienza e numero sono contenute in un'unica determinata categoria poiché nella Bibbia, come hai ricordato, si trovano associate, ovvero se l'uno ha l'esistere dall'altro, oppure se uno si fonda sull'altro, ad esempio il numero dalla sapienza o nella sapienza. Non oserei dire appunto che la sapienza ha l'esistere dal numero o il fondamento sul numero. Conosco molti aritmetici o esperti di aritmetica, o comunque si debba denominarli, i quali fanno i calcoli con ammirevole abilità, ma pochissimi sono sapienti e forse nessuno. Non saprei dunque per quale ragione, ma la sapienza mi si presenta di valore molto più alto del numero.

Agostino - Stai esponendo un concetto, di cui anche io abitualmente mi stupisco. Quando rifletto sulla immutabile intelligibilità del numero e, per così dire, sul suo più intimo recesso o sfera determinata, o altro nome appropriato che si possa trovare con cui denominare, per così dire, il luogo di permanenza e la sede dei numeri, mi sento portare lontano dal mondo sensibile. E incontrandomi per caso con un significato che posso rappresentarmi col pensiero ma che non sono capace d'esprimere a parole, per parlare, torno, come affaticato, nella nostra esperienza e dico, nel linguaggio usuale, le cose che sono poste davanti agli occhi. Il fenomeno mi avviene anche quando con disciplinatissimo vigore dialettico, per quanto ne sono capace, penso alla sapienza. Ed ecco perché mi stupisco fortemente. Le due idee sono in una metempirica eppure evidentissima intelligibilità, anche perché vi si aggiunge la testimonianza della Scrittura, con cui le ho ricordate unite insieme. Mi stupisco moltissimo, come ho detto, perché il numero per la massa è di poco pregio e di molto pregio la sapienza. Al contrario non è da stupirsi che siano una sola e medesima cosa. Infatti nella Scrittura è detto della sapienza che congiunge con forza un termine all'altro e dispone tutto con dolcezza (6). Il potere dunque che congiunge con forza un termine all'altro è forse il numero e quello che dispone tutto con dolcezza, con significato appropriato, è la sapienza, sebbene l'uno e l'altro siano di un'unica e medesima sapienza.

 

Numero come ordine.

11. 31. Ma la sapienza ha concesso una struttura numerica a tutti gli esseri anche ai meno perfetti e posti nel grado più basso della realtà. Perfino i corpi in generale, sebbene siano al livello più basso nella realtà, hanno una propria struttura numerica. Tuttavia non ha concesso l'averne scienza ai corpi e alle anime inferiori, ma soltanto a quelle ragionevoli, come se in esse dovesse stabilire la propria sede, da cui disporre tutti gli esseri, anche i meno perfetti, cui ha concesso una struttura numerica. E poiché dei corpi giudichiamo facilmente come di esseri ordinati sotto di noi e poiché vediamo anche ad essi partecipati i numeri, pensiamo che i numeri siano sotto di noi e perciò li riteniamo di minor pregio. Ma quando cominciamo a salire verso l'alto, troviamo che trascendono anche la nostra intelligenza e che rimangono immutabili nell'ideale verità. E poiché è di pochi avere sapienza, ma far di conto è concesso anche ai non sapienti, si ammira la sapienza e si disprezzano i numeri. Ma i dotti e coloro che si applicano alla dottrina, quanto più si allontanano dalla terrenità, tanto più intuiscono e numero e sapienza nell'ideale verità ed hanno in pregio l'uno e l'altra e, nel confronto con l'ideale verità, per essi non solo sono vili l'oro e l'argento e gli altri oggetti per cui gli uomini lottano, ma anche essi a se stessi.

 

Numero e intelligibile e verità.

11. 32. E non ti stupire che i numeri sono meno valutati dagli uomini e che la sapienza è pregevole. È più facile per loro far di conto che esser sapienti. Puoi osservare anche che pregiano di più l'oro che il lume della lucerna, al cui paragone l'oro è da schernire. Ma viene apprezzato di più un oggetto di gran lunga inferiore perché anche il mendico si accende la lucerna, pochi invece hanno l'oro. Comunque non avvenga che al confronto col numero la sapienza venga considerata inferiore. È di eguale valore, ma richiede un occhio che sia capace di scoprirla. In un unico fuoco si percepiscono consustanziali, per così dire, la luce e il calore e non possono esser separati l'una dall'altro. Tuttavia il calore giunge soltanto agli oggetti posti vicino, la luce invece si diffonde più lontano in ogni direzione. Così mediante il potere dell'intelligenza, che è presente nella sapienza, si riscaldano gli esseri più vicini, come le anime ragionevoli, ma esso non raggiunge col calore della sapienza i più lontani, come i corpi, ma li investe con la luce dei numeri. Per te forse il concetto rimane oscuro perché nessuna immagine visibile si può adattare convenientemente all'oggetto invisibile. Soltanto tieni presente un tema che basterà al problema che abbiamo impostato e che è evidente a modeste intelligenze, quali le nostre. Quantunque non possa esserci chiaro se il numero è nella sapienza o dalla sapienza o viceversa se la sapienza è dal numero o nel numero, è certamente evidente che l'una e l'altro sono veri e immutabilmente veri.

 

Universalità della verità.

12. 33. Perciò non puoi assolutamente affermare che non esiste la verità immutabile che comprende tutti gli oggetti che sono veri immutabilmente e non puoi dire che è tuo o mio o di un altro individuo, ma che è universalmente accessibile e si mostra, come luce mirabilmente esposta e nascosta ad un tempo, a tutti coloro che conoscono gli immutabili veri intelligibili. Ma si può forse dire che l'oggetto accessibile universalmente a tutti coloro che ne hanno puro pensiero appartiene alla particolare condizione di uno di loro? Ricordi, penso, ciò che dianzi è stato detto dei sensi esterni. Gli oggetti che si percepiscono col senso della vista e dell'udito, come colori e suoni, che contemporaneamente io e tu vediamo o udiamo, non appartengono alla nostra particolare esperienza visiva o uditiva ma sono comuni come oggetti sensibili. Allo stesso modo dunque non puoi certo affermare che gli oggetti che io e tu pensiamo con la nostra particolare intelligenza appartengono alla condizione dell'intelligenza di uno di noi. Non potrai affermare appunto che l'oggetto percepito dalla vista di due soggetti è la vista stessa dell'uno o dell'altro, ma un terzo termine, al quale si porta lo sguardo d'entrambi.

Evodio - È apoditticamente vero.

 

Verità è superiore a mente.

12. 34. Agostino - Ed ora, secondo te, l'ideale verità, di cui da tempo stiamo parlando e nella cui unità intuiamo i molti intelligibili è superiore, eguale o anche inferiore alla nostra mente? Ora se fosse inferiore, non esprimeremmo giudizi mediante essa, ma su di essa, come li esprimiamo degli oggetti sensibili perché ci sono inferiori. Affermiamo appunto che hanno questa qualità o non l'hanno, ma anche che dovrebbero averla o non averla. Altrettanto del nostro carattere sappiamo non solo che è in questo modo, ma spesso anche che non dovrebbe esserlo. Ad esempio, si esprimono giudizi sui sensibili quando si dice: " è meno candido di quanto doveva "; ovvero: " è meno quadrato ", e così via; e del carattere: " è meno disposto di quanto dovrebbe ", ovvero: " meno mite ", o: " meno dinamico ", come comporterà appunto la norma del nostro costume. E si esprime il giudizio mediante le regole interiori della ideale verità che universalmente si intuiscono, ma di esse non si giudica assolutamente. Quando qualcuno dice infatti che le cose eterne sono più degne delle temporali e che sette più tre fanno dieci, non dice che così doveva essere, ma conoscendo che così è, non trasforma da arbitro, ma si allieta come scopritore. Se poi l'ideale verità fosse eguale alla nostra mente, anche essa sarebbe nel divenire. La nostra mente ora la intuisce di più ed ora di meno. Palesa così di essere nel divenire. Al contrario l'ideale verità, permanendo in sé, non aumenta quando ci si manifesta di più, non diminuisce quando ci si manifesta di meno, ma integra e immateriale, allieta di luce quelli che ad essa si volgono, punisce con la cecità quelli che si volgono in opposta direzione. E che dire, dal momento che mediante essa giudichiamo della nostra stessa mente mentre non possiamo affatto giudicare di essa? Si dice infatti: " Pensa di meno di quanto deve ", ovvero: " Pensa tanto quanto deve ". La mente deve appunto tanto più pensare quanto più si avvicina all'immutabile verità. Pertanto se essa non è inferiore ed eguale, rimane che sia eminentemente superiore.

 

Varie opinioni sulla felicità.

13. 35. Avevo promesso, se ricordi, di dimostrarti che v'è un essere più alto dell'atto puro del nostro pensiero. Ed eccoti, è la stessa verità. Abbracciala, se ne sei capace, e godine e prendi diletto nel Signore e ti accorderà le richieste del tuo cuore (7). Che desideri di altro se non esser felice? E quale essere è più felice di chi gode della stabile, non diveniente e altissima verità? Gli uomini si dichiarano felici quando godono nell'amplesso di un bel corpo ardentemente desiderato, sia delle mogli che delle amanti. E noi dubitiamo di esser felici nell'amplesso con la verità? Certi individui dichiarano di esser felici quando con la gola asciutta dall'arsura giungono ad una sorgente che scaturisce limpida, ovvero se affamati trovano un pranzo o cena ben servita e abbondante. E noi diremmo di non esser felici quando siamo dissetati e nutriti dalla verità? Si è soliti udire le voci di coloro che si proclamano felici se possono riposarsi fra rose e altri fiori o anche se fanno uso di unguenti molto profumati. E che cosa di più odoroso e delizioso dell'alito della verità e potremmo dubitare di considerarci felici se ne siamo alitati? Molti pongono la propria felicità nel canto corale e degli strumenti a corda e a fiato e quando loro mancano si considerano infelici e quando ne dispongono si entusiasmano per la gioia. E noi, quando si cala nella nostra intelligenza senza alcun rumore un certo, per così dire, musicale ed eloquente silenzio della verità, potremmo cercare altra felicità e non godere di una tanto vera e interiore? Gli uomini, dilettati dalla luce dell'oro e dell'argento, dalla luce delle gemme e di pietre di altri colori, ovvero dalla chiarezza e splendore della stessa luce visibile, sia essa in sorgenti luminose terrene ovvero nelle stelle, nella luna e nel sole, quando non sono impediti da tale godimento per difetti fisici e privazioni, si ritengono felici e desiderano vivere sempre per tali beni. E noi temeremmo di stabilire la felicità nella luce della verità?.

 

Verità e sommo bene.

13. 36. Anzi, poiché nella verità si conosce e raggiunge il sommo bene e la verità è sapienza, sforziamoci di vedere e raggiungere in essa il sommo bene e goderne. È felice infatti chi gode del sommo bene. La verità svela appunto tutti i beni che sono intelligibili e che gli individui, avendone puro pensiero secondo la propria capacità, si scelgono, o uno o più, per goderne. Alcuni individui, nella luce del sole, scelgono l'oggetto da guardare con maggiore soddisfazione e al vederlo ricevono piacere. E se fra di essi ve ne sono alcuni dotati di vista più resistente per salute e più acuta, nient'altro osservano con maggior piacere che il sole stesso, il quale illumina anche gli altri oggetti, da cui riceve piacere anche una vista più debole. Allo stesso modo una resistente e acuta intuitività mentale, quando conoscerà con distinto atto di pensiero molti oggetti intelligibili e non divenienti, si eleverà alla stessa verità, da cui tutti essi sono resi intuibili e ad essa unita, è come se tutti li dimentichi e in essa di tutti goda. Tutto ciò che è appunto sorgente di godimento nei diversi veri intelligibili, lo è mediante la verità.

 

La verità ci libera.

13. 37. Questo è il nostro riscatto: esser soggetti alla verità, ed è il nostro stesso Dio che ci riscatta dalla morte, cioè dalla soggezione al peccato. La stessa Verità, che è anche uomo in dialogo con gli uomini, ha detto a coloro che lo credono: Se rimarrete nella mia parola, sarete veramente miei discepoli e conoscerete la verità e la verità vi libererà (8). L'anima infatti non gode di un bene con libertà, se non ne gode con sicurezza.

 

14. 37. Ora non si è sicuri di quei beni che si possono perdere indipendentemente dalla volontà. Ma la verità e la sapienza non si perdono indipendentemente dalla volontà. Infatti non è possibile separarsene secondo lo spazio. Quella che si chiama separazione dalla verità e dalla sapienza è la volontà perversa con cui si amano le cose inferiori. E non si vuole una cosa senza volerlo. Si ha dunque la verità, di cui si può godere tutti universalmente in eguale misura perché in essa non esistono limiti, non esistono carenze. Certamente non accoglie i suoi amatori rivali l'uno dell'altro. È comune a tutti e casta con tutti. Non si dice all'altro: " Vattene perché mi appressi anche io, allontana le mani perché anche io l'abbracci ". Tutti le sono uniti, tutti toccano il medesimo oggetto. Il suo cibo certamente non si spezza in bocconi, non puoi bere di essa senza che anche io lo possa. Partecipandone non trasformi qualche cosa in un tuo oggetto particolare, ma ciò che di essa tu prendi, rimane un tutto anche per me. Non devo attendere che ciò che ti dà il respiro sia restituito da te perché faccia respirare anche me. Non v'è un qualche cosa di lei che diviene particolare di uno o alcuni, ma è universale contemporaneamente tutta a tutti.

 

La verità è per tutti.

14. 38. Dunque gli oggetti che si toccano, gustano e odorano sono meno simili alla verità, ma di più gli oggetti che si odono e vedono. La parola che si ode da alcuni, si ode da tutti costoro, e tutta da ciascuno insieme, e della figura che si rappresenta alla vista quanto se ne vede dall'uno tanto dall'altro insieme. Tuttavia questi oggetti sono simili ma con una notevole differenza. La voce in generale non suona tutta nell'istante perché si tende e prolunga nel tempo e una parte suona prima, l'altra dopo. La figura visibile invece si estende in genere come volume nello spazio e non è tutta in ogni spazio. E certamente tutti questi oggetti possono essere sottratti anche a chi non lo vuole e si può essere impediti dal goderne da determinati limiti. Ad esempio, se il canto dolce di un tale individuo potesse durare in eterno e gli amatori venissero a gara per ascoltarlo, si comprimerebbero e si contenderebbero il posto quanto più numerosi sono per essere ciascuno più vicino al cantante. Nell'udire comunque non otterrebbero che qualche cosa rimanga con loro, ma sarebbero impressionati da tutti suoni fuggevoli. Così se volessi fissare il sole e lo potessi di continuo, esso mi abbandonerebbe al tramonto, sarebbe velato dalle nubi e perderei contro il mio volere il piacere di vederlo per molti altri ostacoli. E infine, anche se fosse permanente la bellezza della luce, quando vedo, e della voce, quando ascolto, che cosa di degno me ne verrebbe, dal momento che mi è comune con le bestie? Ma la bellezza della verità e della sapienza, purché si abbia una continua volontà di goderne, non esclude i nuovi arrivati anche se assediata da una moltitudine di uditori, non si estende nel tempo, non si muove nello spazio, non s'interrompe con la notte, non è intercettata dall'ombra, non soggiace ai sensi. Ed è vicinissima a tutti coloro che da tutto il mondo a lei si volgono perché la amano, per tutti è supertemporale. Non è nello spazio e non manca in alcuno spazio; avverte dall'esterno, insegna nell'interno; cambia in meglio tutti quelli che la scorgono, da nessuno è cambiata in peggio; nessuno può giudicarla, nessuno senza di essa giudica bene. E per questo è chiaro che è innegabilmente superiore alla nostra intelligenza, che soltanto per la sua mediazione diviene sapiente, perché non di essa puoi giudicare, ma mediante essa di ogni altro oggetto.

 

Dio esiste perché è verità.

15. 39. Tu avevi ammesso che se avessi dimostrato l'esistenza di un essere sopra alla nostra intelligenza, avresti riconosciuto che è Dio, se non ve n'è un altro superiore. Accogliendo questa tua dichiarazione, avevo affermato che potevo dimostrarlo per apodissi. Se infatti v'è un essere superiore, questi è Dio, se non v'è, la stessa verità è Dio. Dunque tanto se v'è, come se non v'è, non potrai negare che Dio esiste. Questo era il problema propostoci da discutere e sciogliere. E se ti turba il tema da noi accettato per fede nel divino insegnamento di Cristo, che v'è un padre della sapienza, ricordati che per fede abbiamo accettato anche che all'Eterno Padre è eguale la Sapienza da lui generata. E su questo tema ora non si deve discutere, ma si deve ammetterlo per fede incrollabile. Esiste infatti Dio ed esiste in un ordine sommamente intelligibile. E riteniamo per fede tale verità non solo innegabile, come suppongo, ma la raggiungiamo anche con una ben definita, per quanto assai tenue, forma della conoscenza. Ma basta al problema preso in considerazione, affinché possiamo svolgere gli altri temi attinenti all'argomento, a meno che non hai da obiettare in contrario.

Evodio - Accolgo queste conclusioni, invaso da indicibile gioia che non potrei spiegarti a parole e proclamo che sono assolutamente certe. Proclamo poi con la voce interiore, con cui desidero essere ascoltato dalla stessa verità e a lei unirmi, la mia convinzione che essa non è soltanto un bene, ma il sommo bene beatificante.

 

La sapienza è immediata nel pensiero.

15. 40. Agostino - Proprio bene, anche io ne godo assai. Ma, prego, siamo forse già sapienti e felici o vi tendiamo affinché questo fine sia da noi raggiunto?

Evodio - Penso che vi tendiamo piuttosto.

Agostino - Da dove dunque hai la certezza di questi principi, della cui verità ed evidenza dici di godere e perché affermi che essi appartengono alla sapienza? Ovvero anche un insipiente può raggiungere la sapienza?

Evodio - Finché è insipiente, non lo può.

Agostino - Tu dunque o sei già sapiente o ancora non conosci la sapienza.

Evodio - Certamente non sono ancora sapiente, ma non potrei dire di essere insipiente nei limiti con cui conosco la sapienza poiché i principi che conosco sono certi e debbo affermare che sono attinenti alla sapienza.

Agostino - Ma dimmi, scusa; non devi ammettere che chi non è giusto è ingiusto, che chi non è prudente è imprudente e che chi non è temperante è intemperante. Se ne può forse dubitare?

Evodio - Ammetto che un individuo, finché non è giusto, è ingiusto e lo direi anche del prudente e del temperante.

Agostino - Perché dunque, finché non è sapiente, non sarebbe insipiente?

Evodio - Ammetto anche questo, che finché non è sapiente è insipiente.

Agostino - E tu dei due che sei?

Evodio - Comunque mi vorrai considerare, non oso ancora dichiararmi sapiente e da quanto ho concesso vedo che ne consegue di dovermi dichiarare insipiente.

Agostino - Dunque l'insipiente conosce la sapienza. Al contrario, come è stato detto, non sarebbe certo di voler esser sapiente e che è necessario esserlo, se non fosse presente nella sua intelligenza la nozione della sapienza, come pure dei concetti, su cui, singolarmente richiesto, hai risposto. Anche essi sono attinenti alla stessa sapienza e tu hai perfino goduto della loro conoscenza.

Evodio - È come tu dici.

 

 

Da Dio tutte le cose buone (16, 41 - 17, 46)

 

L'opera della sapienza in noi.

16. 41. Agostino - Che cosa facciamo dunque quando ci impegniamo ad esser sapienti? Non altro che con la maggiore alacrità possibile congiungere tutta la nostra anima all'oggetto che raggiungiamo con l'intelligenza e stabilirvela e fissarvela durevolmente. Così non potrà più godere della propria individualità che ha condizionato alle cose caduche, ma spogliata da ogni soggezione al tempo e allo spazio consegue l'oggetto che è sempre uno e medesimo. E come tutta la vita del corpo è l'anima, così la vita felice dell'anima è Dio. E fintantoché compiamo quest'opera, fino a che non la completiamo, siamo in viaggio. E ci è dato di godere di questi beni ideali e stabili, sebbene essi splendano in questo cammino di tenebre. E perciò considera se è questo appunto che è stato scritto della sapienza riguardo al comportamento con i suoi amatori, quando vengono da lei e la cercano. È stato scritto: Si mostrerà loro affabilmente sul cammino e andrà loro incontro con ogni provvidenza (9). Infatti in qualsiasi direzione ti volgerai, ti parla con le orme che ha impresso nelle sue opere. Se ti ributti verso le cose esteriori, ti richiama dentro con le forme stesse delle cose esteriori. Dovrai così riflettere che quanto ti diletta nel corpo e ti avvince con i sensi è soggetto al numero, ricercar da dove proviene, ritornare in te stesso e comprendere che non puoi giudicare né bello né deforme l'oggetto sensibile senza avere determinati criteri estetici, a cui rapportare le immagini belle che percepisci al di fuori.

 

La presenza del numero del mondo.

16. 42. Osserva il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi splendono nella sfera superiore o nella inferiore si muovono camminando, volano oppure nuotano. Hanno una forma perché partecipano ai numeri. Toglierli loro, non saranno più. Da chi hanno l'essere dunque se non da chi lo ha il numero poiché in tanto hanno l'essere in quanto sono partecipanti del numero? Anche gli uomini artefici di opere corporee nella loro arte adoperano il numero per rapportarvi le proprie opere e nel costruire muovono mani e strumenti fino a quando l'opera, che riceve la forma dal di fuori, rapportata all'interiore luce dei numeri, riceve, per, quanto è possibile, la compiutezza e piace, mediante il senso, al critico che intuisce i numeri ideali. Cerca inoltre chi muove le membra dello stesso artefice. Sarà il numero perché anche esse si muovono secondo una misura numerica. E se sottrai dalle mani l'opera da produrre e dalla coscienza l'intenzione di produrla e il movimento delle membra è rapportato all'estetica, si chiamerà danza. Chiedi dunque che cosa è estetico nella danza, il numero ti risponderà: " Eccomi, sono io ". Ed osserva ormai la bellezza di un sensibile dato dall'arte, i numeri sono inclusi nello spazio; osserva la bellezza del movimento nel sensibile, i numeri si svolgono nel tempo. Avvicinati all'arte da cui procedono, cerca in essa lo spazio e il tempo. Non è in nessun tempo, in nessuno spazio, eppure in essa ha vita il numero, ma la sua non è una dimora fatta di spazio, non è una esistenza fatta di giorni. Tuttavia coloro che scelgono di divenire artisti, quando si dispongono ad apprendere l'arte, muovono il proprio corpo secondo spazio e tempo, lo spirito invece soltanto secondo tempo perché col succedere del tempo divengono più esperti. Trascendi dunque anche la coscienza dell'artista per vedere il numero supertemporale. Allora la sapienza splenderà per te dalla sede interiore e dallo stesso santuario della verità. E se abbaglia il tuo sguardo ancor debole, torna a volgere l'occhio su quella via, dove si mostrava affabilmente. Ricordati però che hai rimandato la visione. Quando sarai più forte e sano, devi ritentare.

 

Le orme della sapienza nel mondo ...

16. 43. Guai a coloro che abbandonano te come guida e si pervertono nelle tue orme, che amano i tuoi cenni invece di te e dimenticano l'oggetto, cui accenni, o sapienza, soavissima luce di una intelligenza purificata. Non desisti infatti di accennarci che cosa sei e quanto sei grande, e i tuoi cenni sono in genere la bellezza delle creature. Anche l'artista accenna in qualche modo a chi osserva la sua opera alla stessa bellezza dell'opera affinché non si arresti ad essa, ma in tale maniera osservi l'immagine da riportarsi col sentimento a chi l'ha costruita. Coloro che invece di te amano le cose che fai sono simili alle persone che, nell'udire un oratore colto, sono troppo presi dalla dolcezza del timbro della voce e dalle strutture della prosa numerosa. Così trascurano la rilevanza del pensiero, di cui le parole proferite sono segni. Guai a coloro che si distolgono dalla tua luce e si abbandonano dolcemente alle proprie tenebre. È come se voltandoti il dorso si volgano alla terrenità nell'ombra che proiettano ma hanno pur sempre dall'irrompere intorno della tua luce quella soddisfazione che li diletta anche in quello stato. Ma l'ombra, finché si ama, rende l'occhio spirituale più debole e più disadatto a sostenere lo sguardo. E per questo l'uomo si adatta gradualmente alle tenebre fintanto che sceglie quella condizione che gli rende più tollerabile l'esser più debole. Ne consegue che non è più capace di vedere il mondo ideale e ritenere un male ciò che gli sfugge perché imprevidente o lo attrae perché bisognoso o lo tormenta perché reso schiavo. Al contrario egli deve sopportare queste cose meritatamente in cambio del suo essersi distolto. Ed è impossibile che ciò che è giusto sia un male.

 

... come forma spazio-temporale.

16. 44. Puoi dunque rappresentarti tanto con la sensazione quanto col pensiero qualsiasi oggetto diveniente che conoscerai, solamente se rientra in una qualche forma numerica. E se essa viene eliminata, l'essere finisce nel nulla. Non dubitare quindi che esiste una forma eterna e non diveniente affinché gli esseri divenienti non si interrompano, ma pongano nella successione con movimenti misurati e con distinta varietà di forme quasi delle ritmiche cadenze di tempi. Ed essa non è contenuta e quasi estesa nello spazio, non si moltiplica per successione nel tempo affinché mediante essa possano avere la forma tutti gli esseri divenienti e nel proprio ordine colmino nel movimento i numeri dello spazio-tempo.

 

Forma degli esseri e provvidenza.

17. 45. È universalmente necessario che l'essere diveniente sia formabile. Come appunto si dice diveniente l'essere che può divenire, così direi formabile l'essere che può avere la forma. Ma nessun essere può darsi la forma perché nessun essere può darsi quel che non ha. E appunto perché abbia la forma, un essere è formato. Pertanto qualsiasi essere che ha una sua forma non ha bisogno di ricevere quel che ha, e se non ha la forma non può ricevere da sé ciò che non ha. Dunque è impossibile, come abbiamo detto, che un essere si dia la forma. Che cosa dunque dovremmo dire ancora del divenire del corpo e dello spirito? Dianzi ne è stato detto abbastanza. Ne segue dunque che corpo e spirito abbiano la forma da forma non diveniente e sempre permanente. Ad essa è stato detto: Li porrai nel divenire e saranno nel divenire; tu invece sei sempre il medesimo e i tuoi anni non si esauriranno (10). La parola del Profeta ha detto anni senza esaurimento per dire eternità. E di questa forma è stato detto che rimanendo in se stessa rinnova tutto (11). Ne consegue anche che tutto è ordinato dalla Provvidenza. Tutti gli esseri non sarebbero, se la forma fosse sottratta loro del tutto. E la forma non diveniente, per cui sussistono tutti gli esseri divenienti perché raggiungano pienezza svolgendosi secondo i numeri delle rispettive forme, essa ne è la provvidenza. Gli esseri non esisterebbero se essa non esistesse. Chi dunque compie il cammino verso la sapienza, considerando e riflettendo sull'universo, avverte che la sapienza durante il cammino gli si mostra affabilmente e che gli viene incontro in ogni manifestazione della provvidenza. Aspira dunque a continuare tanto più alacremente questo cammino, quanto esso è più bello per lei, cui brama arrivare.

 

Ogni bene è da Dio.

17. 46. E se tu troverai che oltre l'essere che è e non vive e l'essere che è e vive e non pensa e l'essere che è, vive e pensa, esiste un altro genere di creature, potrai allora osare di dire che v'è un bene che non è da Dio. Le tre categorie possono anche essere espresse con due termini se sono chiamati corpo e vita perché giustamente si considera vita tanto quella che vive e non pensa, come nei bruti, e quella che pensa, come negli uomini. I due principi, cioè corpo e vita, sono attinenti alla creatura poiché anche del creatore stesso si dice la vita ed è la somma vita. Questi due principi dunque, poiché sono formabili, come i temi testé espressi hanno provato, e poiché perduta del tutto la forma tornano nel nulla, mostrano sufficientemente che sussistono da quella forma che è sempre la medesima. Pertanto tutti i beni, siano essi grandi o piccoli, possono essere soltanto da Dio. Che cosa di più alto nelle creature della vita pensante e che cosa di più basso del corpo. Eppure sebbene deperiscano e tendano al non essere, tuttavia in essi rimane qualche cosa della forma affinché siano comunque. E il qualche cosa che rimane della forma a un essere, che deperisce, è da quella forma, la quale non può deperire e non permette che le mutazioni degli esseri che hanno deperimento o crescita oltrepassino le leggi dei loro numeri. Dunque quanto di lodevole si avverte nel mondo, sia esso giudicato degno di piccola ovvero di grande lode, si deve riferire all'altissima e ineffabile lode del creatore. Hai qualche cosa da dire in contrario?

 

 

La volontà libera è un bene (18, 47 - 20, 54)

 

La volontà è un bene ...

18. 47. Evodio - Confesso di essere sufficientemente persuaso, ed anche del modo con cui si dimostra, per quanto è possibile in questa vita e da persone quali noi siamo, che Dio esiste e che da Dio sono tutti i beni. Infatti tutti gli esseri, tanto quelli che pensano, vivono ed esistono, sia quelli che soltanto vivono ed esistono e quelli che soltanto esistono, sono da Dio. Ed ora si può risolvere il terzo problema, che tra i beni è da numerare anche la libera volontà. Dimostrato questo tema, concederò senza esitazione che Dio ce l'ha data ed era opportuno che fosse data.

Agostino - Ricordi bene i temi proposti ed hai notato accortamente che anche il secondo problema è stato chiarito, ma avresti dovuto accorgerti che anche il terzo è stato risolto. Avevi detto appunto che non doveva essere dato il libero arbitrio della volontà perché con esso si pecca. A questa tua opinione ho replicato che è possibile agire secondo ragione soltanto mediante il libero arbitrio della volontà e affermavo che Dio per questo appunto ce l'ha dato. Hai risposto che la libera volontà doveva esserci data come la giustizia, di cui si può usare soltanto bene. La tua risposta ci ha costretto ad entrare nei molti giri della disputa per dimostrarti che soltanto da Dio possono provenire beni maggiori e minori. Non era facile dimostrarlo con chiarezza. Prima contro le opinioni della blasfema insipienza, per cui dice l'insipiente in cuor suo: Dio non esiste (12), il ragionamento iniziato, di qualunque valore fosse su tanto argomento dato il nostro limite, doveva, con l'aiuto di Dio in un cammino tanto pericoloso, tendere a una determinata evidenza. Tuttavia questi due temi, cioè che Dio esiste e che tutti i beni sono da lui, sebbene fossero accettati con fede ferma anche prima, sono stati tuttavia trattati in maniera da far apparire con grande evidenza anche il terzo tema, che tra i beni è da considerarsi la libera volontà.

 

... relativo ma ...

18. 48. Già infatti dalla precedente disputa è stato evidenziato ed è emerso dal nostro dialogo che la natura del corpo è di grado inferiore alla natura dello spirito e che pertanto lo spirito è un bene maggiore del corpo. Ora fra i beni del corpo ne troviamo alcuni di cui si può usare non razionalmente ma non per questo si può affermare che non dovevano esser dati perché si ammette che sono beni. Che meraviglia dunque se pure nello spirito esistono alcuni beni, di cui anche si può usare non razionalmente, ma dal fatto che sono beni, potevano esser dati soltanto da colui, da cui sono tutti i beni? Puoi notare quale bene manca al corpo se gli mancano le mani. Tuttavia usa male le mani chi con esse compie azioni crudeli o turpi. Se tu vedessi un tale senza piedi, diresti che manca all'integrità del corpo un bene grandissimo, ma non potresti negare che chi usa i piedi per nuocere a qualcuno o per andare a bruttarsi usa male dei piedi. Con gli occhi vediamo la luce e le figure sensibili e sono motivo di grande bellezza nel nostro corpo. E per questo tali organi sono, in segno di dignità, collocati nell'alto. L'uso della vista inoltre interessa la difesa della salute e apporta molti altri vantaggi per la vita. Ma molti con gli occhi compiono disonestamente parecchie azioni e li costringono a battersi per la lussuria. E puoi notare quale bene manchi al viso se mancano gli occhi. E quando ci sono, chi li ha dati se non Dio, datore di tutti i beni? Dunque tu li consideri nel corpo e non vedendo coloro che li usano male, lodi chi ha concesso questi beni così grandi. Così devi ammettere che la volontà, senza di cui non si può vivere secondo ragione, è un bene dato da Dio e si devono riprovare coloro che ne usano male, anziché dire che chi l'ha data non doveva darla.

 

... è sempre bene.

18. 49. Evodio - Dovresti dimostrarmi prima che la libera volontà è un bene ed io concederci che Dio ce l'ha data perché devo ammettere che da Dio sono tutti i beni.

Agostino - Ma non te l'ho già provato col vigoroso impegno della precedente discussione? Tu stesso hai dovuto ammettere che dalla forma ideale delle cose, cioè dalla verità, sussiste ogni forma specifica del corpo e concedere che essa è un bene? La stessa Verità infatti dice nel Vangelo che perfino i nostri capelli sono numerati (13). E a te è forse uscito di mente quel che abbiamo detto dell'eccellenza del numero e del suo potere che si estende da un termine all'altro? Che aberrazione è dunque codesta: includere fra i beni, per quanto minuti e vili, i nostri capelli e non trovare altro autore, cui attribuirli, se non Dio, perché i beni più grandi e i più piccoli sono da lui, dal quale è ogni bene, e poi dubitare della libera volontà, dal momento che anche coloro i quali vivono molto male ammettono che senza di essa non si può viver bene? Ed ora, per favore, rispondi quale facoltà è più alta in noi, quella senza di cui si può viver razionalmente, o quella senza di cui non si può vivere razionalmente?

Evodio - Perdonami, ti prego; mi vergogno del mio accecamento. Chi può dubitare che è molto più eccellente quella senza di cui non esiste razionalità?

Agostino - Potresti dire che un individuo senza un occhio non può vivere razionalmente?

Evodio - Non sia mai un'affermazione tanto pazzesca.

Agostino - Ammetteresti dunque che un occhio nel corpo è un determinato bene, con la cui perdita quel tale non è impedito di vivere secondo ragione e riterresti che non sia un bene la libera volontà, senza di cui non si può assolutamente vivere secondo ragione?

 

Beni grandi medi infimi.

18. 50. Tu pensi alla giustizia, di cui non si può usar male. Essa è compresa fra i beni più grandi che sono nell'uomo, come pure tutte le virtù, di cui è costituita l'onesta razionalità. Anche della prudenza, della fortezza e della temperanza non si può usar male. In tutte, come anche nella giustizia che tu hai ricordato, domina la ordinata razionalità, senza di cui non si danno le virtù.

 

E della ordinata razionalità non si può usar male.

19. 50. Dunque sono grandi beni questi; ma devi ricordare che non solo i grandi beni, ma anche gli infimi possono essere soltanto da colui, da cui sono tutti i beni, cioè Dio. L'ha provato la precedente dimostrazione, alla quale hai consentito tante volte e con tanta gioia. Dunque le virtù, con cui si vive razionalmente sono grandi beni, le belle forme dei vari corpi, senza di cui si può viver razionalmente, sono beni infimi, le facoltà spirituali, senza di cui non si può viver razionalmente, sono beni medi. Delle virtù non si può usar male, degli altri beni, cioè infimi e medi, si può usar non solo bene ma anche male. E della virtù non si può usar male appunto perché funzione della virtù è il buon uso degli altri beni, di cui si può usar anche non bene. E non si può usar male usando bene. Pertanto la munificenza e la grandezza della bontà di Dio ha concesso che si diano beni non solo grandi, ma anche medi e infimi. La sua bontà si deve lodar di più nei beni grandi che nei medi e di più nei medi che negli infimi, ma di più in tutti che se non li avesse concessi tutti.

 

La volontà è in sé immediata.

19. 51. Evodio - Sono d'accordo. Però mi turba un pensiero. Giacché il problema riguarda la libera volontà e si può notare che è essa ad usar bene e male delle altre cose, come si può includere fra le cose di cui usiamo?

Agostino - Allo stesso modo che col pensiero conosciamo tutti gli oggetti che conosciamo per aver scienza e tuttavia il pensiero stesso è incluso fra gli oggetti che conosciamo col pensiero. Ti sei dimenticato forse di aver ammesso, quando discutevamo sugli oggetti conosciuti col pensiero, che anche il pensiero si conosce col pensiero? Non meravigliarti dunque che se si usa di altre cose mediante la libera volontà, si possa usare della libera volontà mediante la stessa volontà. La volontà, che usa di altre cose, usa se stessa, come il pensiero appunto che conosce altri oggetti e conoscesse stesso. Anche la memoria non conserva soltanto tutte le cose che si ricordano, ma per il fatto che ci si ricorda di aver la memoria, anche la memoria stessa si conserva in noi. Essa dunque non ricorda soltanto le altre cose, ma anche se stessa, o meglio siamo noi che ricordiamo le altre cose ed essa mediante essa.

 

Volontà sapienza felicità.

19. 52. Quando dunque la volontà, che è un bene medio, inerisce al bene non diveniente, comune e non proprio, come la verità, di cui abbiamo molto parlato senza dire di lei niente di degno, l'uomo consegue la felicità. E la felicità, cioè lo stato spirituale di chi si unisce a un bene non diveniente, è il bene proprio e primo dell'uomo. In esso sono comprese tutte le virtù, di cui non si può usar male. Si comprende assai bene che questi valori, sebbene siano grandi e primi nell'uomo, sono particolari di ogni individuo, non universali. Infatti con la verità-sapienza che è a tutti comune, tutti, a lei unendosi, divengono sapienti e felici. Al contrario un individuo non diviene felice con la felicità di un altro. Anche se lo imita per divenir felice, tende a divenir felice da quel valore, da cui, come comprende, l'altro lo è, cioè dalla non diveniente e universale verità. Neanche con la prudenza di un tale un altro diventa prudente; così non si rende forte con la fortezza, temperante con la temperanza o giusto con la giustizia di un altro individuo, ma conformando la coscienza alle ideali non divenienti regole luminose delle virtù che immaterialmente vivono nella stessa verità e sapienza. Ad esse appunto quegli che si considera come modello da imitare, perché ricco di queste virtù, ha immutabilmente conformato la propria coscienza.

 

Avversione della volontà.

19. 53. La volontà dunque, unendosi al bene universale al di là del divenire, ottiene i primari e grandi beni umani, sebbene essa sia un determinato bene medio. La volontà, distolta dal bene non diveniente e universale e volta verso un bene particolare o esterno o inferiore, pecca. Si converte al particolare quando presume di essere di proprio dominio, all'esterno quando si preoccupa di conoscere le cose particolari degli altri oppure una cosa in genere che non le spetta, all'inferiore quando sceglie il piacere sensibile. Così l'individuo, divenuto superbo o dissipato o corrotto è trascinato da una vita a lui estranea che paragonata a una vita superiore è morte. Ma anche essa viene ordinata dal governo della divina provvidenza che dispone ogni cosa nel posto conveniente. e distribuisce secondo i meriti a ciascuno il suo. Avviene così che in senso assoluto non sono mali anche i beni desiderati da coloro che peccano e che non lo sia neanche la libera volontà, la quale si deve includere, come abbiamo scoperto, fra determinati beni medi. Il male consiste invece nel volgersi in senso contrario al bene non diveniente e nel volgersi a beni divenienti. E poiché il distogliersi e il volgersi non sono determinati, ma volontari, li segue una dovuta e giusta pena d'infelicità.

 

L'imperfezione dipende dalla creatura.

20. 54. Ma poiché la volontà, nel volgersi dal bene non diveniente al diveniente, si muove, tu forse vorrai chiedere da qual principio deriva questo movimento. Esso è cattivo, sebbene la libera volontà si deve includere fra i beni perché senza di essa neanche si può vivere secondo ragione. Se tale movimento, cioè il distogliersi della volontà da Dio Signore, è innegabilmente il peccato, si può forse dire che Dio è autore del peccato? Il movimento in parola non è da Dio. Da chi sarà dunque? Se tu me lo chiedessi ed io ti rispondessi che non lo so, forse tu saresti più triste, ma io ti avrei risposto il vero. Infatti non si può avere scienza di un oggetto che è nulla. Tu però mantieni fermo il tuo sentimento religioso. Così nel sentire o nel pensare o in genere nel rappresentarti l'oggetto, non ti si presenterà un bene che non sia da Dio. Allo stesso modo non ti si presenta fenomeno che non sia da Dio. Non esitare ad attribuire a Dio creatore ogni cosa appunto, in cui osserverai misura, numero e ordine. Se li eliminerai da una cosa, nulla assolutamente ne rimarrà. Potrebbe rimanere una determinata forma imperfetta in un essere in cui non trovassi misura numero e ordine, perché dove sono, la forma è perfetta. Ma allora devi eliminare anche la forma imperfetta che come materia sembra, per raggiungere la perfezione, esser sottoposta ad una causa agente. Se infatti la perfezione della forma è un bene, un certo bene è anche la forma imperfetta. Ma eliminato radicalmente ogni bene, non rimane un qualche cosa, ma il nulla assolutamente. Ma ogni bene è da Dio, non v'è dunque natura che non sia da Dio. Ora noi ammettiamo che quel movimento del volgersi in altro senso è peccato perché è un movimento verso la decrescenza e il decrescere è in ogni senso dal nulla. Puoi quindi comprendere a che cosa conduce e non dubitare che non conduce a Dio. Ma questo decrescere è volontario, è quindi in nostro potere. Se lo temi, devi non volerlo e se non lo vuoi, non sarà. Che cosa dunque di più tranquillo che stabilirti in una vita, in cui non sia possibile che si verifichi per te ciò che non vuoi? Ma l'uomo non è capace di risollevarsi liberamente, come liberamente è caduto. Crediamo dunque con fede, attendiamo con fiduciosa speranza e desideriamo con ardente carità la mano di Dio tesa a noi dall'alto, cioè il nostro Signore Gesù Cristo. Tu pensi forse che si debba fare una ricerca più profonda sull'origine del peccato. Io per conto mio suppongo che non sia affatto necessario. Ma se tu lo pensi, è da rimandarsi ad altra disputa.

Evodio - Accetto ben di cuore il tuo volere di rimandare ad altro tempo ciò che mi turba sull'argomento. Non posso però accordarti che se ne sia discusso abbastanza.

 

 

(1) - Sal 52, 1.

(2) - Is 7, 9.

(3) - Gv 17, 3.

(4) - Mt 7, 7.

(5) - Qo 7, 26.

(6) - Sap 8, 1.

(7) - Sal 36, 4.

(8) - Gv 8, 31-32.

(9) - Sap 6, 17.

(10) - Sal 101, 27-28.

(11) - Sap 7, 27.

(12) - Sal 13, 1.

(13) - Mt 10, 30.