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il culto cristiano dei santi nel iv secolo

 Tela di Bosch che rappresenta Cristo davanti a Pilato

Bosch: Cristo davanti a Pilato

 

 

 

IL CULTO CRISTIANO DEI SANTI NEL IV SECOLO

 

 

 

Celebremus igitur triumphum Dei curo exaltatione, victoriam Domini curo laudibus frequentemus, diurnis nocturnisque precibus celebremus. " Celebriamo dunque il trionfo di Dio con trasporto e gioia, festeggiamo insieme la vittoria del Signore con inni di lode, celebriamola giorno e notte con preghiere " . La prosa di Lattanzio (La morte dei persecutori, 52, 4) prende l'avvio e quasi la forma di un salmo per salutare la pace della Chiesa dopo la lunga serie di persecuzioni. Per noi è difficile capire e più ancora esprimere ciò che il cambiamento totale della politica religiosa dell'Impero romano ha significato per le comunità cristiane, che sembravano sul punto d'essere spazzate via dall'ultima grande persecuzione.

Proprio le persecuzioni sono il punto di partenza del nostro viaggio alla scoperta della santità umana - dei martiri, potremmo specificare meglio - i cui contorni maturano copiosamente nel IV secolo. Questo secolo era cominciato male per la Chiesa. Dopo trent'anni di tolleranza (quarantacinque, se non prendiamo in considerazione la breve persecuzione di Aureliano nel 275), Diocleziano si accanì contro il cristianesimo con una violenza senza precedenti nel ventesimo anno del suo impero. Attraverso quattro decreti, promulgati nell'arco di un anno (febbraio 303 - gennaio 304), adottò delle misure sempre più radicali per imporre la «soluzione finale» del problema cristiano.

Gli edifici del culto furono demoliti, i libri sacri di cui gli agenti imperiali riuscirono ad impadronirsi furono bruciati, i cristiani allontanati dalle funzioni pubbliche e privati dei diritti civili, i membri del clero arrestati. In ultimo a tutti i cristiani fu ingiunto di sacrificare agli dei dell'Impero sotto la pena di essere deportati o uccisi. La maggior parte dei martiri che la Chiesa venera ancora oggi fu vittima di questa persecuzione, che non si arrestò neppure con l'abdicazione di Diocleziano (305), ma proseguì, in Oriente, fino al 311, quando il furore di Galerio e Massimino Daia parve svanire. I decreti di tolleranza del 311, promulgati dagli stessi imperatori, assomigliava più ad un armistizio che ad una pace vera e propria: Galerio e Massimino avevano dato prova di troppo zelo nella caccia ai cristiani perché questi potessero fidarsi.

La situazione restava incerta: il capriccio dei principi e, soprattutto, il consolidamento del loro potere, potevano scatenare in qualsiasi momento il meccanismo dell'esilio e della morte. Con Costantino l'impensabile si realizzò: una religione maledetta e proscritta divenne una religione lecita, anzi la religione privilegiata, la religione della casa imperiale. A partire dal 15 giugno 313 (editto di Milano), ai cristiani è resa la piena libertà di culto, gli edifici confiscati sono restituiti, risarcimenti considerevoli coprono la Chiesa di enormi ricchezze e, ciò che più conta, l'imperatore non nasconde le sue simpatie per la religione fino ad allora perseguitata. Dal 313, i simboli cristiani cominciano a sostituire sulle monete i simboli pagani; le sentenze dei tribunali episcopali sono riconosciute valide anche in materia profana (318), l'imperatore convoca due concili ad Arles nel 314 e a Nicea nel 325, per riportare la pace interna alla Chiesa.

Costantino, che ha la madre e la moglie entrambe cristiane, fa educare i suoi figli nella nuova religione. Le motivazioni reali della politica religiosa di Costantino sono diverse, come lo sono le ragioni che portarono Diocleziano ormai vecchio a perseguitare il cristianesimo. Possiamo trovare iperbolico il coro di lodi che i cristiani dappertutto elevarono a Costantino durante la vita e dopo morte. Possiamo ugualmente pensare che la festa di san Costantino nella liturgia della Chiesa bizantina sia fuori luogo; a tutti i cristiani del IV secolo egli apparve come il campione e lo strumento di Dio, il nuovo fondatore della Chiesa, l'«uguale agli Apostoli». I

ndipendentemente dalle disposizioni interiori e dai possibili calcoli politici di Costantino, «il suo regno (306-337) ha visto compiersi il mutamento forse più importante che abbia conosciuto la Chiesa prima di quelli che caratterizzeranno i tempi moderni» (H.- I. Marrou, Nuova storia della Chiesa, I, p. 283, Genova, 19892). L'illustre storico così continua: «Eccoci entrati in una fase completamente nuova della storia del cristianesimo: è veramente la Pace della Chiesa. Tutti gli ostacoli di ordine legale o materiale, che impedivano fino allora la evangelizzazione, sono stati rimossi; ed essa progredisce ormai liberamente con accresciuta efficacia. In tutte le regioni dell'Impero romano si moltiplicano le conversioni, raggiungono le masse, gli ambienti fino allora refrattari» (ibid., p. 285). La morte di Costantino non arresta il movimento. I suoi successori, fatta eccezione per Giuliano l'Apostata, dettero prova della stessa benevolenza verso il cristianesimo.

Essi andarono ancora più avanti sulla strada delle concessioni e dei privilegi verso la Chiesa, adoperandosi per eliminare definitivamente il paganesimo. Nel 341 Costanzo proibisce i sacrifici pagani; nel 346 si ordina la chiusura dei templi; Graziano rinuncia al titolo di Pontifex maximus (Pontefice massimo) attribuito alla dignità imperiale dopo Augusto; Teodosio il Grande proibisce il culto antico in tutte le manifestazioni. Alla fine del secolo il trionfo del cristianesimo è totale e irreversibile. Altri pericoli si annunciavano per una Chiesa così strettamente integrata alle strutture dello Stato e troppo ricca di tesori e di privilegi. Ma chi avrebbe potuto prevederli ? La Chiesa del IV secolo non aveva alcuna esperienza dei pericoli a cui poteva andare incontro in un Impero divenuto cristiano. Il solo pericolo che aveva sperimentato, pericolo mortale nel senso letterale del termine, era stato la persecuzione. Questo pericolo era scomparso dall' orizzonte cristiano.

Era un miracolo. Eusebio di Cesarea, vescovo e storico della Chiesa delle origini, aveva vissuto le recenti vicende della Chiesa: aveva conosciuto gli ultimi martiri ed era stato testimone dello stupore, della gioia e dell'allegria travolgente dei cristiani all'avvento della pace. Quando pronuncia il discorso per la dedicazione della chiesa di Tiro, nuovamente ricostruita (tra il 314 e il 317), non è ancora diventato l'amico di Costantino. Interpreta il sentimento comune dei fedeli all'indomani della pace costantiniana: quello di essere stato oggetto d'un intervento miracoloso di Dio. «Altre volte, i segni miracolosi di Dio e i benefici del Signore verso gli uomini, noi li abbiamo conosciuti ascoltando la lettura dei testi sacri; ma oggi non sono più soltanto dei racconti né il suono delle loro parole che ce li fanno conoscere, sono piuttosto le opere, sono i nostri occhi che ci mostrano le cose altre volte raccolte nella memoria, ora fedeli e vere» (Eusebio di Cesarea).

Sicuramente, l'autore di questo miracolo è Dio. L'allusione ai martiri è discreta, come si addice in un inno di ringraziamento al Signore dell'universo, ma si fa più esplicita allorché l'oratore accenna alla persecuzione e alla sua fine. «L'Angelo del Grande Consiglio (il Cristo), il grande stratega al servizio di Dio, dopo la prova piena che i più grandi soldati del suo regno hanno dato con costanza e fermezza assolute, è apparso ad un tratto ed ha fatto entrare i nemici e gli avversari nell'oscurità e nel nulla, al punto che gli sembrò di non averli giammai nominati. AI contrario, ha condotto i suoi amici e familiari al di là della gloria in presenza non solo di tutti gli uomini, ma anche di tutte le potenze celesti, il sole, la luna, gli astri, tutto il firmamento e il mondo».

 

L'apoteosi dei martiri

Inizialmente, dunque, ci furono i martiri. Non si riconobbero altri santi nella Chiesa della prima metà del IV secolo. Questi soldati valorosi e invincibili, che si sono battuti per il regno di Dio nel mondo, sono divenuti «gli amici e i familiari di Cristo» e siedono con lui nei cieli. Essi hanno raggiunto «l'al di là della gloria» in un corteo trionfale che li ha condotti alla presenza stessa di Dio. Iniziamo a comprendere il clima religioso e sociale che ha reso possibile l'esplosione del culto dei martiri e la sua fondamentale novità. La pace, soprattutto quando è raggiunta attraverso sacrifici cruenti, non fa mai dimenticare le vittime delle persecuzioni. Al contrario, è proprio allora che gli sguardi dei sopravvissuti si volgono verso quelli che hanno versato il loro sangue, con sentimenti di riconoscenza, di fierezza e di devozione. Sopraggiunta la pace, ogni vittima del potere perverso, anche la più pacifica, si trasforma in soldato ed eroe della buona causa, soprattutto se la terminologia militare è radicata negli spiriti. E lo era davvero nella mentalità cristiana.

Eusebio vi si riferisce spontaneamente, dal momento che il martirio come combattimento, la vita cristiana come militia (servizio militare), facevano parte del patrimonio linguistico cristiano fin dai tempi apostolici. Ciò che risulta nuovo è il prolungamento della analogia militare fino al trionfo, che non è più rimandato alla fine dei tempi, quando il Cristo, vincitore delle potenze di questo mondo, sarà scortato dagli eletti nel corteo trionfale della sua croce; il trionfo avviene ora, l'angelo del Grande Consiglio fin da ora guida il corteo dei martiri in questa scalata gloriosa attraverso gli elementi del mondo visibile e invisibile. Questa traversata dei cieli costituisce, nella mentalità dell'epoca, il culmine della gloria. La conseguenza più vistosa dell'apoteosi dei martiri fu la cura che si ebbe ovunque per le loro tombe. Una delle prime preoccupazioni di Costantino era stata quella di restituire alla Chiesa. I luoghi resi venerabili dalle reliquie dei martiri e che conservano la memoria gloriosa della loro morte» (Vita di Costantino, Il, 41). Nacque immediatamente il bisogno di onorare tali luoghi sacri con costruzioni, spesso sontuose, che li delimitavano c che potevano accogliere i fedeli che vi si recavano a pregare.

L'imperatore stesso dette impulso alla costruzione delle basiliche. Roma vide così sorgere le prime chiese cimiteriali» sulle tombe dei suoi martiri più celebri: San Pietro in Vaticano, San Paolo sulla via Ostiense, Sant'Agnese sulla via Nomentana, San Lorenzo sulla via Tiburtina, i Santi Apostoli (San Sebastiano) sulla via Appia. Costantinopoli non aveva tombe di martiri. In attesa delle traslazioni della seconda metà del secolo, vi furono eletti dei cenotafi. In periferia e entro la cinta muraria, fu costruito un gran numero di oratori e di martyria vasti e splendidi per onorare la memoria dei martiri e per consacrare la città al Dio dei martiri» (Ibid., 111,48). La più grandiosa di queste basiliche fu quella degli Apostoli dove Costantino fece costruire la sua tomba, circondata dai cenotafi delle «colonne della Chiesa». Il suo esempio fu seguito. «A partire da questo momento, si vedono spuntare basiliche ovunque nel mondo romano. Quasi dappertutto si constatano le stesse fasi nello sviluppo che porta a questi edifici grandiosi. La sepoltura del martire è protetta inizialmente in un oratorio di piccole dimensioni, che viene ingrandito fino a quando lo permette la condizione del terreno; quando poi la cappella trasformata non risponde più al bisogno, viene costruita, a fianco del monumento primitivo e in comunicazione con esso, una basilica più grande, evitando di toccare la tomba» (H. Delehaye, Les origines du culte des martyrs, p. 47, Bruxelles, 1933).

Siamo abbastanza informati sulle espressioni del culto reso ai martiri nella prima metà del IV secolo. Sappiamo che le loro feste erano celebrate in tutto l'Impero: per ordine di Costantino, i governatori delle province furono incaricati di fare «osservare i giorni di festa dei martiri come le domeniche» (Vita di Costantino, IV, 23). La sola fonte dell'epoca riguardo la celebrazione del culto dei santi si trova nel capitolo XII di quel curioso documento che è il Discorso di Costantino all'assemblea dei santi: «Dall'osservanza esatta di questa legge (di Dio) e dalla purezza della fede e della devozione nasce il disprezzo della morte. Chiunque l'ha concepito rimane saldo come una roccia contro le tempeste del secolo. Dopo che ha disprezzato le minacce, riceve la corona dalla mano di colui del quale ha sostenuto la causa. Tuttavia, non attribuisce a sè la gloria della vittoria, perché sa che la costanza di cui ha dato prova tra i tormenti viene dalla grazia di Dio. In questo modo la morte a cui si espone è seguita dall'immortalità. Questo è il prezzo della fedeltà e del valore di un martire. Ecco perché si cantano Inni e Salmi. Ecco perché si onora la sua memoria con un sacrificio di lodi e di ringraziamenti che si offre a Dio senza spargimento di sangue, senza bruciare incenso, senza accendere nessun rogo, senza cercare altra luce se non quella necessaria per illuminare coloro che pregano. Alcuni hanno la carità di preparare in queste occasioni dei pasti molto frugali per nutrire i poveri e per sollevare la miseria di coloro che sono stati cacciati dai loro paesi e spogliati dei loro beni».

Supponendo che tale documento, unico nel suo genere, possa essere valido per tutto l'Impero (la tentazione di estrapolare è molto forte negli storici dell'antichità), noi ci troviamo di fronte ad un culto che non ha niente di esagerato e risulta essere l'evoluzione naturale della venerazione dei martiri attestata dai documenti del III secolo: canti e inni di lode, liturgia eucaristica, pasto fraterno. Tuttavia lo caratterizza un nuovo elemento che lo separa dal culto dei defunti: l'anniversario della morte del martire è divenuto la «festa del martire» o, per usare gli stessi termini del documento, «il giorno dei martiri», come la domenica è «il giorno del Signore». Occorre attendere più d'un secolo per incontrare un'altra descrizione della festa dei martiri. Basilio, vescovo di Seleucia (intorno al 440-459), è l'autore di una raccolta di miracoli di santa Tecla. Ecco come introduce il racconto del 18° miracolo: " Era la festa della martire, l'ultimo giorno della festa, che noi abitualmente chiamiamo 'congedo' perché la festa è ormai giunta alla fine. Quel giorno tutti si danno da fare; il cittadino e lo straniero, l'adulto e il fanciullo, il governante e il governato, il capo d'armata e il soldato, il magistrato e il cittadino, il giovane e il vecchio, il marinaio e il contadino, tutti mettono più zelo e ardore a riunirsi, a pregare Dio, a implorare la Vergine, a partecipare ai divini misteri per andarsene santificati come dei nuovi iniziati, rinnovati nel corpo e nell'anima ... Finita la festa e la sinassi, (due uomini) cenavano insieme con molte altre persone e, com'è naturale, ciascuno raccontava ciò che l'aveva colpito nella festa: uno il suo splendore e la sua intensità, un altro l'intensa partecipazione del popolo, uno la vasta assemblea dei vescovi, un altro l'eloquenza dei predicatori, uno il nobile ardore nel cantare i salmi, un altro la perseveranza nella veglia notturna, uno il bell'ordine armonioso delle cerimonie in generale, un altro il fervore intenso delle persone in preghiera, uno la terribile pressione della folla, un altro il calore soffocante, un altro infine le spinte e la calca avvenute durante la celebrazione dei santi misteri, con i nuovi arrivati, quelli che uscivano, quelli che nuovamente rientravano, quelli che nuovamente ripartivano, gli uni gridando, altri discutendo, altri ancora venendo alle mani e altri rifiutando di cedere, perché ciascuno voleva essere il primo a partecipare all'eucaristia " . Questo santuario di santa Tecla a Meriamlik non era un'eccezione.

Le stesse scene si ripetevano a Costantinopoli per la festa dei santi Cosma e Damiano, a Lydda per quella di san Giorgio, a Menouthis per quella dei santi Ciro e Giovanni, a Noia per quella di san Felice, a Roma per le feste di san Ippolito e dei santi Pietro e Paolo, a Milano per la festa dei santi Gervasio e Protasio, ad Antiochia per quella di san Babila. È lecito chiedersi se il culto dei martiri non sia mutato di senso. Gli storici moderni l'hanno creduto; certuni hanno concluso che il culto dei santi ha sostituito il culto degli dèi. Non sono stati i primi: fin dal IV secolo, alcuni cristiani, come Vigilanzio, lo consideravano una rinascita dell'idolatria; dei pagani, come Eunapio di Sardi, una aberrazione. Tra i Padri della Chiesa, san Girolamo ammetteva con una franchezza brutale: « reso agli idoli il culto era esecrabile, consacrato ai martiri bisogna accettarlo » (lllud fiebat idolis, et ideo detestandum est; hoc fit martyribus, et idcirco recipiendum est). Teodoreto di Ciro non soltanto vede una relazione tra il culto degli dèi e quello dei martiri, ma crede di poter scoprire nel culto dei martiri la vittoria definitiva del cristianesimo sull'antica religione: «I martiri hanno cancellato dalla memoria degli uomini tutto ciò che poteva ricordare gli dèi.

Infatti i loro templi sono stati così completamente distrutti che non possiamo neppure farci un'idea della loro pianta, mentre i loro materiali sono stati consacrati ai santuari dei martiri. Infatti nostro Signore ha messo i propri amici al posto dei vostri dèi! Ha gettato questi fuori, sotto gli occhi e alla conoscenza di tutti, e ha attribuito ai suoi l'onore che era stato loro reso» (Terapeutica delle malattie ellenistiche, VIII, 68-69).

 

La questione di Agostino

Agostino d'lppona è uno di quelli che hanno riflettuto di più sul culto dei santi: lo ha giustificato entro certi limiti; e ne ha deplorato gli eccessi, che attribuiva ad una cultura, le cui radici erano rimaste pagane presso i convertiti che affluivano in massa in una Chiesa dove non si aveva più niente da temere e molto da sperare. Cosa pensava dunque Agostino? Che venerare i santi era bene, invocarli era ancora meglio, sforzarsi di imitarli era l'ottimo.

Ma aggiungeva che non bisognava dedicare ai martiri né chiese né altari perché era una forma di culto riservata soltanto a Dio; che bisognava purificare il culto dei santi da ogni reminiscenza pagana come quella di prendere a pretesto le feste per andare a banchettare sulle tombe e che, infine, acquistare un sepolcro accanto alla tomba di un martire non migliorava in nulla la situazione del defunto nell'al di là. Tutto ciò era ragionevole. Dov'era dunque il problema? Il problema era che accadevano dei miracoli. La grande novità nel culto dei santi, a partire dalla seconda metà del IV secolo, sono proprio i miracoli, la comparsa di prodigi che si verificavano presso le loro tombe o, più semplicemente, grazie alle loro reliquie.

Questa novità è sufficiente da sola a spiegare la differenza tra la celebrazione sobria (che non escludeva la gioia e l'entusiasmo) del Discorso di Costantino e la calca nel santuario di santa Tecla a Meriamlik. Un miracolo è sempre un problema in quanto sovverte le regole. Al limite, se è Dio che fa un miracolo, il problema è più semplice: perché Dio è l'autore e il signore delle leggi della natura.

Ma dei morti, fossero pure dei martiri, come potevano farlo? La legge di natura ha stabilito una frontiera tra i morti e i viventi: noi non sappiamo né dove sono né cosa fanno (nec ubi sunt, nec quid agant scimus); i morti, dal canto loro, non possono occuparsi dei viventi (defuncti per naturam propriam vivorum rebus interesse non possunt). Un moderno razionalista avrebbe subito tratto la conclusione: i miracoli non esistono. Ma Agostino ha il difetto di non evitare le difficoltà.

Egli crede ai miracoli; alcune persone che stima (come Ambrogio di Milano) vi credono; ad alcuni ha assistito lui stesso e ne parla nei suoi scritti: arriva perfino a lamentare che, tra i suoi fedeli, vi sono alcuni che dimenticano i miracoli dei martiri, che apprezzano i miracoli «antichi» (biblici), ma non fanno molto caso ai miracoli «moderni» (dei martiri). E tuttavia, si dichiara incapace di darne una spiegazione. Come spiegare, infatti, che non soltanto vicino alle tombe dei martiri, ma anche vicino ai più piccoli frammenti delle loro reliquie, disseminate in luoghi tanto lontani, possa sprigionarsi un potere così straordinario?

Tutto ciò trascende le capacità della mente (ista quaestio vires intelligentiae meae vincit): i martiri (morti) non possono venire in aiuto di coloro che comunque essi aiutano. Egli avanza delle ipotesi: o i martiri sono presenti in modo misterioso in luoghi differenti, oppure Dio, ascoltando le loro preghiere, manda i suoi angeli che prendono le loro sembianze e operano i miracoli al loro posto. Chi potrebbe dirlo? (De cura pro mortuis gerenda, XVI, PL 40, 606-607).

 

La cosmologia antica: Il Cielo e la Terra

Se si riflette al modo con cui Agostino pone il problema, ci accorgiamo che si riferisce ad una precisa concezione del mondo che i miracoli sovvertivano. Per gli uomini della tarda antichità, il mondo - cosmos - era organizzato intorno a due poli: il Cielo e la Terra, l'Alto e il Basso. Il Cielo era il luogo di Dio e della luce splendente, dell'immutabilità e dell'incorruttibilità.

La Terra era il luogo degli uomini, delle tenebre, della mutabilità e della corruzione. Nessun legame diretto era concepibile tra queste due parti del cosmo. Altri tre luoghi completavano questa visione bipolare dell'Universo: il Cielo astrale, l'Aria e gli Inferi.

 

Gli inferi e la morte

Accanto alla Terra esistevano gli Inferi. Sheol per i Semiti, Ade per i Greci, Inferi per i Latini, era per tutti il regno dei morti. Si estendeva sotto la superficie della Terra, perché era là che i vivi sotterravano i loro defunti. Abisso profondo, regno temibile, luogo delle tenebre, dove una vita, se concepibile, non era che apparenza, un'ombra inafferrabile. L'entrata degli Inferi era situata al confine del cosmo per i Greci, nella regione vulcanica del lago d'Averno per i Latini, nella valle della Geenna per gli Ebrei. Questo paese dei morti restava legato al mondo dei vivi per il fatto che i morti ne avevano fatto parte e gli Inferi attendevano inesorabilmente tutto il resto dell'umanità.

I cimiteri, esclusi dal perimetro urbano, si trovavano nelle sue vicinanze. Vi si andava periodicamente per placare gli spiriti dei morti e renderli propizi con offerte, non gli spiriti di tutti i morti, ma soltanto di coloro che avevano fatto parte della città, del clan, della famiglia. I nomi romani di queste feste dei morti - Cara Cognatio, Parentalia - indicano chiaramente l'ambito di questo culto. Reso il corpo alla terra e chiusa la tomba, il luogo della sepoltura diveniva sacro e quindi inviolabile.

Aprirlo - a Roma, solo il collegio dei pontefici aveva questo potere - non era soltanto sacrilegio, ma anche estremamente pericoloso: aperta sull'abisso, la tomba poteva liberare gli spiriti nefasti. Toccare un cadavere rendeva impuri, ossia vulnerabili alle influenze malefiche che si sprigionavano alle frontiere della vita e della morte. Inoltre, la luce stessa del sole, contaminata dallo spettacolo della corruzione del cadavere, poteva trasformarsi, da potenza benefica e vitale, in elemento portatore di disgrazie e di sciagure.

 

I demoni dell'aria

Attaccato al carro della morte, l'uomo non poteva neppure nutrire l'illusione di trascorrere in pace il breve lasso di tempo che gli era concesso di vivere. Tra il Cielo e la Terra si trovava l'Aria, popolata da demoni e da spiriti di tutte le specie. L'Aria era il luogo della perturbazione, della turbolenza e dell'irrazionale. Se non era possibile nessuna relazione diretta tra il Cielo e la Terra, esistevano numerose relazioni tra l'Aria e la Terra, relazioni di sottomissione da parte degli uomini e di dominio da parte degli spiriti dell'Aria, «potenze di questo mondo». Nel IV secolo, il pensiero cristiano, nella confusione delle varie tendenze, distingueva nettamente una duplice serie di spiriti, gli uni benefici, gli altri malvagi: gli angeli e i demoni.

I demoni abitavano l'Aria. Spiriti celesti creati da Dio, ma decaduti e precipitati dal Cielo in seguito alla loro rivolta contro il Creatore, il diavolo e i suoi demoni erano stati precipitati nei recessi inferiori dell'atmosfera. Di là si perseguitano gli uomini - spiega san Leone Magno - rivendicando su di loro un diritto di dominazione dal momento che, per il peccato originale, la specie umana era passata ai demoni, abbandonando il culto del Dio vivente. I demoni erano i responsabili diretti del male del mondo: erano loro a danneggiare la vita psichica e mentale dell'uomo, a provocare i cristiani sulla faccia della Terra e nell' Aria e a spingere gli uomini verso gli eccessi e il disordine. Spesso identificati dai cristiani con gli dèi pagani, i demoni sostengono una lotta incessante contro gli uomini in generale e i cristiani in particolare.

Sono stati vinti da Cristo, ma è stato loro concesso il potere di sottoporre i fedeli alla tentazione perché i cristiani ne siano purificati. Contro i demoni, i martiri si sono battuti e hanno vinto; contro i demoni gli anacoreti combatteranno; contro i demoni, la Chiesa dispiega la panoplia dei suoi sacramenti e delle sue benedizioni. Anche l'antichità profana aveva cercato di difendersi dagli spiriti malvagi. La polis, la città ben ordinata, sembrava offrire un baluardo contro le potenze devastatrici che gravitavano nell'Aria o che potevano sorgere dalle profondità dell'Abisso. Contro il disordine, l'ordine; contro l'anarchia, la gerarchia; contro l'imprevedibile, il razionale. Gli spiriti malvagi scacciati dai luoghi dei vivi sceglievano sempre di stabilirsi nel deserto. Il deserto era tutto lo spazio dove la città non aveva esteso il suo ordine razionale, o dove non esisteva la solidarietà umana. E in particolare le tombe dove, col favore delle tenebre, gli spiriti dell'Aria finivano per confondersi con i demoni degli Inferi.

 

Il Cielo astrale e gli angeli

La risposta cristiana alla potenza demoniaca era stata la credenza negli angeli. Apparsa tardivamente nella Bibbia, l'angelologia sembrava aver avuto la funzione di salvaguardare la trascendenza assoluta di Dio, rendendo tuttavia possibile la sua comunicazione con gli uomini. Sarebbe stato dunque un angelo ad apparire a Mosè nel roveto ardente (Atti apostoli, VII, 30-35) e a parlargli sul Sinai (Atti apostoli, VII, 38; e C. Atti, 111, 19). Fedeli ministri del Signore, di cui celebrano la liturgia celeste, essi sono anche i compagni degli uomini nella lotta contro i demoni. Sant'Ilario afferma: «Tutto ciò che sembra vuoto è pieno degli angeli di Dio e non c'è niente che non sia pervaso dal flusso del loro ministero». Nessuno, dunque, è abbandonato al suo destino: gli angeli più elevati nella gerarchia celeste, «quelli che stanno incessantemente alla presenza del Padre mio che è nei cieli» (Matteo, XVIII, 10), vegliano sui più piccoli. Preposti da Dio al governo dell'Universo, essi abitano il Cielo.

Il loro compito è di impedire il trionfo di Satana e dei suoi demoni, di condurre i popoli (ciascuno ha il suo) al culto del vero Dio e dunque di combattere l'idolatria. Gli uomini, in particolare i cristiani, non si sentono soli: per ognuno esiste un angelo incaricato da Dio di aiutarlo e di sostenerlo nella lotta contro il potere dei demoni. (angelo custode)

«Dopo che la nostra natura cadde nel peccato, la nostra caduta non fu lasciata da Dio senza soccorso, ma un angelo, tra gli esseri di natura incorporea, fu scelto per assistere la vita di ciascuno. Il corruttore della nostra natura, da parte sua, escogitò un intervento contrario per mezzo di un angelo malvagio e malfattore, al fine di nuocere alla nostra natura umana.

Dipende dall'uomo, che si trova in mezzo ai due, di far trionfare l'uno o l'altro» (Gregorio di Nissa). Questa lotta termina al momento della morte. Allora lo scontro tra l'angelo e il demone diventa drammatico. Le funzioni dell'angelo custode, in questo momento terribile, sono molteplici: difendere, senza dubbio il morente contro gli ultimi assalti del demone, ma anche lenire le sue sofferenze, accogliere l'anima che si separa dal corpo, farle da guida attraverso l'atmosfera e difenderla dai demoni che l'abitano, presentarla infine alle porte del Cielo. «Eterno Dio, verso cui mi sono slanciata dal seno di mia madre (prega santa Macrina sul letto di morte), poni accanto a me un angelo luminoso che mi porti per mano al luogo del refrigerio.

Che l'Abisso spaventoso non mi separi dai tuoi eletti! Che l'Invidioso non mi si pari davanti nel cammino ! ». Mentre Agostino poneva correttamente, nei termini della cosmologia classica, il problema dei miracoli dei martiri e si dichiarava incapace di risolverlo, Paolino di Nola vedeva i contadini degli Abruzzi, del Lazio, della Campania, delle Puglie e della Calabria accorrere in festa al santuario del suo caro Felice a Nola. E i miracoli si moltiplicavano sotto i suoi occhi. Ad Antiochia, Giovanni Crisostomo predicava in un cimitero, dove aveva raccolto i fedeli presso le tombe dei martiri, dopo una notte di veglia alla luce delle torce. E constatava che la città si era quasi svuotata: «lo schiavo non si è trattenuto per paura del padrone, né il povero per la sua miseria, né il vecchio per la sua debolezza, né la donna per la fragilità del suo sesso, né il ricco per la sua opulenza, né il magistrato per il suo potere. l'amore dei martiri ha cancellato ogni difficoltà ».

L'unico timore espresso dall'oratore era che, una volta congedati, i partecipanti nel rientrare a casa, si fermassero nelle taverne per concludere la festa in un modo non degno dei cristiani e dei martiri (Discorso sui martiri, PG, 50, 665).

All'altro capo del mondo romano, a Calahorra in Spagna, il poeta Prudenzio esagera forse un poco quando descrive la folla dei pellegrini indigeni e stranieri che si recano alle tombe dei martiri Emeterio e Chelidonio, «patroni dell'universo», ma ha il merito di dirci ciò che spinge le masse cristiane verso i corpi santi. Qui nessuno, se ha chiesto una grazia, ha speso giammai invano le sue innocenti preghiere; da qui il supplice torna gioioso, con le lacrime asciugate, perché sente che tutto ciò che di giusto ha domandato gli è stato accordato. Provenienti dalla stessa fonte, doni generosi scendono sulla terra e riversano sulle pene dei supplici i rimedi desiderati: mai il Cristo, nella sua bontà, ha rifiutato qualcosa ai suoi testimoni» (Péristephanon [Delle corone], I, 13-20). Esaminando queste citazioni testuali, scopriamo che sono tutte posteriori al 363, alla morte di Giuliano l'Apostata, che si era accanito particolarmente contro il culto dei santi e delle loro tombe. Non disponiamo di elementi per affermare che l'azione provocatrice di Giuliano fosse all'origine di una reazione cristiana che accentuò il culto dei martiri.

Si può soltanto constatare che con la pace seguita alla morte di Giuliano, il culto dei martiri non solamente si sviluppò - cosa del tutto normale - ma assunse una nuova valenza: dall' esaltazione della figura del martire trionfante in cielo, si passa alla credenza nella presenza del martire nella sua tomba e perfino nel più piccolo frammento delle sue reliquie. I miracoli e, più in generale, le grazie che i pellegrini degli Abruzzi, di Antiochia o di Calahorra si aspettavano di ricevere presso la tomba dei martiri, erano la prova di questa presenza, reale benché invisibile. Il nuovo sviluppo del culto dei martiri mutò profondamente i termini della cosmologia tradizionale: soppresse l'incomunicabilità tra le diverse parti del cosmo e in particolare tra il Cielo e la Terra. Tra i due poli dell'universo poteva esistere una relazione. Questo contatto, per giunta, non era rinviato in un avvenire più o meno lontano quando un mondo nuovo sarebbe sorto dalle ceneri di questo mondo; il contatto si realizzava già nei luoghi precisi dove riposavano i resti di morti «molto speciali»: le tombe dei martiri. Ma i martiri dormivano?

È difficile dirlo. Essi vivevano una vita ancora più ricca, perché i loro resti, collegati all'anima divinizzata del martire, partecipavano già dei poteri dei corpi risorti. Hic conditus est sanctae memoriae Martinus episcopus cuius anima in manu dei est, sed hic totus est praesens manifestus omni gratia virtutum. (Qui riposa il vescovo Martino, di santa memoria, la cui anima è nelle mani di Dio, ma egli è qui tutto intero, presente, manifestato da miracoli di ogni sorta). Per l'anonimo autore di questa iscrizione, non c'era nessuna contraddizione tra la presenza dell'anima del santo nelle mani di Dio e la sua presenza «totale» nella tomba: la tomba stessa non è altro che una porta del Cielo su questo luogo determinato. L'unione era in questo modo stabilita: l'inaccessibile era divenuto accessibile, la distanza infinita tra l'Alto e il Basso era annullata. Prudenzio (Péristephanon, Il, 551-552) esprime esattamente la stessa idea parlando della tomba di san Lorenzo a Roma: Est aula nam duplex tibi, Hic corporis, mentis polo (Tu abiti due palazzi, qui col tuo corpo, nel cielo con la tua anima).

Alcune tombe si trasformavano così da luoghi orribili a luoghi luminosi: indicavano il punto preciso da dove era stato lanciato il ponte verso l'infinito; collegavano il tempo e l'eterno, la vita dei beati e la vita dei mortali. E questa unione trasmetteva una potenza che si manifestava nei miracoli, conseguenza e segno della presenza del santo nella sua tomba. I termini della cosmologia tradizionale erano definitivamente sovvertiti: verso il basso, le tombe non si aprivano più sull'abisso esangue o tormentato; verso l'alto, erano come specchi che captavano il Cielo e lo avvicinavano al mondo dei viventi; nell'Aria, si poteva ormai contare sui martiri che affiancavano gli angeli e affrontavano con loro la lotta contro i demoni. La Terra - questa «regione tenebrosa» - era diventata, grazie ai martiri, molto meno oscura.

 

I LOCA SANCTORUM

«La vera patria del santo non è quella dove egli ha visto la luce del giorno; è il suolo che ha lasciato per entrare nella gloria. San Pietro e san Paolo appartengono per nascita uno alla Galilea e l'altro alla Cilicia. Grazie al loro martirio e per le loro tombe, sono divenuti cittadini di Roma, come afferma decisamente il papa Damaso nella famosa iscrizione hic habitasse prius (qui hanno abitato dal principio). La città del santo è dunque quella che egli ha scelto nel lasciare le spoglie mortali; è l'angolo di terra dove gli sono resi i primi onori» (H. Delehaye, Analecta bollandiana, 48, 1930, p. 5).

Come Pietro e Paolo a Roma, così Cipriano a Cartagine (Monica), Saturnino a Tolosa, Gennaro a Napoli, Giorgio a Lydda, Policarpo a Smirne ... ogni martire ha la sua casa là dove si trova la sua tomba. Le basiliche, che si era iniziato ad edificare all'indomani della pace costantiniana, si moltiplicano e soprattutto si arricchiscono di decorazioni scintillanti sì da assomigliare il più possibile alla dimora celeste che accoglie l'anima del martire. «Ora la tua tomba è a Merida (è Prudenzio che descrive la 'casa' di sant'Eulalia).

È laggiù, dentro un tempio augusto, tutto illuminato dal fulgore dei marmi stranieri e dei marmi del paese che una terra venerabile conserva nel suo seno queste reliquie, queste ceneri sacre. Al di sotto, il soffitto brillante risplende dei suoi stucchi dorati; dei mosaici ornano il pavimento con i loro vari colori; si crederebbe che fiori di molte specie rosseggino come se fossero cosparsi di rose» (Péristephanon, 111, v. 186-200). A Nola, san Paolino investì ciò che restava del suo immenso patrimonio nella costruzione di cinque basiliche che circondavano la tomba di san Felice. Lui stesso ne ha lasciato la descrizione in una lettera a Sulpicio Severo (PL 61, 330-343). Insieme agli edifici destinati ad accogliere i pellegrini, Paolino finì per costruire una città «cimiteriale» (l'attuale Cimitile), nei dintorni del perimetro urbano, che divenne così una delle città sante dell'Occidente cristiano. Roma conserva certamente il primato nel mondo grazie alle tombe degli apostoli: Quae prius imperio tantum et victricibus armis Nunc et apostolicis terrarum est prima sepulcris (Una volta era la prima nel mondo per il governo e per i suoi eserciti vittoriosi, adesso lo è ancora grazie alle tombe degli apostoli) (Paolino, XIII, 29-30). E a Roma non ci sono soltanto le tombe degli apostoli: «Innumerevoli sono le ceneri dei santi che abbiamo visto nella città di Romolo.

Tu vorresti conoscere le iscrizioni incise sulle tombe, il nome di ogni defunto: mi è difficile scorrerne la lista, tanto vasta è la folla dei Giusti». E il pellegrino spagnolo si limita alla descrizione della basilica e della cripta di sant'Ippolito: «La piccola cappella, dove riposano le spoglie della sua anima, risplende dei riflessi dell'argento massiccio. Una mano ricca ha fissato, sul davanti, alcune targhe la cui liscia superficie, di una bianchezza scintillante, riluce come concavo di uno specchio.

Non contento di rivestire l'ingresso con pietre di Paros, ha aggiunto, per abbellire l'opera, brillanti ricchezze» (Ibid., XI, v. 183-189). Il 19 aprile del 384, un'altra pellegrina spagnola, la famosa Egeria, giunse ad Edessa (l'attuale Urfa, in Irak): «Appena arrivati, ci siamo recati prima di tutto alla Chiesa e al luogo del martirio di san Tommaso. Secondo la nostra abitudine abbiamo pregato come siamo soliti fare in tutti i luoghi santi; abbiamo letto anche qualche testo di san Tommaso. La chiesa che vi si trova è immensa e molto bella, rinnovata da poco al punto che essa è veramente degna di essere la casa di Dio» (Egeria, Diario di viaggio, trad. it. C. Zoppo la, Paoline, Roma, 1979). Umili oppure fastose, le basiliche elevate sulle tombe dei martiri moltiplicano su tutta la superficie dell'lmpero i punti di contatto tra il Cielo e la Terra. Creano così una rete rassicurante per gli uomini della tarda antichità e dell'alto Medioevo, «avvolti com'erano in un grande nugolo di martiri» (Lettera agli Ebrei, XII, 1). Ogni città che aveva la fortuna di possedere una tomba sacra si sentiva protetta come purificata «dal sangue immolato dei martiri che hanno scacciato la razza invidiosa dei demoni e dissolto le loro oscure tenebre» (Prudenzio).

All'altro capo del mondo romano, il grande Basilio non la pensava diversamente quando paragonava le reliquie dei Quaranta Martiri di Sebaste a delle torri possenti, ad una muraglia di corpi santi che proteggono la città. Se le tombe dei martiri erano numerose, la loro distribuzione era invece molto diseguale. In confronto alle grandi concentrazioni di corpi santi che riposavano a Roma, in Africa, in Cappadocia o in Siria, altre regioni dell'lmpero erano meno favorite. Una volta stabilita la credenza nella funzione insostituibile delle reliquie dei santi, ne venne come conseguenza che bisognava dotarne il paese che ne era sprovvisto. Il primo mezzo al quale si ricorse fu la traslazione.

 

Le traslazioni

La legge romana, condannando come sacrilegio l'apertura di un tomba, avrebbe potuto rappresentare un ostacolo desiderio di spostare i corpi dei martiri. Gli agiografi moderni lamentano, a ragione, che questa legge sia stata poco osservata: se i corpi santi fossero rimasti intatti nelle loro tombe, non faticheremmo tanto oggi a stabilire la storia del culto o, talvolta, la stessa storicità dei martiri, di fatto, la legge non aveva alcun peso fuori Roma, dove i papi si sforzavano caparbiamente di farla rispettare, respingendo tutte le richieste di reliquie, sia pure presentate all'imperatore in persona. Romanis consuetudo non est scriveva ancora nel 594 san Gregorio Magno all'imperatrice Costantina, che richiedeva la testa di san Paolo per la cappella Palatina di Costantinopoli, ut quicquam tantum praesumant de corpore: il costume romano fa divieto di toccare anche solo una particella di un cadavere (Istrum. IV, 30). La storia di san Saturnino, a Tolosa, dimostra come in alcune regioni dell'Occidente, ci si preoccupasse ancora di questa interdizione.

La prima cappella costruita sulla tomba del martire fu opera del vescovo Ilario. Silvio, suo successore, intraprese la costruzione di una basilica molto più spaziosa che fu terminata dal vescovo Esuperio, intorno al 410. La nuova basilica era situata a qualche distanza dalla tomba del martire, «non osando toccare le reliquie del santo». Quando san Saturnino stesso, in sogno, lo rassicurò, Esuperio presentò agli imperatori una domanda di traslazione perché i resti del martire fossero spostati nella nuova dimora, conformemente alle regole stabilite.

Ma bisogna riconoscere che il caso di Tolosa, all'inizio del V secolo, rappresenta un'eccezione. In Oriente, dove la pratica delle traslazioni era già iniziata e divenuta corrente, non ci si sarebbe fatti molti scrupoli. Il primo caso di traslazione di un corpo santo sembra essere stato quello di san Babila, il cui corpo fu trasferito dal cimitero, fuori Antiochia, al borgo di Dafne, tra il 351 e il 353. La spinta decisiva alle traslazioni fu data dagli imperatori, impazienti di onorare con le reliquie la nuova capitale dell'Impero. Costantino si era accontentato dei cenotafi, ma i suoi successori non lo imitarono. Abbiamo visto l'imperatrice Costantina domandare a san Gregorio Magno la testa dell'apostolo Paolo. Il papa, rifiutando di soddisfare la richiesta, propose di inviare dei brandea, frammenti di tessuto che avevano toccato i corpi santi. Queste « reliquie rappresentative» non piacevano agli orientali, presso i quali la divisione delle vere reliquie era un costume antico di due secoli.

Nella seconda metà del IV secolo, in effetti, san Gregorio di Nazianzio era già persuaso che «le gocce di sangue dei martiri e i più piccoli resti della loro passione avevano lo stesso potere dei corpi interi». Nello stesso periodo, questa credenza era largamente diffusa in Occidente. Sappiamo poco su san Vittricio, vescovo di Rouen.

Amico di Martino di Tours, di Ambrogio, di Paolino di Nola, di papa Innocenzo I, che gli inviò una lettera decretale nel 404, sfruttava le sue amicizie italiane per fornire di reliquie la sua chiesa. L'unico suo scritto pervenutoci - il Libro di lode dei santi (PL 20, 445-458) - sembra essere una rielaborazione del discorso che pronunciò ricevendo dalle mani di Eliano le reliquie inviategli dai suoi amici Ambrogio, Teodulo, Eustachio e Cario.

Sono reliquie dei santi Giovanni Battista, Tommaso, Luca, Eufemia, Gervasio, Anastasio e Agricola. Eccetto queste ultime che provengono dalla regione di Milano e Bologna, il gruppo più nutrito è di origine orientale. Il fatto si riscontra spesso in liste similari nei secoli IV e VI. San Gaudenzio di Brescia approfittò dei suoi viaggi in Oriente per riportare indietro una tale quantità di reliquie che la chiesa dove le collocò fu chiamata «l'assemblea dei santi». Questo andirivieni di ossa e di ceneri, le scene di gioia che provocava il loro arrivo, le processioni organizzate per riceverle non potevano che nauseare i pagani che vedevano sconvolte le loro credenze più sacrosante.

 

I MIRABILIA SANCTORUM

Il culto dei santi trova la sua espressione essenziale nella festa. Il luogo è quello dove la tomba, o almeno una reliquia, indica la presenza del martire. La data è l'anniversario della sepoltura (depositio), che nell'antichità coincideva praticamente con la morte. È per questo che comunemente questo giorno veniva detto dies natalis o natale, giorno della nascita. L'espressione non era tipicamente cristiana: i Greci e i Romani la utilizzavano poiché erano soliti onorare i morti nel giorno dell'anniversario della loro nascita. I cristiani se ne appropriarono dandole un diverso significato: il dies natalis che si celebrava era ormai quello della morte, perché proprio nel sacrificio della morte il martire era nato alla vera vita, la vita eterna.

I calendari più antichi delle Chiese locali, che contenevano l'elenco delle feste da celebrare, indicavano soltanto un giorno, un nome e un luogo. Era poco, ma era l'essenziale. "A Roma, per esempio, nel calendario del 336 si poteva leggere: «Prid. Id. Octobr. Calisti in via Aurelia, miliario 111». Ciò significava che la festa di san Callisto si celebrava sulla via Aurelia al terzo miglio, il 14 ottobre. A partire dal V secolo, quando si prese a raccogliere, in un solo martirologio, tutte le feste che si celebravano nelle varie Chiese, necessario indicare la città o la regione dove la festa aveva luogo. L'indicazione primitiva si arricchì di alcune notizie supplementari. Così, la stessa notizia nel Martirologio geronimiano (successivo al 431) diviene: «Pl. Id. Octob. Romae Via Aurelia in Cimiterio Calepodii Calisti episcopi» (14 ottobre, a Roma, sulla via Aurelia nel cimitero di Calepodio, [festa] di Callisto vescovo). Un po' più tardi, verrà aggiunto al nome del santo un breve riassunto della sua passione o della sua vita. La stessa notizia che si ritrova nel Martirologio di Beda il Venerabile (prima metà dell'VIII secolo), suona così: « 14 ottobre: Natale di san Callisto papa. Durante la persecuzione dell'imperatore Alessandro fu a lungo torturato dalla fame, in prigione e flagellato tutti i giorni. Una visione del suo caro prete Calepodio, che aveva subito prima di lui il martirio, gli infuse coraggio e lo consolò ... Il prete Asterio, preso il suo corpo, lo seppellì nel cimitero di Calepodio » (Lettera 107, trad. it. R. Palla, Rizzoli, Milano, 1989, p. 457). La festa era anche il tempo dei doni (munera).

Nell'antichità, chi si incaricava di organizzare le feste, il «patrono», era obbligato ad assumere a sue spese l'organizzazione dei giochi, dei festeggiamenti e la distribuzione straordinaria di viveri al popolo. I doni per il popolo, i munera, erano un obbligo per i patroni. Nella liturgia la Chiesa impiegava lo stesso termine per invocare i doni del martire. E i doni che invocava erano la partecipazione ai meriti e alla gloria del martire. Questa gloria, per la gente semplice, si manifestava soprattutto nella compassione che i martiri dimostravano venendo in aiuto alle miserie dei loro devoti. Agostino si è preoccupato di far redigere i resoconti dei miracoli di santo Stefano: il piccolo saggio contenuto nel libro XXII della Città di Dio costituisce la più antica raccolta di miracoli in Occidente. Dopo di lui il genere ebbe un successo straordinario. Alla fine del VI secolo, Gregorio di Tours nei suoi due libri - A gloria dei martiri e A gloria dei confessori - ci ha lasciato due raccolte di miracoli, dove interpreta fedelmente la sensibilità della gente semplice. L'importanza dei miracoli nello sviluppo del culto dei martiri è considerevole, come sottolinea Teodoreto di Ciro, nel libro VIII, 62-65, della sua Terapeutica delle malattie ellenistiche: «I santuari dei nostri gloriosi martiri sono splendidi, attirano gli sguardi di tutti, sono imponenti per la loro grandezza, decorati con ricchezza e splendore. E noi non vi andiamo che una o due volte, neppure cinque volte all'anno: ma spesso vi celebriamo dei panegirici e offriamo tutti i giorni i nostri canti ai Maestri martiri. Le persone che stanno bene chiedono di mantenere la salute e quelli che lottano con qualche malattia, di essere sollevati dalle loro sofferenze.

Gli sposi che non hanno bambini ne domandano, le donne sterili pregano per diventare madri, mentre coloro che hanno ricevuto questo dono chiedono che sia loro perfettamente conservato. I viaggiatori in partenza per luoghi lontani supplicano i martiri di accompagnarli e di guidarli per la via; quelli che hanno la fortuna di ritornare recano il segno della loro riconoscenza. No, non ricorrono ad essi come a degli dèi, ma li invocano come uomini di Dio e li pregano di essere i loro ambasciatori.

Ora, quelli che li supplicano con fede ottengono ciò che domandano». Nulla di nuovo sotto il sole potremmo aggiungere, sentendo queste testimonianze: insopprimibile è il desiderio dell’uomo di trovare una risposta al senso della propria vita e a quell’incontro con l’eternità che lo aspetta. Aveva ragione Agostino: possiamo concludere con le sue parole: Venerare i santi è bene, invocarli è ancora meglio, sforzarsi di imitarli è certamente l'ottimo.