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REGOLA: La Questione Storica

Arles: chiostro e campanile di St. Trophime

Chiostro di St. Trophime ad Arles

 

LA REGOLA: QUESTIONE STORICA

di p. Agostino Trapé

 

 

 

 

PREMESSA

 

Intorno alla questione storica della Regola agostiniana s'è scritto molto in questi ultimi anni [1]. Supponendo che il lettore di queste pagine ne sia pressoché digiuno, ne darò qui, per aiutarlo a farsene un'opinione ragionata, un breve prospetto corredato degli argomenti relativi. Prima di tutto occorre dire che esiste una questione della Regola di S. Agostino. Non fa meraviglia: esistono questioni simili per tanti documenti antichi, anche di uso frequentissimo, anzi di uso quotidiano. Per esempio, esiste una questione della Regola di S. Benedetto, esiste una questione dell'Imitazione di Cristo, esiste persino una questione dell'Ave Maria, della cui seconda parte non si sa con certezza chi sia stato l'autore. Accettiamo dunque il fatto e vediamo in che cosa la questione consista e quali siano gli argomenti che la critica mette in campo per risolverla. Anzitutto bisogna evitare equivoci nell'impostazione stessa della questione. Bisogna cioè distinguere tre aspetti diversi o, se si vuole, tre questioni diverse: - l'autenticità della Regola, - i primi destinatari della medesima, - la data di composizione. Il grado di certezza raggiunto dalla critica in ciascuna di queste tre questioni è molto diverso. Nella prima c'è, e c'è stata sempre, in sostanza, unanimità di consensi, tanto gli argomenti sono validi. Nella seconda i pareri sono stati diversi, ma oggi la preponderanza è decisamente a favore della priorità della Regola diretta ai monaci. Nella terza i pareri sono più discordi e una precisazione è più difficile.

 

 

L'ITINERARIO

 

Prima di parlare dell'autenticità della Regola è forse utile dare un rapido sguardo all'itinerario verso l'ideale monastico percorso da S. Agostino. Fu un itinerario spirituale che può essere indicato con i nomi del suo itinerario geografico, cioè: Cartagine, Milano, Roma, Tagaste, Ippona. Infatti, a Cartagine scoperse in sé quelli che possiamo chiamare i primi germi della vocazione; a Milano lesse il consiglio di S. Paolo e si propose di seguirlo; a Roma, pochi mesi dopo il battesimo, studiò lungamente l'organizzazione monastica; a Tagaste, durante tre anni, fece i primi esperimenti nella via del monachesimo; a Ippona attuò definitivamente il suo proposito fondando il monastero dei laici e creando poi, divenuto vescovo, quello dei chierici. Giova seguire, parallelamente, i due itinerari, prendendo occasione dal secondo per illustrare il primo. Cominciamo da Cartagine.

 

1. Cartagine

Ci riferiamo alla prima dimora nella metropoli africana. Agostino vi giunse nel 371, a 17 anni. A 19 scoperse in sé qualcosa di grande; qualcosa che non era, certo, la vocazione religiosa; ma che era, senza dubbio, un germe inconsapevole, una preparazione, una spinta verso quella meta. In realtà egli scoperse allora la vocazione dell'uomo, che è quella di amare e possedere la sapienza, cioè Dio. La scoperse nel bisogno d'immortalità, di libertà, di infinito che proruppe, improvvisamente, nel suo animo e che soggiogò, da quel momento, i suoi pensieri. Egli non conosceva, allora, i consigli evangelici, né v'era intorno a lui chi potesse offrirgliene l'esempio; ma quando, più tardi, li conobbe, capì che la via proposta da Cristo e seguita dai più generosi dei suoi discepoli era proprio quella che permetteva di giungere con rapidità e pienezza, come egli desiderava, alla sapienza. I fatti sono noti.

Agostino frequentava da due anni il corso di retorica, quando ebbe tra le mani, come testo scolastico, l'Ortensio di Cicerone. Nel leggerlo, non si fermò, a somiglianza di molti coetanei, alle belle parole, ma penetrò nel fondo del pensiero; e ne fu sconvolto. Quel libro conteneva una vibrante esortazione alla ricerca della sapienza, che è la sola immortale, e che sola è degna di essere amata e cercata. Quella esortazione cadde in un terreno straordinariamente fertile. Il figlio di Patrizio e di Monica, anche se lo ignorava, aveva sortito da natura un animo nobilissimo e immensamente profondo. L'Ortensio gli servì per scoprirlo. Mai fino allora aveva spinto lo sguardo nel suo mondo interiore, mai aveva pensato a quella forza profonda che lega l'animo umano all'eterno, alle realtà immutabili, a Dio. Pago dei successi scolastici, della carriera forense che gli si profilava davanti rosea e promettente, e dell'amore di una donna con cui conviveva ormai da un anno, si sentiva tranquillo e non cercava altro. L'Ortensio ruppe questo incanto e, prospettando realtà fino allora impensate, fece scoppiare la scintilla che suscitò l'incendio e creò l'inquietudine, la tensione, la ricerca. Nacque da quel momento il pensatore, che diverrà più tardi il contemplativo e l'asceta. "Quel libro - scriveva nelle Confessioni alla distanza di 25 anni -, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire, mutò le preghiere stesse che rivolgevo a te, Signore, suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri, svilì d'un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore. Così cominciavo ad alzarmi per tornare a te" [2].

Cominciava ad alzarsi. Era solo l'inizio. La meta era ancora lontana e il cammino lungo, faticoso, tortuoso. Le speranze terrene che prima di allora lo avevano dominato erano tre: le ricchezze, gli onori, la donna. Le abbandonò una dopo l'altra per cercare e per possedere solo la sapienza; ma le abbandonò in tempi e in modi diversi. Dalla prima si staccò subito. "Desideri le ricchezze?" si domanda nei Soliloqui. E si dà questa risposta: "No, e da tempo. Difatti ora io ho trentatre anni e sono decorsi già quattordici anni dacché ho cessato di desiderarle. E da esse non ho richiesto altro, se eventualmente furono disponibili, che il vitto necessario e l'onesta utilità. Bastò un solo libro di Cicerone a persuadermi che le ricchezze non si devono in alcuna maniera desiderare" [3]. Le altre speranze avevano radici più profonde, soprattutto l'ultima: la loro rinuncia ebbe una storia più lunga, che vale la pena di riassumere. Letto l'Ortensio e deciso ormai di trovare ad ogni costo la sapienza, Agostino si dedicò avidamente alla lettura della Bibbia.

Ma il gusto letterario abituato alla maestà della lingua ciceroniana e l'orgoglio giovanile, animato da un germe di razionalismo, che desiderava di raggiungere la sapienza senza l'aiuto della fede, lo tradirono. S'incontrò infatti con la semplicità disadorna del linguaggio biblico, che era anche, qua e là, nel testo che aveva tra le mani, sgrammaticato e s'incontrò, soprattutto, con il contenuto delle Scritture spesso oscuro e misterioso o anche, non di rado, apparentemente contraddittorio. Avrebbe potuto e dovuto superare queste difficoltà chiedendo aiuto almeno per la seconda di esse - la prima doveva accorgersi da sé che non era poi tanto grave - a qualche persona esperta della Chiesa.

La Chiesa di Cartagine non doveva averne molte, allora, di persone esperte, lacerata com'era dallo scisma donatista e giacente quasi in uno stato di squallore e di depressione; ma qualcuna non ne sarà mancata di certo, per esempio quel tale Elpidio di cui parla Agostino stesso nelle Confessioni [4]. Ma il giovane studente preferì un'altra via: la ribellione. In questo sentimento lo confermarono i manichei con la loro abile propaganda, diretta a screditare la Chiesa cattolica e a dimostrare le contraddizioni della Sacra Scrittura. Essi invece, i manichei - questi i temi della loro propaganda -, aderivano a Cristo, ma ricusavano il Vecchio Testamento; insegnavano la sapienza, ma non accettavano la necessità di cominciare dalla fede; affermavano che tutto era materia, anche Dio, ma negavano che Dio avesse un corpo umano; professavano un rigido moralismo, ma non riconoscevano la responsabilità del peccato.

Tutto questo fece un'impressione enorme nel giovane Agostino e valse a convincerlo che i manichei erano in grado di offrirgli ciò che andava cercando. Tanto più che la "chiesa" manichea presentava una solida organizzazione e un aspetto esteriore di floridezza spirituale. I fedeli erano divisi in due categorie: uditori ed eletti. I primi erano i seguaci ordinati, i secondi erano i manichei perfetti, cioè impegnati nell'osservanza integrale del Vangelo, il consiglio della verginità incluso. S. Agostino ammirò soprattutto questi ultimi, i quali "Offrivano - come scrive egli stesso - l'immagine di una vita casta e di una memorabile continenza" [5]. Solo più tardi si accorse di quanto era falsa la loro continenza. Se, nonostante questa ammirazione per gli eletti, non ne imitò l'esempio, preferendo di restare nel grado dei semplici uditori, non si deve a mancanza di generosità o di coraggio, ma a mancanza di certezza.

Può destar meraviglia quanto stiamo scrivendo; ma risponde pienamente alla testimonianza che Agostino dà di se stesso. Scrive nel De utilitate credendi: "Che cosa mi tratteneva dall'aderire completamente a loro (i manichei), tanto che me ne restavo nel grado degli uditori, come lo chiamano, e non abbandonavo la speranza e gli affari del mondo (come facevano gli eletti), se non che mi accorgevo che erano eloquenti e insistenti nel confutare le posizioni degli altri, ma non altrettanto fermi e sicuri nel provare le proprie?" [6]. Queste parole sono rivelatrici, e nessuno può ignorarne la portata. Esse significano che S. Agostino sentiva fin d'allora, a 19 anni, l'anelito alla perfezione, sentiva l'esigenza di spezzare certi vincoli, di abbandonare certe speranze per cercare liberamente la sapienza e possederla pienamente. In altre parole, al suo spirito s'imponeva fin d'allora la rinuncia, in vista dell'acquisto della sapienza, a ciò che particolarmente ci lega alla terra: le ricchezze, gli onori e, soprattutto, il matrimonio. Se allora non si accorse di quanto fossero ardue e difficili queste rinunce, se non seppe che senza uno speciale dono di Dio non si possono compiere, si deve al fatto che un altro problema, un problema più radicale, occupava la sua mente e tutto il suo animo: il problema della verità, che non aveva ancora trovato.

Aveva infatti aderito al manicheismo, ma la sua era un'adesione con riserva: era la posizione propria di chi non è certo, ma attende con fiducia, attende che gli venga mostrato ciò che gli è stato promesso. "Non davo il mio assenso, ma supponevo che sotto l'involucro di arcane dottrine intendessero celare qualcosa di grande, che mi avrebbero svelato in seguito" [7]. È ovvio che con questo atteggiamento di sospensione non è possibile accettare sacrifici per un ideale. S. Agostino dunque, pur ammirando gli eletti manichei - non li conosceva ancora -, non ne imitò l'esempio. E portava a se stesso, come ragione, la mancanza di una luce sicura che orientasse il suo cammino; ma più tardi, precisamente a Milano, si accorgerà, a sue spese, che non basta avere questa luce per essere in grado di fare quelle rinunce [8].

 

2. Milano

A Milano l'esigenza di abbandonare ogni speranza terrena per consacrarsi senza remore alla sapienza risorse imperiosamente; ma ormai in un altro contesto, il contesto della certezza raggiunta, che la rese, perciò, drammatica e vittoriosa. Erano passati circa 13 anni dall'incontro con l'Ortensio, e, poi, con i manichei. Agostino da Cartagine era tornato a Tagaste, da Tagaste di nuovo a Cartagine, non più studente ma professore di retorica, da Cartagine a Roma, da Roma a Milano. Una carriera brillantissima. Non altrettanto brillante l'itinerario interiore. Maturò, si, l'esperienza manichea, terminata, com'è noto, in una amara delusione con l'incontro di Fausto a Cartagine e la convivenza in un circolo di eletti a Roma; ma la morsa soffocante del materialismo non s'allentava e la tentazione del dubbio e la disperazione di raggiungere la verità bussarono più volte alla porta. Fortunatamente la valida mano della grazia lo rialzò da questo fondo oscuro, riportandolo alla luce della speranza. Intuì che la fede non era un ostacolo, ma un mezzo necessario per raggiungere la sapienza; si convinse, per effetto della predicazione di Ambrogio, che le accuse dei manichei contro la Chiesa erano false; scoprì la natura intellettuale, e perciò spirituale, della sapienza; riconobbe in Gesù Cristo non solo il Maestro degli uomini, ma anche il loro Salvatore. Con ciò la certezza teoretica era raggiunta: ormai vedeva la meta e conosceva la via; via e meta che avevano uno stesso nome: Gesù Cristo. Nel passato la mancanza di questa certezza, come abbiamo già detto, era stata una ragione (o una scusa) per non fare il passo decisivo. Ora questa ragione (o questa scusa) non c'erano più: occorreva decidere o dichiararsi vinti. "Non potevo più invocare - scrive il Santo - la scusa di un tempo, quando solevo persuadermi che se ancora mancavo di spregiare il mondo e servire te, era colpa dell'incerta percezione che avevo della verità. Ormai anche la verità era certa" [9].

A questo punto cominciava per Agostino un altro dramma; un dramma affettivo, non meno lacerante e tempestoso di quello intellettuale che aveva sofferto per tanti anni. Si trattava cioè di strappare dal cuore un amore che la natura e l'abitudine vi avevano profondamente radicato; strapparlo - diciamo - in nome di un amore più grande e più bello che era anch'esso radicato non meno profondamente nel cuore. E non ci riferiamo all'amore del danaro, che da molto tempo non costituiva più un ostacolo, né all'amore della carriera che era diventata ormai un peso; ma all'amore della donna. " ... mi disgustava la mia vita nel mondo. Era divenuta un grave fardello per me, ora che non mi stimolavano più a sopportare un giogo così duro le passioni di un tempo, l'attesa degli onori e del denaro. Ormai tutto ciò mi attraeva meno della tua dolcezza e della bellezza della tua casa, che ho amato [10].

Ma ero stretto ancora da un legame tenace, la donna" [11]. Per giustificare questo legame da cui non sapeva liberarsi, Agostino tentava di convincere se stesso e l'amico Alipio che il matrimonio non era, poi, un impedimento all'amore della sapienza e al culto dell'amicizia; non mancavano, diceva, esempi di uomini sposati che avevano amato la sapienza e coltivato l'amicizia. Alipio sosteneva il contrario, ripetendo che non avrebbero potuto assolutamente "vivere insieme e indisturbati nel culto della sapienza" come da tempo desideravano, se egli, Agostino, avesse preso moglie [12].

Ma alla fine era sempre Agostino ad avere la meglio. Alipio, che mai aveva desiderato di sposarsi e che viveva in un'ammirabile castità, cominciò a prendere in considerazione il matrimonio "non tanto per lusinga del piacere, quanto per quella della curiosità. Era curioso, diceva, di conoscere il bene, senza del quale la mia vita, a lui accetta così com'era, a me non sembrerebbe più una vita, ma un tormento. Il suo animo, libero dal legame, si meravigliava della mia schiavitù, e la meraviglia lo stuzzicava a farne esperienza" [13].

Ma un tentativo di vita in comune progettato e organizzato tra una decina di amici, desiderosi di "vivere in pace lontano dalla folla", diede ragione ad Alipio: fallì miseramente a causa delle "donnicciuole" che alcuni avevano già in casa ed altri desideravano prendere [14]. Intanto la meditazione della Scrittura, a cui si era dedicato di nuovo, mise Agostino in contatto con l'invito di Gesù alla castità volontaria per amore del regno dei cieli, e con il consiglio dell'Apostolo, che confermava quell'invito e vi aggiungeva, come stimolo ad accettarlo, il suo stesso esempio. Le parole della Scrittura scesero nell'animo come carboni ardenti e vi inflissero una tale scottatura da togliere ad Agostino ogni possibilità di pace. Non erano più, queste, le parole dell'umana filosofia, ma le parole divine del Maestro e Salvatore degli uomini; parole troppo contrarie alle sue abitudini, eppure terribilmente conformi alle sue aspirazioni. Le "due volontà", quella spirituale, che voleva rompere ogni legame per volare all'amplesso della sapienza, e quella carnale, che s'indugiava sulle vecchie abitudini e tentava di giustificarle, entrarono in collisione violenta: "... ero ben sicuro che fosse meglio consacrarmi al tuo amore, che cedere alla mia passione; ma se l'uno mi piaceva e vinceva, l'altro mi attraeva e avvinceva ... dovunque facevi brillare ai miei occhi la verità delle tue parole, ma io, convinto della loro verità, non sapevo affatto cosa rispondere, se non, al più, qualche frase lenta e sonnolenta: 'Tra breve", "Ecco, fra breve", "Attendi un pochino". Però quei "breve" e "breve" non avevano breve durata, e quell'attendi un "pochino" andava per le lunghe" [15].

Il sopravvento della volontà nuova, quella spirituale, sull'altra avvenne dopo alcune settimane di ansia crescente, quando alla dottrina del Vangelo si aggiunse l'esempio della Chiesa; cioè di coloro, nella Chiesa, che rinunciavano al matrimonio per amore del regno dei cieli. Il monachesimo era molto diffuso in Egitto ad opera soprattutto di Antonio e si andava diffondendo in Italia e nelle Gallie: anche a Milano, sotto la guida di Ambrogio, esisteva un monastero. Tutto questo Agostino l'ignorava. Lo seppe per caso, un giorno, dal racconto di Ponticiano, suo corregionale.

Questi non solo gli narrò la vita meravigliosa di Antonio e della moltitudine dei monaci che ne seguivano l'esempio, non solo lo informò sull'esistenza del monastero di Milano, ma gli espose anche un caso straordinario occorso a lui stesso a Treviri, quello di due soldati, i quali, avendo trovato e letto la vita di Antonio, decisero improvvisamente di rinunciare al matrimonio - erano già fidanzati - e di consacrarsi al servizio di Dio [16].

Dopo il racconto di Ponticiano la scena del giardino, che costituisce, com'è noto, la soluzione del dramma agostiniano: forse il più profondo e il più doloroso che un uomo abbia mai vissuto per rinunciare al matrimonio e seguire la vocazione alla perfetta continenza. Il lettore vorrà rileggere quella scena per suo conto [17]. Noi rinunciamo a riassumerla per timore di sciuparla. Ne riportiamo solo la conclusione: "Immediatamente ci rechiamo da mia madre e le riveliamo la decisione presa: ne gioisce; le raccontiamo lo svolgimento dei fatti: esulta e trionfa. E cominciò a benedirti perché puoi fare più di quanto chiediamo e comprendiamo [18]. Vedeva che le avevi concesso a mio riguardo molto di più di quanto ti aveva chiesto con tutti i suoi gemiti e le sue lacrime pietose. Infatti mi rivolgesti a te così appieno, che non cercavo più moglie né avanzamenti in questo secolo, stando ritto ormai su quel regolo della fede, ove mi avevi mostrato a lei tanti anni prima nel corso di una rivelazione" [19].

 

3. Roma

Dopo la conversione il ritiro a Cassiciaco, il ritorno a Milano, il battesimo. Dopo il battesimo la deliberazione sul luogo dove la piccola comitiva avrebbe potuto vivere meglio insieme nel santo proposito, e la decisione di tornare in Africa. "Tu che fai abitare in una casa i cuori unanimi [20], associasti alla nostra comitiva anche Evodio, un giovane nativo del nostro stesso municipio. Agente nell'amministrazione imperiale, si era rivolto a te prima di noi, aveva ricevuto il battesimo e quindi abbandonato il servizio del secolo per porsi al tuo. Stavamo sempre insieme e avevamo fatto il santo proposito di abitare insieme anche per l'avvenire. In cerca anzi di un luogo ove meglio operare servendoti, prendemmo congiuntamente la via del ritorno verso l'Africa" [21]. Ad Ostia Tiberina Monica morì. Prima del trapasso, pregustata in un'estasi dolcissima la felicità dei Santi nel cielo, dichiarò compiuta ormai la sua missione sulla terra ed espresse la gioia di vedere il suo Agostino non solo convertito alla fede cattolica, ma, disprezzata ogni felicità terrena, "servo di Dio". "Le mie speranze sulla terra sono ormai esaurite. Una sola cosa c'era, che mi faceva desiderare di rimanere quaggiù ancora un poco: il vederti cristiano cattolico prima di morire. Il mio Dio mi ha soddisfatta ampiamente, poiché ti vedo addirittura disprezzare la felicità terrena per servire lui. Cosa faccio qui?" [22].

Dopo la morte di sua madre, Agostino differì la partenza per l'Africa e si trattenne a Roma per circa un anno. Su questa seconda permanenza romana le Confessioni non ci dicono, purtroppo, nulla. Raccogliendo i pochi accenni che vi fanno le altre opere agostiniane, sappiamo che si dedicò a studiare le consuetudini della Chiesa [23] e, soprattutto, a conoscere più da vicino la vita monastica, già fiorente a Roma fin d'allora. Intanto continuò le sue meditazioni filosofiche - scrisse il De quantitate animae e il primo libro del De libero arbitrio - e cominciò la difesa della Chiesa cattolica contro i manichei [24]. Tra gli altri argomenti gli servì quello che nasceva da sé dalla vita dei monaci. S. Agostino, che stava comparando nella sua opera i costumi della Chiesa cattolica con quelli dei manichei, non se lo fece sfuggire. Anzi si può credere che fosse il fenomeno del monachismo, che andava studiando in quei giorni, a suggerirgli l'argomento dell'opera. S'informò infatti sul monachismo egiziano - anacoreti e cenobiti - e visitò diversi monasteri a Roma, tanto di uomini che di donne, ammirandone l'organizzazione, la dottrina sacra, l'austerità, la moderazione, il lavoro; ma soprattutto la carità.

"Ho visto io stesso - scrive - un cenacolo (diversorium) di santi, e non erano pochi, a Milano, di cui era superiore un sacerdote, persona ottima e dottissima. Pure a Roma ne ho visti parecchi, in ciascuno dei quali è preposto a quelli che vi abitano, vivendo in cristiana carità, santità e libertà, uno che spicca su tutti per gravità, prudenza e scienza divina. Per non essere di peso a nessuno, anch'essi, secondo il costume orientale e in ottemperanza al precetto dell'Apostolo, si mantengono col lavoro delle proprie mani. Sappi che molti sostengono digiuni veramente incredibili, non solo prendendo cibo una volta al giorno, al tramonto, caso ormai frequentissimo dovunque, ma restando senza mangiare né bere per tre giorni continui ed anche più. Ciò vale non solo per gli uomini, ma anche per le donne. Allo stesso modo che per gli uomini, alle singole comunità, dove molte vedove e vergini abitano insieme e si guadagnano il vitto lavorando di lana e cotone viene preposta una di loro, grave e capacissima nel formare e regolare i costumi, come pure competente e preparata ad istruire la mente". S. Agostino mette in rilievo, poi, lo spirito di moderazione e la sana dottrina di queste comunità.

"Tra le altre cose, nessuno, dice, viene costretto ad asprezze che non può sopportare, a nessuno viene imposto ciò che le sue forze ricusano; né per questo gli altri lo condannano... Tutta la loro vigilanza sta non già nel rigettare questo o quel genere di cibi quasi fossero contaminati, ma nel domare le passioni e nel custodire la carità fraterna... Molti non mangiano carne; ma non per questo la ritengono superstiziosamente immonda; tanto che quelli stessi che, quando sono sani, non la mangiano, quando sono ammalati, se la salute lo richiede, se ne cibano... Molti non bevono vino, ma non per questo si credono contaminati se ne bevessero; infatti a certi deboli di salute e a tutti quelli che non possono conservarla senza il vino, lo fanno passare con molta cordialità e semplicità". Ma l'attenzione del visitatore si fermò particolarmente nell'esercizio della carità, di cui ci offre questo mirabile quadro, nel quale troviamo, forse, più l'ideale vagheggiato dal Santo che la realtà dei fatti. "Soprattutto vi si custodisce la carità.

Tutto viene ordinato ad essa: il vitto, i discorsi, l'abito, il volto. Ognuno concorre e coopera per stabilire l'unità della carità. Violare la carità si ritiene un delitto, come sarebbe violare Dio stesso; se c'è qualcosa che resiste alla carità viene estirpato e gettato via, se qualcosa la offende non si permette che duri un solo giorno. Sanno tutti che la carità è tanto raccomandata da Cristo e dagli Apostoli che dove essa manca tutto è vacuità, dove è presente tutto è pienezza" [25]. L'esperienza romana arricchì enormemente S. Agostino: tornando in Africa non aveva solo un grande ideale nel cuore, ma un esempio prezioso e vivo negli occhi. Accompagnato dai suoi amici, lasciò Roma alla fine di agosto del 388 - "tornai in Africa", dirà egli stesso, dopo la morte del tiranno Massimo [26] che fu ucciso appunto il [28] agosto di quell'anno -, passò a Cartagine [27], risalì la valle del Megerda e si stabili a Tagaste, da dove era partito 12 anni prima.

 

4. Tagaste

Stabilitosi a Tagaste, non tardò a mettere in opera il suo programma di vita: vendette i pochi beni che aveva, ne distribuì il ricavato ai poveri e insieme con alcuni amici, che lo seguivano nel santo proposito, tra cui Alipio, Evodio e Adeodato, fuori della città, si dedicò ai digiuni, alla preghiera e allo studio: "Vi dimorò circa tre anni e insieme con quelli che s'erano a lui uniti viveva per Iddio nei digiuni, nelle preghiere e nelle buone opere, meditando giorno e notte la legge del Signore; e della verità che Dio rivelava alla sua intelligenza nella meditazione e nell'orazione egli faceva parte ai presenti e agli assenti, ammaestrandoli con discorsi e con libri" 28. Lo scopo di tale comunità era il "deificarsi... nell'ozio" [29], attraverso una vita di raccoglimento e d'intensa e profonda contemplazione.

 

5. Ippona

A Tagaste la pace vagheggiata da Agostino non era perfetta. I concittadini gli affidavano troppi incarichi da cui egli, sempre amabile, non sapeva esimersi. Ne abbiamo un'eco in una lettera di Nebridio, che scrive ad Agostino in questi termini: "È dunque così, Agostino mio? Spendi energie e pazienza nelle faccende dei tuoi concittadini e non ti si restituisce ancora la sospirata tranquillità? Di grazia, chi ha il coraggio di importunare te che sei tanto buono? Credo quelli che non sanno quale sia l'oggetto del tuo amore e del tuo ardente desiderio. Non c'è nessuno dei tuoi amici che riveli loro le tue predilezioni? Né Romaniano né Luciniano? Ascoltino almeno me. Io proclamerò, io attesterò che tu ami Dio, vuoi servirlo ed essere a Lui unito. Vorrei attirarti nella mia casa di campagna e che ivi tu stessi tranquillo. Non avrò infatti paura d'essere chiamato seduttore dai tuoi concittadini che ami troppo e dai quali sei troppo amato" [30]. Ne concludiamo che Agostino pensasse di allontanarsi da Tagaste. Un giorno, infatti, sul principio del 391, si recò ad Ippona per cercare dove potesse fondare un monastero e per incontrare un amico che sperava di poter conquistare alla vita monastica, quando la provvidenza diede un nuovo corso alla sua vita. Agostino, che si teneva lontano dalle chiese che erano restate prive del vescovo per non correre il rischio di dover accettare quel pesante ministero, entrò per caso nella Cattedrale d'Ippona mentre il Vescovo della città, Valerio, esponeva al popolo la necessità di avere l'aiuto di un presbitero. I fedeli, che conoscevano la santità e la dottrina di Agostino, accortisi della sua presenza, lo afferrarono e lo costrinsero ad accettare l'ordinazione sacerdotale. Agostino si piegò, piangendo, al loro volere, perché vide in quell'episodio un segno del volere divino: "Il servo, dirà più tardi, non deve contraddire il suo padrone" [31].

 

a. Il monastero dei laici

  • S. Agostino cercava una vita di preghiera e di studio, cioè di contemplazione, e la provvidenza gl'imponeva la grave responsabilità del ministero sacerdotale. Ciò nonostante neppure allora volle venir meno al suo proposito di essere religioso. Consapevole di ciò il vescovo Valerio gli donò un orto presso la chiesa per edificare il monastero. La norma fondamentale di vita di quel monastero era quella d'imitare la primitiva comunità di Gerusalemme. Tutto sarebbe stato comune, e ad ognuno si doveva distribuire secondo il suo bisogno. Era proprio la continuazione della vita che Agostino si era proposto di abbracciare al momento della conversione; la ricerca del regno di Dio nell'amicizia, aiutandosi, comprendendosi, tollerandosi a vicenda in santa carità. Il suo discepolo Possidio, anch'egli membro per qualche tempo di questa comunità, ce la descrive così. "Fatto dunque presbitero, non tardò ad istituire presso la chiesa un monastero e prese a vivere con i servi di Dio secondo la maniera e la regola stabilita ai tempi dei santi Apostoli. Norma capitale era che nessuno in quella società avesse qualcosa di proprio, ma tutto doveva essere in comune, e a ciascuno venir distribuito secondo il bisogno; ciò che egli aveva fatto già prima ritornando d'oltre mare al suo paese" [32]. Era un monastero di laici, ma non escludeva i sacerdoti. Almeno fin dal principio c'era un religioso sacerdote, Agostino. Dobbiamo concludere che fu proprio questo il monastero, che resterà l'espressione più alta e più pura del suo ideale, dove S. Agostino unì per la prima volta alla vita religiosa il sacerdozio. La principale occupazione e il fine della fondazione era, come si dice nella Regola, che tutti insieme avessero "un'anima sola e un solo cuore protesi verso Dio" [33] e fossero occupati nella preghiera, nello studio, nella mortificazione, sempre pronti a sentire e a rispondere ai bisogni della santa madre Chiesa [34]. Così "col progredire dell'insegnamento divino, alcuni di coloro che sotto la direzione del Santo Agostino e insieme con lui servivano Dio nel monastero, cominciarono ad essere ordinati chierici della Chiesa d'Ippona. Frattanto, di giorno in giorno venendo in più chiara luce la verità della predicazione della Chiesa cattolica, come pure l'ideale di vita dei santi servi di Dio, la loro continenza, la loro austera povertà, si cominciò con gran desiderio a richiedere e a ricevere dei vescovi e dei chierici dal monastero che a quel memorabile uomo doveva la sua esistenza e i suoi progressi: in tal modo ebbe inizio e poi si stabilì la pace e l'unità della Chiesa. Io stesso - continua S. Possidio - ho conosciuto una diecina di santi e venerandi uomini, continenti e dottissimi, che il beato Agostino acconsentì a dare a diverse chiese, talune anche di molta importanza. Quelli, a loro volta, ispirati agli ideali di quei santi uomini, spargendosi nelle chiese del Signore, istituirono dei monasteri; e, crescendo lo zelo per l'incremento della parola di Dio, prepararono a ricevere il sacerdozio dei fratelli che poi furono promossi ad altre chiese" [35].

 

b. Il monastero dei chierici

 

  • L'anno 395 S. Agostino viene consacrato vescovo, come ausiliare del vecchio e venerando Valerio, vescovo d'Ippona. Alla morte di Valerio egli dovette prendere da solo l'amministrazione della diocesi. Allora si avvide che non gli era possibile continuare a stare nel monastero, se voleva che la vita di esso continuasse il suo corso ordinario di vita religiosa quale egli la concepiva. Le continue visite e l'ospitalità che il vescovo non poteva negare a nessuno, avrebbero reso la vita del monastero tutt'altro che monastica. Perciò decise di ritirarsi a vivere nell'episcopio con i suoi chierici. "Giunto all'episcopato, dirà più tardi, vidi la necessità per un vescovo d'offrire continuamente ospitalità ai visitatori, alla gente di passaggio: se un vescovo non facesse ciò, s'acquisterebbe la nomea di inospitale; ma se io avessi permesso queste cose nel monastero, sarebbe stato un grande inconveniente. Per questo ho voluto avere con me, in questa casa dell'episcopio, un monastero di chierici" [36]. Questo monastero quindi altro non era che un ritrovato, se così posso dire, di Agostino per poter continuare in qualche modo il suo ideale di vita monastica, che non era quello del monastero dei chierici o dell'episcopio, ma quello che si viveva nel monasterium virorum ad Ippona o in monasteri simili ad esso. A questo ideale S. Agostino continuò a guardare sempre con nostalgia, come si deduce chiaramente da un celebre passo del libro Il lavoro dei monaci [37].

 

c. Il monastero di monache

  • S. Agostino nel diffondere e organizzare la vita monastica non si limitò solamente ai monasteri maschili; fondò anche monasteri di vita religiosa femminile. È celebre quello di Ippona al quale indirizzò due lettere (Lettere 210 e 211), e del quale fu superiora sua sorella "vedova consacrata a Dio" e ne fecero parte alcune sue nipoti [38]. Il Santo Vescovo sentiva un affetto tutto speciale per loro, che manifesta apertamente anche nelle sue lettere: "Sono solito godere di voi, scrive loro, e fra tanti scandali, di cui abbonda questo mondo, trovo in voi di che consolarmi: pensando al vostro grande numero, e alla vostra unione, al casto amore, ai santi costumi, alle grazie abbondanti, onde vi irrorò il Signore; in modo da non curare le nozze terrene, e da eleggere, inoltre, una vita di piena unione e concordia, avendo una sola anima e un solo cuore protesi verso Dio. Fermandomi nella considerazione di tali doni del Signore a voi largiti, il mio cuore, scosso da molte tempeste, prodotte da tanti mali, trova un qualche riposo" [39]. Fu però proprio questo monastero che procurò al Santo un non lieve dispiacere. Morta infatti la sua "santa" sorella, che lo aveva retto sapientemente per molti anni, le monache si ribellarono contro la nuova superiora. Richiesto della sua presenza, S. Agostino non volle andare, preferendo trattare la questione non con le parole presso di loro, ma "con le lacrime presso Dio". Scrisse però una lettera accorata, in cui mostrando tutto il suo dolore, le esorta "a perseverare nel santo proposito e così non avrete il desiderio di cambiare la preposita" [40]. Lo stesso monastero d'altra parte rendeva un grande servizio alla Chiesa d'Ippona prendendosi cura delle orfanelle affidate al vescovo; come sembra si debba dedurre da alcune lettere del Santo in difesa di una di esse [41]. In altre il Santo ci assicura che le sacre vergini raccoglievano e tenevano a battesimo i bambini esposti [42]: possiamo pensare che anche le monache d'Ippona si trovassero qualche volta nella necessità di compiere questa grande opera di misericordia.

 

 

AUTENTICITÀ DELLA REGOLA

 

Abbiamo detto che la questione dell'autenticità va distinta accuratamente da quella dei destinatari. È la tradizione manoscritta che c'impone questa distinzione trasmettendoci un testo diverso nella forma, ma identico nella sostanza. Diverso nella forma. V'è infatti una tradizione manoscritta che riporta il testo in femminile, aggiunto, per lo più, a una lettera di S. Agostino al monastero d'Ippona, dov'era stata superiora per molti anni sua sorella (Lettera 211). Ma v'è anche un'altra tradizione, più antica e più valida, come vedremo, che riporta lo stesso testo in maschile, diretto ai servi di Dio. Che si tratti di un testo unico non può esservi dubbio. Salvo alcune varianti, utili criticamente, ma irrilevanti per la questione dell'autenticità, e salve alcune piccole aggiunte qua e là nel testo della Lettera, le differenze si riducono alla trascrizione in maschile o in femminile del testo medesimo. Il testo dunque è uno, e non può essere attribuito che a un solo autore. La tradizione lo ha attribuito a S. Agostino. Per confermare questa attribuzione la critica non ha, a suo favore fonti letterarie. S. Agostino stesso nei suoi scritti non parla mai della Regola, né mai ne parla, esplicitamente, Possidio nella vita di lui. Ha però una lunga tradizione manoscritta e validi argomenti interni, che permettono di giungere a una conclusione sicura, che è questa: il testo venerando della Regola che porta il nome di S. Agostino - Regula ad servos Dei - è realmente del vescovo d'Ippona. Su questo punto non possono esserci dubbi, dubbi ragionevoli, dico. In realtà la lunga controversia sulla Regola agostiniana si è esercitata e si esercita sulla seconda e sulla terza delle questioni da noi indicate, non sulla prima. E se qualche volta sembra che il dubbio abbia sfiorato anche questa, ciò dipende dal fatto che non si sono ben distinte le questioni e si è fatta un po' di confusione tra la soluzione della seconda - i destinatari - e la soluzione della prima - l'autenticità. Infatti possiamo distinguere la lunga controversia in quattro periodi:

  • dal sec. XI al 1528 (edizione erasmiana delle opere di S. Agostino).   È il periodo acritico nel quale si ritiene candidamente che S. Agostino abbia scritto tre Regole: la Regula consensoria (la prima), l'Ordo Monasterii (seconda), la Regula ad servos Dei (terza); e se ne determina con grande sicurezza il tempo e il luogo.
  • dal 1529 al 1747 (cioè fino all'Amort).    È il periodo delle grandi edizioni critiche delle opere di S. Agostino (Erasmo, Lovaniensi, Maurini) e degli studi approfonditi nella tradizione monastica agostiniana. Le leggende cadono. I Sermones ad fratres in eremo e il De vita eremitica ad sororem vengono apertamente dichiarati spuri; la prima e la seconda Regola vengono rigettate come non agostiniane. Solo il testo della Regola terza (Regula ad servos Dei) per lo stile e il contenuto e per la tradizione manoscritta viene riconosciuto come autentico. In quanto alla forma originale molti, dopo Erasmo e Bellarmino - feminis data, non viris, sentenzia quest'ultimo, appoggiandosi al fatto della Lettera 211 -, optano per la forma femminile; mentre altri, in base a un attento studio della tradizione manoscritta, optano per la forma maschile.
  • dal 1747 al 1847 (cioè fino al "Kirchen-Lexikon").    E il periodo che si può chiamare, a causa della mancanza di studi seri, periodo del silenzio. Lo ricordiamo per l'influsso, purtroppo negativo, avuto sul periodo successivo. .
  • dal 1847 al 1923 (cioè fino al P. Casamassa).    È il periodo nel quale, perduto il contatto con gli studi dei secc. XVI-XVIII, si comincia a parlare per la prima volta di "compilazione" tardiva - si pensa al sec. XI - della Regola, compilazione che sarebbe stata fatta sulla base dei Sermones agostiniani 355-356 e della Lettera 211. Non si dubita dell'autenticità di questa Lettera, e quindi del testo della Regola in femminile, ma invece di considerare la Lettera 211 l'unica fonte da cui la Regola, caso mai, sarebbe stata presa e adottata per i monaci, come avevano pensato molti nei secoli precedenti, si ritiene - non si sa per quale svista o confusione - che sia solo una delle fonti. Il P. A. Casamassa col suo studio sul codice Parigino lat. 12634 ha fatto giustizia di questa opinione, dimostrando che questo codice, che riporta la Regola per intero, è quello stesso di Corbie del sec. VII [43].
  • dal 1923 al 1968 (cioè fino all'edizione critica del Verheijen).    È il periodo in cui sono stati ripresi con grande fervore gli studi intorno alla Regola, studi che ne hanno confermata largamente l'autenticità, hanno approfondito le questioni dei primi destinatari e della data e ne hanno preparato nuove edizioni critiche. Ricordiamo Schroeder [44], De Bruyne [45], Vega [46], Arbesmann e Humpfner [47], Verheijen [48]. Gli argomenti a favore dell'autenticità, che questi studi hanno o confermato o preparato, in sostanza sono: la tradizione manoscritta, la tradizione storica e il confronto con altri scritti agostiniani.

La tradizione manoscritta col codice di Corbie, che contiene il testo della Regola e l'attribuisce esplicitamente a S. Agostino - termina infatti con l'Explicit Regula S. Agustini Episcopi - ci riporta alla fine del sec. VII. La tradizione storica, poi, esaminando la trasmissione indiretta del testo, va ancora più avanti. La Regula Tarnatensis del sec. VI ne trascrive per intero il testo (cf. cc. 14-23), introducendovi soltanto rare e lievissime modificazioni. La Regola dei santi Paolo e Stefano dello stesso secolo la citano esplicitamente.

La Regola di S. Benedetto del 529 c. se ne fa eco in una dozzina di luoghi. Le Regole di S. Cesareo d'Arles - alle vergini, del 512 c., e ai monaci, del 500 c. - ne riproducono alla lettera numerose sentenze. Arriviamo così a pochi decenni dalla morte di S. Agostino. Infine studi accurati sul vocabolario, lo stile, le citazioni bibliche, il contenuto hanno confermato ampiamente che il testo della Regola è di dettatura agostiniana [49]. Di fronte a tutto ciò il critico non può scegliere che una di queste due soluzioni: o ammettere l'autenticità della Regola o formulare l'ipotesi, gratuita ed inverosimile, che questo testo fu "composto" da un autore della metà del sec. V, ignoto per l'appunto, ma tanto abile da riprodurre senza tradirsi e il vocabolario e lo stile e il pensiero del Vescovo d'Ippona. Si aggiunga poi che il P. Verheijen adduce un argomento, che merita attenzione, con il quale la trasmissione indiretta del testo della Regola giungerebbe non a qualche decennio, ma a qualche anno dalla morte del Santo.

Osserva infatti che Possidio nella Vita di S. Agostino - databile tra il 432 e il 439 - parlando della spiritualità del primo monastero fondato ad Ippona - il monastero dei laici - si esprime citando gli Atti degli Apostoli 4, 32-35, in una maniera che la formula usata ha un solo riscontro nell'uso agostiniano e più precisamente nella Regola [50]. Questo fa pensare che Possidio, parlando di quel primo monastero d'Ippona, avesse presente il testo della Regola, che sarebbe perciò da mettersi in relazione con quel monastero per cui S. Agostino l'avrebbe dettata.

 

 

 

PRIMI DESTINATARI O FORMA ORIGINALE DELLA REGOLA

 

È una questione secondaria rispetto a quella precedente, ma è pur sempre una questione interessante sia criticamente sia storicamente. Per tentare di risolverla, o almeno di chiarirla, occorre dissipare anche qui, preliminarmente, un equivoco: quello di credere che se la forma originale della Regola fosse quella contenuta nella Lettera al monastero d'Ippona (Lettera 211), la Regola agostiniana non sarebbe propriamente una Regola, ma uno scritto occasionale a cui più tardi i discepoli si sarebbero afferrati per avere delle norme che esprimessero il pensiero e lo spirito del loro maestro.

No, proprio no. Ancorché la forma originale fosse questa - e crediamo che non lo sia - lo scritto agostiniano non avrebbe nulla d'improvvisato, nulla d'occasionale (se per occasionale si intende uno scritto sorto in una determinata occasione e limitato ad essa). Comincia infatti con un solenne praecipimus, dà leggi assai chiare e assai forti come quella di espellere dalla comunità chi non volesse accettare la pena impostale per le sue mancanze, ricorda alla "preposita" il dovere di far osservare tutte le cose prescritte e l'altro di rimettere al "presbitero", più autorevole di lei, ciò che supera la sua competenza e le sue forze; termina infine con queste parole non meno solenni di quelle iniziali: "Perché poi possiate rimirarvi in questo libretto come in uno specchio, onde non trascurare nulla per dimenticanza, vi sia letto una volta la settimana".

È fin troppo evidente che chi scrive si sente un legislatore, un legislatore che vuol dare e dà norme stabili e durature, per la cui osservanza confida nell'obbedienza dei discepoli. Desideriamo vivamente che questo equivoco sia dissipato una volta per tutte, perché ha contribuito in non piccola parte ad imbrogliare la questione della Regola agostiniana. Alcuni infatti hanno negato e negano che S. Agostino abbia scritto una Regola, solo perché non ritenevano o non ritengono che tale sia quella contenuta nella Lettera 211. Quasiché, aggiungiamo noi, in una lettera non si possa proporre una regola, quando sia chiara, come in questo caso, la volontà dello scrittore. Partendo dunque dal presupposto che la Regola agostiniana è una regola, cioè un codice stabile di leggi (non necessariamente un orario giornaliero o un ordinamento liturgico) che organizza e orienta la vita comune secondo i consigli evangelici, vediamo quale sia il giudizio dei critici intorno alla questione proposta. Le opinioni sono due - per fortuna questa volta non possono essere di più - una che difende la priorità della Lettera 211, da cui più tardi la Regola sarebbe stata adattata ai monaci, e una che al contrario difende la priorità della forma che va sotto il nome di Regula ad servos Dei. Gli argomenti a favore della prima opinione si riducono sostanzialmente al fatto puro e semplice della Lettera 211, la quale nella prima parte - nn. 1-4 - contiene una riprensione alle monache che s'erano ribellate contro la superiora; la seconda invece - nn. 5-16 - le norme della vita monastica. Erasmo nella sua celebre Censura [51] abbozza anche qualche argomento di ordine interno, ma molto debole; anzi, vorremmo dire, ameno, come, per esempio, l'immagine dello specchio, a cui S. Agostino paragona la Regola, immagine che sarebbe più adatta per le donne che per gli uomini. A parte il discutibile valore di questa osservazione, il grande erudito doveva sapere che S. Agostino paragona allo specchio - e non una volta sola - le Sacre Scritture, nelle quali ovviamente non devono specchiarsi solo le donne [52]; anzi, secondo Possidio, verso la fine della vita compose un'antologia biblica col nome di Specchio [53]. Recentemente ha tentato la via della critica interna un altro erudito di chiara fama, il Lambot, ma anche lui questa volta, contrariamente al solito, senza grande successo [54]. Vogliamo dire che dall'esame interno dei due "pezzi" - uguali insieme e differenti - è praticamente impossibile stabilire la priorità dell'uno sull'altro, senza che gli argomenti si tingano apertamente di soggettivismo.

Ciò vale anche per quelli che vogliono dimostrare, con l'esame interno, la priorità del testo maschile. Non nascondiamo che le ragioni di questi ci sembrano meno deboli di quelle addotte dagli altri, ma deboli, tuttavia. Restiamo dunque ai fatti. A favore dell'opinione che sostiene la priorità letteraria della Regola per le monache resta il fatto fondamentale ed unico della Lettera. Ma i fautori dell'opinione opposta hanno anch'essi i loro fatti da addurre, né meno importanti. Il primo è la trasmissione diretta del testo, che nel codice più antico, quello di Corbie del sec. VII, e in moltissimi altri dei secc. IX e X, è in maschile, non in femminile. Il secondo fatto è la trasmissione indiretta: S. Cesareo d'Arles nella Regola alle vergini del 520, utilizzando il testo agostiniano trascrive dalla Regula ad servos Dei, non dalla Lettera. Questo è un particolare molto interessante: lo conoscevano gli studiosi del sec. XVIII, per esempio l'Amort [55], e l'ha riscoperto recentemente il Lambot [56]. Da esso si deduce che la Regola di S. Agostino, nella versione maschile, circolava già verso la metà del sec. V, accompagnando e informando col suo sapiente equilibrio il movimento monastico occidentale.

Ciò non vuol dire ancora, apoditticamente, che questa sia la forma originaria dettata dal Vescovo d'Ippona, ma lo suggerisce e lo rende molto probabile. V'è poi un terzo fatto che conferma questa probabilità, togliendola all'argomento dell'opinione contraria. E cioè: i più antichi manoscritti della Lettera 211 stabiliscono una netta distinzione tra la prima parte di essa (la riprensione) e la seconda (il "libretto" della Regola), inserendo un explicit alla fine della prima e un incipit all'inizio della seconda. Questo dato interessante toglie evidentemente un po' di sicurezza - non vogliamo dire di più - alla prima opinione, che si basa tutta sul fatto della Lettera, e consolida la seconda che ha tante volte ripetuto che la Lettera non ha unità, ma contiene due "pezzi" indipendenti messi insieme da una mano estranea [57]. L'opinione dunque che la Regola per le monache sia stata trascritta da quella originale per i monaci, qua e là leggermente ritoccata e aggiunta a una lettera agostiniana diretta alle monache, non è più solo un'impressione soggettiva di alcuni studiosi, ma ha ormai un fondamento nella tradizione manoscritta, che non è poco [58]. Si aggiunga infine un quarto fatto, quello cui abbiamo accennato sopra, della coincidenza nella maniera di citare gli Atti 4, 32-35 tra la Regola e Possidio quando parla del primo monastero d'Ippona - coincidenza singolare, perché quella maniera di citare il passo degli Atti non si trova né in altri testi di S. Agostino né altrove - e si avrà il quadro completo dell'opinione, che noi condividiamo, secondo la quale il testo originale della Regola non è quello della Lettera 211, ma quello del codice di Corbie cioè la Regula ad servos Dei.

 

 

 

DATA DELLA COMPOSIZIONE DELLA REGOLA

 

Ai sostenitori di questa opinione corre l'obbligo di stabilire la data della composizione della Regola ai servi di Dio e di spiegare il silenzio delle Ritrattazioni e dell'Indicolo di Possidio intorno ad essa. Premettiamo subito che su questo argomento, in mancanza di fatti o riferimenti precisi, occorre essere cauti per non sfociare nel soggettivismo. Le ipotesi principali sono tre: la prima indica come data probabile il 391, più o meno in coincidenza con la fondazione del primo monastero d'Ippona, il monastero dei laici; la seconda indica il 400 in coincidenza con l'"affare" del monastero di Cartagine che diede occasione al De opere monachorum; la terza sposta la data fino al 427-428, dopo il De correptione et gratia, in coincidenza con la controversia sulla grazia sorta nel monastero di Adrumeto. Non è facile trasformare queste ipotesi in certezza. L'unica cosa certa sarebbe quella comune alle tre ipotesi, e cioè che la composizione della Regola è in relazione con uno dei monasteri che hanno richiamato particolarmente l'attenzione di S. Agostino. Ecco ad ogni modo le loro ragioni. La prima ha a suo favore e la fondazione del monastero e le parole di Possidio, il quale, ricordando la norma principale di vita in esso vigente, cita gli Atti 4, 32-35 nella maniera propria ed esclusiva della Regola (Verheijen) [59].

La seconda ha a suo favore la stretta affinità tra la Regola e il De opere monachorum (Cilleruelo) [60]. La terza, infine, la dottrina della grazia espressa nell'ultimo capitolo della Regola che coincide con quella sviluppata da S. Agostino durante la controversia pelagiana, la richiesta dell'Abate di Adrumeto a S. Agostino di venirgli in aiuto per la Regula monasterii [61], la spiegazione del silenzio delle Ritrattazioni, che in questa ipotesi sarebbero state terminate prima (Manrique) [62]. Segnaliamo inoltre il Van Bavel che, basandosi sull'evoluzione del pensiero agostiniano, rivelato dai luoghi paralleli, opta per il 397-400 [63], e il Sanchis che in base al testo degli Atti degli Apostoli indica gli anni 400-402 [64]. In quanto al silenzio delle Ritrattazioni e dell'Indicolo tutti ricordano poi - e con ragione - che l'argomento del silenzio è nullo se non si prova che chi tace doveva parlare, e soprattutto che tanto le Ritrattazioni quanto l'Indicolo - particolarmente l'Indicolo - non sono completi.

 

 

 

ORDO MONASTERII

 

Per completare il breve prospetto intorno alla "questione della Regola di S. Agostino" ci resta di dedicare un accenno a un documento antichissimo che i codici e gli studiosi hanno battezzato col nome di Ordo (o Disciplina) monasterii. L'Ordo monasterii è una brevissima Regola monastica che contiene disposizioni liturgiche per la recita del divino ufficio, l'orario per la lettura e il lavoro, precetti intorno alla vita comune - apostolica enim vita optamus vivere - all'obbedienza, alla refezione, al silenzio, all'uscita dal monastero - duo eant - alle pene contro i contumaci. Comincia con le celebri parole: Ante omnia, fratres carissimi, diligatur Deus, deinde et proximus, quia ista sunt praecepta principaliter nobis data; e finisce esprimendo la speranza del legislatore che le prescrizioni date saranno osservate fedelmente, di modo che, conclude, et vos proficietis, et nobis non parva erit laetitia de vestra salute. Amen.

La tradizione manoscritta unisce costantemente, almeno una delle sue branche, questo breve documento con la Regola agostiniana in quanto la Regola segue immediatamente ad esso e forma con esso un tutt'uno. Così il codice di Corbie e così i codici che ebbero a disposizione l'autore della Regula Tarnatensis, S. Benedetto e S. Cesareo d'Arles, i quali tutti utilizzano sia la Regola che l'Ordo monasterii. In realtà l'Ordo monasterii è un complemento necessario della Regola, la quale suppone un regolamento monastico, ma non lo contiene. Si ricordino le prescrizioni sulla preghiera - Attendete con alacrità alle preghiere nelle ore e nei tempi stabiliti (n. 10) - e sull'uso della biblioteca - I libri si chiedano giorno per giorno alle ore stabilite (n. 39). Sarà dunque anche l'Ordo monasterii di S. Agostino? Studiosi lontani nel tempo e di diversa formazione lo hanno affermato. Così l'Amort [65], il Mandonnet [66], lo Hümpfner [67]. Le loro ragioni sono quelle che abbiamo indicato or ora: la tradizione manoscritta e la complementarietà dell'Ordo rispetto alla Regola.

Altri in base all'esame interno del documento - particolarmente alle prescrizioni intorno al digiuno - negano che esso possa essere sorto a Tagaste e a Ippona e lo ritengono opera di un autore ignoto della seconda metà del sec. V. Così i Maurini [68], il Morin [69], il Casamassa [70]: particolarmente quest'ultimo. V'è poi chi cerca di dare un nome a questo autore, come il De Bruyne che attribuisce l'Ordo monasterii a S. Benedetto, il quale lo avrebbe composto per i monasteri di Vicovaro [71]. Ma il Morin l'anno appresso dimostrò che l'Ordo monasterii fu in uso nel monastero di Cassiodoro, a Vivarium, perché l'ordinamento del divino ufficio ivi seguito corrisponde a quello che si trova nel nostro documento, e avanzò l'ipotesi che Cassiodoro l'avesse preso dalla Campania, dove sarebbe arrivato dall'Africa, portato dai vescovi esiliati da Genserico. L'Ordo monasterii tornava nell'anonimato, anche se l'autore restava circoscritto all'Africa. L'ultimo studio che insiste sull'"autore ignoto" è quello indicato del Casamassa. Finalmente una terza opinione vuole che l'Ordo monasterii non sia stato scritto da S. Agostino - lo stile, per quanto si può giudicare da un documento brevissimo, non sarebbe agostiniano - ma sostiene che S. Agostino l'abbia conosciuto ed approvato: le ultime parole che contengono appunto l'approvazione sarebbero sue.

Così il Manrique [72] e soprattutto, con grande apparato di erudizione, il Verheijen, il quale pensa che il probabile autore dell'Ordo monasterii sia Alipio [73], mentre il Manrique pensa al monastero di Adrumeto, da cui sarebbe arrivato nelle mani di S. Agostino. Concludendo, rileviamo con compiacenza il grande interesse che ha suscitato tra gli studiosi del monachesimo occidentale questo breve documento. E non a torto. Ancorché non fosse di S. Agostino né questi l'avesse in modo alcuno conosciuto ed approvato, sarebbe sempre un documento per tanti motivi venerando: è antichissimo, contiene un prezioso ordinamento del divino ufficio, che è il primo che si conosca in Occidente, ricorda l'apostolicità della vita comune e la necessità di mettere insieme lavoro e "lettura", accompagna il cammino della Regula ad servos Dei di S. Agostino fin dagli inizi della tradizione manoscritta e vi lascia una traccia indelebile, quella delle prime, splendide parole: Ante omnia, fratres carissimi ... che esprimono in modo stupendo lo spirito e il pensiero del Vescovo d'Ippona. Queste parole infatti sono restate nel testo "recepto" della Regola e le hanno lette e le leggono, a ricordo e a monito, i molti che lungo i secoli hanno scelto S. Agostino quale maestro di vita religiosa o semplicemente consacrata.

 

 

 

 

(1) - Lo studio più completo lo ha fatto, come premessa al testo critico, il P. L. VERHEIJEN O.S.A., in La Règle de St. Augustin: I Tradiction manuscrite, II Recherches historiques, Paris 1967. Reca anche un'ampia bibliografia.

(2) - Confess. 3, 4, 7. 3

(3) - Solil. 1, 10, 17.

(4) - Confess. 5, 11, 21.

(5) - De mor. Eccl. cath. 1, 1, 2.

(6) - De util cred. 1, 2. 

(7) - De beata vita 4.

(8) - Cf. Confess. 8, 7, 7-18.

(9) - Confess. 8, 5, 11.

(10) - Sal 25, 8. 

(11) - Confess. 8, 1, 2.

(12) - Confess. 6, 12, 21.

(13) - Confess. 6, 12, 22.

(14) - Confess. 6, 14, 24.

(15) - Confess. 8, 5, 12.

(16) - Cf. Confess. 8, 6, 13-15.

(17) - Confess. 8, 8, 19 - 12, 30.

(18) - Ef 3, 2.

(19) - Confess. 8, 12, 30.

(20) - Sal 67, 7.

(21) - Confess. 9, 8, 17.

(22) - Confess. 9, 10, 26.

(23) - Ep. 36, 5, 9.

(24) - Retract. 1, 7, 1.

(25) - De mor. Eccl. cath. 1, 33, 70-73.

(26) - Contra litt. Petiliani 3, 25, 30.

(27) - De civ. Dei 22, 8, 3.

(28) - POSSIDIO, Vita di S. Agostino, 3a ed. M. Pellegrino, Alba 1955, pp. 48-49; cf. A. Trapè, S. Agostino, Roma 1961, pp. 44-45

(29) - Ep. 10, 2.

(30) - Ep. 5. 31

(31) - Serm. 355, 2; POSSIDIO, Vita, 3-4, pp. 48-53.

(32) - POSSIDIO, Vita, 5, pp. 52-53.

(33) - Regola, l.

(34) - Ep. 48; Ep. 243.

(35) - POSSIDIO, Vita, 11, pp. 72-75.

(36) - Serm. 355, 2.

(37) - De opere monach. 29, 37.

(38) - Cf. Ep. 211, 4; POSSIDIO, Vita, 26, 1; A. C. DE ROMANIS O.S.A., Sant'Agostino, Roma 1931, p. 115; A. MANRIQUE, La vida monàstica, pp. 115-122; JJ. GAVIGAN O.S.A., De vita monastica, Torino 1962, pp. 54, 70.

(39) - Ep. 211, 2-3.

(40) - Ivi.

(41) - Cf. Epp. 252-254.

(42) - Ep. 98, 6.

(43) - A. CASAMASSA, Il più antico codice della Regola monastica di S. Agostino, in "Atti e Rendiconti" della Pontif. Accademia Romana di Archeologia, I (1923), pp. 5-105; di nuovo edito in A. CASAMASSA, Scritti Patristici, "Lateranum", Roma 1955, 1, pp. 107-117.

(44) - SCHROEDER, in Archiv für Urkundenforschung, 1926, pp. 281-282.

(45) - D. DE BRUYNE, in Revue Bénédictine, 1930, pp. 318-319.

(46) - A. VEGA, La Regla de S. Agustìn, El Escorial 1930, pp. 60-61.

(47) - ARBESMANN - HÜMPFNER, Iordani de Saxonia liber "Vitasfratrum", New York 1943, pp. 490-493.

(48) - Op. cit., I, pp. 417-437. 

(49) - Cf. in particolare T. VAN BAVEL, Parallèles, vocabulaire et citations bibliques de la "Regula S. Augustini". Contribution au probléme de son authenticité, in Augustiniana, 9 (1959), pp. 1277; A. MANRIQUE, La vida monastica en San Agustin, El Escorial 1959, pp. 416-431.

(50) - Op. cit. II, pp. 97-98.

(51) - Censura in Regulam D.ni Augustini - Opera S. Augustini, t. 1, 1528, p. 591.

(52) - Serm. 49, 5; Enarr. in ps. 30, II, s. 3, 1; 103, s. 1, 4; 118, s. 4, 3.

(53) - POSSIDIO, Vita, 28, 3.

(54) - C. LAMBOT, Saint Augustin a-t-il rédigé la Règle pour Moines qui porte son nom?, in Revue Bénédictine, 53 (1941), pp. 41-58. Cf. in contrario: L. VERHEIJEN, Op. cit., II, pp. 74-80. 

(55) - E. AMOR, Vetus disciplina canonicorum regularium, I, Venetiis 1747, pp. 141-144; L. Verheijen, op. cit., II, p. 181.

(56) - C. LAMBOT, La Règle de S. Augustin et S. Cèsaire, in Revue Bénédictine, 41 (1929), pp. 333-341.

(57) - Osservava già il brusco distacco tra la prima parte e la seconda il sapiente benedettino LE NAIN DE TILLEMONT, Mémoires ..., XIII, pp. 162-163; e molti dopo di lui.

(58) - VERHEIJEN, Op. cit., II, pp. 181-182.

(59) - VERHEIJEN, Op. cit., II, pp. 87-116.

(60) - L. CILLERUELO, Los destinatarios de la "Regula Augustini", in Archivio Agustiniano, 54 (1960), pp. 87-114; Id., Nota sobre la fecha de composición de la "Regula Augustini", ivi, 55 (1961), pp. 257-261.

(61) - Ep. 216, 6 (tra le agostiniane).

(62) - A. MANRIQUE, La vida monastica en San Agustin, El Escorial 1959, pp. 455-463; Id., Nuevas aportaciones al problema de la "Regula Augustini", in La Ciudad de Dios, 1968 (Homenaje al P. Vega), pp. 312-328.

(63) - T. VAN BAVEL, Op. cit., p. 75.

(64) - DE SANCHIS, Pauvreté monastique et charité fraternelle chez Saint Augustin, in Studia Monastica, 4 (1962), p. 21.

(65) - E. Amort, Vetus disciplina canonicorum regularium, I, Venetiis 1747, pp. 121-158.

(66) - P. MANDONNET, Saint Dominique, II, Paris 1937, pp. 107-162.

(67) - W. HÜMPFNER, Die Regeln des heiligen Augustinus, in H. von Balthasar, Die grossen Ordensregeln, Einsiedeln 1948, pp. 101-102.

(68) - Maurini, S. Augustini opera omnia, t. I, p. 1006.

(69) - G. Morin, L'ordre des heures canoniales dans les monastères de Cassiodore, in Revue Bénédictine, 43 (1931), pp. 145-152.

(70) - A. CASAMASSA, Note sulla "Regula secunda Sancti Augustini", in Sanctus Augustinus vitae spiritualis magister, I, Roma 1958, pp. 357-389.

(71) - DE BRUYNE, La première règle de St. Benoît, in Revue Bénédictine, 42 (1930), pp. 316-342.

(72) - 72 A. MANRIQUE, op. cit., pp. 465-474. 

(73) - 73 L. Verheijen, op. cit., II, pp. 125-174.