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Salvatore BATTAGLIA: PIRAMO E TISBE IN UNA PAGINA DI SANT'AGOSTINO

La campagna di rus Cassiciacum a Cassago Brianza con l'ampio panorama delle montagne cantate da Licenzio

 

 

Salvatore Battaglia

PIRAMO E TISBE IN UNA PAGINA DI SANT'AGOSTINO

 

tratto da La coscienza letteraria del Medioevo, Napoli, Liguori 1965, 51-61

 

 

 

1. Nella sua apologetica e restaurazione religiosa sant'Agostino evita, finché può, di citare perfino un nome come quello di Cicerone, che pur aveva costituito il maggior nutrimento intellettuale per la propria giovinezza e che ora continuava ad offrirgli il più agevole tramite della tradizione filosofica ed etica [1]. Del resto, anche Virgilio aveva ancora il potere di suggestionare lo scrittore cristiano, e l'episodio di Didone riusciva a intenerirlo fino alle lagrime. Tuttavia si tratta di rarissime e combattute eccezioni, ché già ai suoi occhi gli autori antichi rivestivano i cupi colori della corruzione. Sarebbe pertanto assurdo pensare di trovare nelle sue pagine la menzione di un poeta come Ovidio, che per il fondatore dell'introspezione etico-religiosa doveva rappresentare il simbolo più scoperto della letteratura pagana, invereconda e adescatrice.

Ma in una sua pagina, anche se non risulti espressamente citato il nome del poeta classico, si fa riferimento alla favola di Piramo e Tisbe, uno dei miti sentimentali più affascinanti delle Metamorfosi. Non è che un un richiamo occasionale e polemico; ma ai nostri occhi riveste eccezionale interesse, sia per la circostanza in cui è formulato e sia per le illazioni che se ne possono dedurre.

L'accenno agostiniano compare nel De Ordine, che è tra gli scritti più impegnativi dell'autore cristiano, il quale in questa opera, anch'essa disposta in forma di dialogo, svolgeva il suo pensiero non ancora del tutto pacificato sulla Provvidenza divina e sul destino) terreno. È il grande problema dell'armonia universale e divina.

Com'era sua consuetudine, lo scrittore ricordava le circostanze che preludevano alla discussione con i suoi interlocutori. Ma questa volta l'occasione è rievocata con un trepido accento d'intimità che basta per sé solo a conferire concretezza e veridicità all'esposizione. Sant'Agostino si trovava allora a Cassiciaco, nella campagna lombarda, in una proprietà messagli a disposizione da un collega di retorica, Verecondo. Siamo nel novembre del 386. Allora sant'Agostino aveva trentadue anni. S'era dimesso dalla sua cattedra di retorica a Milano, e s'era ritirato in solitudine per meditare nella preghiera intorno all'imminente conversione. E qui a Cassiciaco (assai probabilmente l'odierna Cassago in Brianza) si preparò al battesimo, che riceverà a Milano nel sabato santo dell'anno seguente (24-25 aprile del 387) dalle mani di sant'Ambrogio.

Nella dimora rurale egli condusse la mamma, santa Monica, il fratello Navigio, il figlio del peccato Adeodato, due dei suoi cugini, un suo intimo amico Alipio., e infine due discepoli, di cui il più giovane, Licenzio, era figlio di un suo compatriota e protettore (Romaniano), l'altro, Trigezio, anche lui diletto al maestro. Insieme trascorrevano le ore nella preghiera e nelle discussioni religiose e speculative, alternando i lavori dei campi.

La rievocazione che ne fa sant'Agostino è fra le più suggestive. Una notte (egli dormiva nella stessa camera con i suoi discepoli, poiché la casetta non consentiva molte comodità) si era destato, secondo il suo solito, e nel silenzio e nel buio ripensava ai suoi problemi intellettuali e religiosi, che poi al mattino avrebbe discusso con i suoi adepti. Egli dice che soleva rimanere sveglio per circa metà della notte, ora dopo il primo sonno e ora verso l'alba. Ecco che una notte la sua attenzione è attratta dal fluire dell'acqua: si trattava di una grondaia, da cui scorreva dell'acqua, che prima di precipitare al suolo, faceva groppo, trattenuta dalle erbe e forse dalle foglie che l'autunno spiccava dagli alberi. E notava sant'Agostino come si alternasse un rumore ora chiaro e distinto, come argentino, e ora sordo. E mentre medita su questo ritmo ineguale e saltuario, sente che un topo si aggira per la stanza; e Licenzio, il giovane discepolo, cercando di non fare eccessivo rumore, si appresta a colpirlo con una assicella. Così ora sono in due ad essere desti: e presto si accorgeranno che anche Trigezio era sveglio, pur esso assorto nella meditazione.  

Sant' Agostino aveva notato che il giovane Licenzio s'era dato allo studio della poesia con eccessivo entusiasmo; e lo sapeva talmente assorbito, che non sembrava possibile stornarlo verso altre meditazioni, quali le speculative, che per sant'Agostino erano indispensabili e urgenti (Hic ego nonnihil metuens ne studio poeticae penitus provolutus a philosophia longe raperetur). Adesso che sant'Agostino lo sente desto, pensa immediatamente ch'egli sia di già implicato nei pensieri della poesia (nam video tibi Musam tuam lumen ad lucubrandum accendisse) [2]. A lui il maestro comunica ora la sua osservazione sull'alternante suono dell'acqua, e così viene a sapere che anche il giovane discepolo l'aveva notato altre volte durante la veglia notturna, tanto che in sulle prime l'aveva scambiato con il chioccolìo della pioggia. E dello stesso parere è Trigezio, giacché anche lui s'è svegliato, senza che gli altri due se ne fossero accorti, dato che stavano al buio: una condizione, questa - commenta lo scrittore - che in Italia è quasi una necessità anche per la gente benestante (erant enim tenebrae, quod in Italia etiam pecuniosis prope necesse est).

Ora Licenzio dà una spiegazione abbastanza verosimile: secondo lui l'acqua è a tratti impedita dalle foglie che in quella stagione, a novembre, cadono dagli alberi e si accumulano ostruendo il libero fluire del canale, finché l'acqua che preme in maggior copia le travolge, e allora riprende a scorrere come prima: e così la vicenda si ripete a intermittenza. Tuttavia egli non sa rendersi conto perché un fenomeno come questo possa stupire il maestro; è questo stupore di sant'Agostino che costituisce la sua meraviglia. Ma è naturale - dice il maestro - perché ciò che palesemente si allontana dall'ordine delle cose produce stupore. Il discepolo non ha nulla in contrario a intendere questa proposizione di sant'Agostino; ma si affretta ad aggiungere che nulla in realtà si produce al di fuori dell'ordine. Siffatta asserzione, espressa con tanta risolutezza, consola il maestro, che già vede i primi frutti del suo insegnamento. E tuttavia gli sembra prematuro sperare di già in una vittoria della filosofia sulla poesia; e anzi, temendo che quest'ultima passione fosse ancora difficile a debellare, non riesce a dissimulare la propria irritazione: «lo mi irrito - dice sant'Agostino - perché ti vedo accanirti cantando e urlando dietro questi tuoi versi di così vario metro, i quali appunto tentano d'innalzare fra te e la verità una parete [3] più inesorabile di quella frapposta tra i tuoi due amanti: in- fatti quella lasciava almeno una fessura che a loro consentiva di sospirare i propri aneliti ».

Infatti - aggiunge lo scrittore - Licenzio allora era solito cantare di Piramo: Irritor - inquam - abs te versus istos tuos omni metrorum genere cantando et ululando insectari, qui inter te atque veritatem immaniorem murum quam inter amantes tuos conantur erigere; nam in se illi vel inolita rimula respirabant. Pyramum enim ille tum canere instituerat.

Ma Licenzio è già convertito alla filosofia. Egli non sa se dipenda da una sua puerile incostanza e risibile leggerezza oppure sia dovuto a una disposizione provvidenziale, certo è che non ha difficoltà ad ammettere di sentirsi improvvisamente restio all'esercizio della poesia, tanto che non riesce ad esprimere quale ben altra luce risplenda ora ai suoi occhi. La filosofia, egli non esita a confessarlo, è più bella di Tisbe e di Piramo, più bella di Venere e di Cupido  e di altrettali amori: sed sive mobilitatem meam et puerilem levitatem ridebitis, sive aliquo vere divino nutu et ordine fit in nobis, non vobis dubitem dicere: pigrior sum ad illa metra subito effectus; alia, longe alia nescio quid mihi nunc luce resplenduit. Pulchrior est philosophia, fateor, quam Thysbe, quam Pyramus, quam illa Venus et Cupido talesque omnimodi amores.

Queste note sono un po' una schermaglia, che si chiarifica in forma dispiegata nel paragrafo 24 dello stesso libro, dopo che sant'Agostino ha mostrato l'identità dell'ordine provvidenziale con la verità essenziale dell'anima. Questa pagina ha per noi singolare interesse per la misura con cui è affrontato il problema degli studi e della poesia nell'economia spirituale dell'esperienza cristiana. Sant'Agostino è esplicito: Se tu - egli dice al giovane amico - porti tanto interesse al problema dell'ordine universale, è necessario ritornare a quei versi (redeundum tibi est ad illos versus). Infatti lo studio delle arti liberali, se viene praticato con moderazione e discrezione, prepara alla verità i suoi amici più alacri e più perseveranti e più disposti ad abbracciarla, in modo che la possano desiderare con maggiore ardore e perseguirla con più costanza e aderire ad essa con più dolcezza: ecco, Licenzio, quel che io chiamo felicità (Nam eruditio disciplinarum liberalium, modesta sane ac succincta, et alacriores et perseverantiores et comptiores exhibet amatores amplectendae veritati, ut et ardentius appetant et constantius insequantur et inhaereant postremo dulcius, quae vocatur, Licenti, beata vita). La quale - continua il maestro - non è possibile conseguire se non cercando e ricercando dentro di sé, con il totale ripudio dei beni mondani, per accogliere il magnifico sposo delle anime. Per queste il solo vivere non basta, esse vogliono vivere felici.

A questo punto sant'Agostino ritorna alla poesia, e non perchè non sia convinto della precedente dichiarazione di Licenzio, che l'aveva assicurato di posporla senza esitazione all'esercizio della filosofia, ma per inserire nel discorso una prospettiva di valori, restaurando la nozione poetica come interpretazione morale e spirituale. Il trapasso è assai delicato: in un primo tempo si trattava di respingere e condannare la poesia come unica o prevalente occupazione dello spirito, come esclusiva passione dell'anima, a detrimento pertanto di altre attività e inchieste, quali quelle rivolte alla ricerca della verità religiosa. Ma una volta che nella mente del discepolo si è ristabilita la giusta gerarchia, e che per lui la pratica letteraria è considerata secondaria e caduca rispetto all'indagine intellettuale ed escatologica, allora sant'Agostino può ripristinare la presenza e la funzione della poesia a servizio della conoscenza etica e religiosa. Senza questa previa considerazione si corre il rischio di fraintendere le parole del maestro cristiano. «Frattanto ritorna pure - egli dice al giovane Licenzio - ai tuoi versi. E sai che cosa vorrei che tu facessi? Ecco: dopo che Piramo si sarà data la morte e che la sua innamorata si sarà uccisa sul suo corpo esanime, come ti appresterai a cantare, tu stesso, in quel medesimo dolore che infiammerà il tuo carme di più veemente commozione, troverai la migliore opportunità per darmi ragione. Potrai allora sentire l'abominazione di questa orribile passione e delle velenose brame che l'accompagnano, e quindi potrai interamente dedicarti a celebrare la lode dell'amore puro e schietto, per cui mezzo le anime dotate dagli studi e abbellite dalle virtù pervengono all'intelligenza per il tramite della filosofia, evitando così non solo la morte, ma fruendo anche della più felice esistenza.» (Vade ergo interim ad Musas. Verumtamen, scis quid te tacere velim?.. Ubi se (inquam) Pyramus et illa eius supra seminecem, ut cantaturus es, interemerint, in do- lore ipso, qua tuum carmen vehementius infiammaTi decet, habes commodissimam opportunitatem. Arripe illius foedae libidinis et in- cendiorum venenatorum exsecrationem, quibus miseranda illa con- tingunt, deinde lotus attollere in laudem puri et sinceri amoris, qua animae dotatae disciplinis et virtute formosae copulantur intellectui per philosophiam et non solum mortem fugiunt, verum etiam vita beatissima perfruuntur). [4]

A queste parole, continua lo scrittore concludendo questo capitoletto, il discepolo delle Muse rimase a lungo taciturno e sovrappensiero, a giudicare almeno dal dimenio della testa con cui segnava il corso delle proprie riflessioni. Quest'ultimo tratto è assai felice nella sua contenuta sobrietà, che coglie il giovane amico esitante ad accettare il severo giudizio formulato dal maestro sull'indole morale della passione e dell'infelice sorte di Piramo e Tisbe, e perplesso sulla funzione della poesia ch'egli finora amava al di sopra di ogni altro diletto intellettuale: Hinc ille tacitus ac diu consideratione nutans, molato capite, abscessit.

È, questo, un breve e rapido episodio nell'esperienza spirituale e padogogica del maestro cristiano e dei suoi discepoli, ma già carico d'un dramma che coinvolgeva la validità della poesia e dell'umana passione che la ispira, e riduceva di colpo, e senza appello, l'esercizio dell'arte a una subordinata funzione parenetica e allegorizzante. Per il giovane Licenzio equivaleva a dover rinunziare repentinamente a un mondo di sogni e di abbandoni sentimentali, per vederli riadottare come smentite e impiegare come altrettanti antidoti e contravveleni [5].

 

 

2. La testimonianza agostiniana intorno alla favola di Piramo e Tisbe integra e collauda la funzione di Ovidio nel Medioevo. Nel testo del De Ordine si possono trovare anticipati alcuni atteggiamenti fondamentali del costume letterario medievale-cristiano, che, per essere prospettati nel IV secolo e da sant'Agostino, si pongono con valore esemplare ed emblematico. Anzitutto vi si conferma in maniera esplicita la lettura moraleggiante e allegorizzante dei testi poetici. E quel che qui importa registrare è il ricupero che si fa della poesia e della stessa eredità ovidiana in nome d'una interpretazione parenetica, capace cioè di denunziare attraverso la rappresentazione diretta gli aspetti e le antinomie dell'istinto, della passione, del peccato, per avvertire le coscienze e preservarle da simile esperienza. Si affaccia anche per la poesia di tipo ovidiano, ch'era poi la più osteggiata, la possibilità di ricuperarla in sede di testimonianza didattica, e si profila la posizione che sarà assunta dal più maturo Medioevo e che porterà all'Ovidio moralizzato. Ma a guardar bene si rivela anche la sorte che la cultura medievale riserverà al poeta delle Metamorfosi e dell' Arte amatoria, promovendolo al rango degli auctores e assegnandogli la parte più arrischiata e insieme più suggestiva fra tutti quanti i classici pagani [6].

Ovidio, almeno per l'episodio di Piramo e Tisbe, è già assunto a poeta dell'amore fatale, incombente, irrazionale, che conduce alla confusione, al disordine, alla morte, perpetuando i suoi sensi di esaltazione e di pietà, d'innocenza e di trasgressione, di tenerezza e di violenza. Basta appunto la sola menzione dei due amanti di Babilonia per creare una simbolica corrispondenza tra il IV e il XII secolo, quando la nuova narrativa romanza si annunzierà con la rielaborazione dell'episodio ovidiano di Piramo e Tisbe, la cui vicenda erotico-sentimentale segnerà la cifra più caratterizzante del nuovo orientamento letterario. 

Anche se si dovesse ammettere, come minima illazione della pagina agostiniana, che il «Piramo e Tisbe» cantato dal giovane Licenzio non fosse che il frammento del quarto libro delle Metamorfosi, la stessa circostanza che la favola ovidiana circolasse staccata come poemetto autonomo, è un documento assai prezioso. Vuol dire che anche allora, otto secoli prima, il mito di amore e morte, qual è raffigurato nel destino di Piramo e Tisbe, aveva acquistato una sua piena indipendenza e correva come narrazione lirico-sentimentale di compiuta struttura.

Ma c'è di più. Per quanto gli accenni di sant'Agostino non risultino espliciti, tutto fa supporre che il componimento «cantato e urlato» da Licenzio non rappresenti il testo ovidiano, ma sia una libera rielaborazione personale del giovane discepolo. In effetti si capisce dalle parole di sant'Agostino che Licenzio doveva "sovrastare" in quei giorni a una sua composizione originale, come variazione metrica del celebre tema ovidiano. Non solo il preciso e inequivocabile riferimento all'occupazione di Licenzio che tentava «vari tipi di metri », ma anche l'espressione seguente dovrebbero togliere ogni dubbio: - lo, dice sant' Agostino, ho lottato perché tu cessassi d'intrattenerti con Piramo e Tisbe (Ego... qui expugnavi ne cum Pyramo et Thisbe colloquereris, I 12). Il "colloquio" stabilito dal giovane scolaro con i due amanti implica una propria elaborazione del mito. Tanto più che l'attitudine di Licenzio alla poesia e alla composizione lirica a noi risulta da altre ammissioni dello stesso sant'Agostino. Nel trattato Contra Academicos, composto anch'esso a Cassiciaco e poco prima del De Ordine, una sua pagina in proposito ci esenta da ogni altra perplessità. Sant'Agostino riferisce, termini della disputa filosofica impiantata con i suoi ospiti sulla traccia di Cicerone, per vincere nella sua stessa coscienza i residui pirroniani e le propensioni allo scetticismo che gli derivavano dal retaggio mentale della Nuova Accademia. E durante una pausa delle loro discussioni, egli ha modo di osservare ancora una volta la passione per la poesia del suo giovane discepolo: - Al nostro ritorno, trovammo Licenzio, di cui mai tutta l'Elicona avrebbe potuto sedare la sete, mentre a bocca aperta escogitava di comporre dei versi. Appena a metà della nostra refezione, che peraltro appena iniziata si può dire che era già terminata, egli si era allontanato furtivamente, senza neanche aver bevuto.

lo ti auguro - gli dissi - di possedere finalmente in pieno l'arte poetica che tanto brami: e non perché questa perfezione mi faccia veramente pia- cere, ma perché capisco che tu la desideri tanto che solo raggiungendola compiutamente essa ti potrà dare quella sazietà e infine quel disgusto che suole appunto arrecare la perfezione conseguita. Inoltre, poiché tu possiedi una bella voce, preferirei sentirti declamare i tuoi versi, anziché vederti cantare, come gli uccelli chiusi nelle loro gabbie, i versi di quelle tragedie greche che tu non comprendi. Pertanto ti consiglio di andare a bere, se tu vuoi, e di ritornare alla nostra scuola, se tu ancora nutri stima per l'Ortensio [7] e la filosofia. A dire il vero, tu avevi già dedicato a quest'ultima alcune dolcissime primizie nella tua discussione con Trigezio; ed essa, in effetti, ti aveva infiammato, più ardentemente della tua stessa arte poetica, alla scienza delle grandi cose veramente feconde. Ma, pur desiderando di ricondurvi allo studio di quelle discipline per il cui tramite si educa lo spirito, temo di spingervi in un labirinto e mi rincresce quasi di avere così represso il tuo fervore poetico. - Ed aggiunge il maestro: - Licenzio si fece rosso e si allontanò per bere. Aveva infatti molta sete, ma anche trovava così la maniera di evitare ch'io gli dicessi ancora altre cose e più aspre [8]

Non abbiamo più dubbio: Licenzio è poeta, e il suo «Piramo e Tisbe» è composizione originale, anche se, com'è senz'altro da ritenere, sia ricalcata sui versi ovidiani. Questa circostanza è di estrema importanza. Per bocca di sant'Agostino noi abbiamo un episodio della cultura classicheggiante nel IV secolo che prefigura una situazione pressoché analoga di sette-otto secoli dopo, nell'Occidente mediolatino e francese. E viene il sospetto che una tradizione in questo senso e con questo repertorio s'era dovuta continuare durante il lungo intervallo, sulla scorta appunto della poesia ovidiana e dei miti delle Metamorfosi. E così, quando la narrazione di Piramo e Tisbe ricompare nel primo cosiddetto umanesimo francese e sollecita la fantasia di Matteo di Vendôme e dell'anonimo poeta francese, forse non si tratterà tanto di una riscoperta quanto dell'estremo traguardo di una secolare trafila di imitazioni e rimaneggiamenti, che si dipartivano dal tempo di sant'Agostino e nel secolo d'oro della letteratura del Medioevo francese trovavano il clima finalmente più propizio e più fertile [9]

 

 

 

Note

 

(1) - * Apparso nel vol. «Romania» (scritti offerti a FRANCESCO PICCOLO, Napoli, 1962, pp. 97-108). Si veda soprattutto MAURICE TESTARD, Saint Augustin et Cicéron («Cicéron dans la formation et dans l'oeuvre de saint Augustin»), Paris, 1958.

(2) - De ordine I 6: ci si vale dell'ediz. di R. JOLIVET, Paris 1939.

(3) - La «parete» che divide i due amanti, assunta da sant'Agostino a simboleggiare la barriera della poesia che si ergeva a impedire il contatto con il mondo speculativo e religioso, ha trovato un impiego altrettanto metaforico in un passo della Divina Commedia (Purgatorio XXVIII 36): «Or vedi, figlio: - tra Beatrice e te è questo muro». Nessun interprete, né antico né moderno, ha sospettato che l'immagine del «muro» che si frappone tra Dante e Beatrice sia stata suggerita al poeta proprio dal mito di Piramo e Tisbe ch'egli si accingeva a rievocare nel verso seguente «Come al nome di Tisbe aperse il ciglio - Piramo in su la morte». Il « muro » è un'anticipazione allusiva alla vicenda dei due innamorati, divisi da una parete insuperabile, che era quella delle loro rispettive case, ma che a sant'Agostino e a Dante suggeriva un senso traslato.

(4) - Più avanti lo stesso scrittore precisa il senso di questa proposizione. Anche la poesia, cioè, al pari di ogni altro fenomeno, serba per gli amici della verità un preciso linguaggio, che sempre, in ogni istante e ad ogni circostanza, manifesta la bellezza della ragione e opera positivamente sulla coscienza, solo che si sia intrinsecamente disposti a cercarla, ad ambirla, a fruirla: Quid enim non ambiunt, qua non peragrant oculi amantum, ne quid unde innuat pulchritudo rationis cuncta scientia et nescentia modificantis et gubernantis, quae inhiantes sibi sectatores suos trahit quacumque atque ubicumque se quaeri iubet ? Nam unde aut ubi non potest signum dare? (I 25).

(5) - Basta leggere questa pagina di sant'Agostino con una certa intenzione per forzarne i sensi, com'è accaduto a H. J. MARROU nel suo classico libro (Saint Augustin et la fin de la culture antique, Paris 1958 p. 497). Partendo da un passo delle Confessioni (3, 6), ove sant'Agostino dichiara che agli errori dei filosofi egli preferisce le favole dei poeti, perché queste, lette e integrate convenientemente, possono costituire per l'anima un vero nutrimento (secondo la trasposizione allegorico-morale), il Marrou sollecita dalle righe del De ordine un significato che esse non hanno, almeno nella misura da lui prospettata, tanto da far sospettare una lettura frettolosa e incauta: "A Cassiciacum il allait plus loin encore: défendant la poésie contre le dédain de ses jeunes disciples, trop vite et trop pleinement convertis à la philosophie, il conseillait à Licentius de poursuivre son poème interrompu sur Pyrame et Thysbé, en célébrant sous leur nom le pur amour où l'ame s'unit par la philosophie à l'intelligence."

(6) - Mi permetto rinviare al mio saggio La tradizione di Ovidio nel Medioevo (I. Premesse) in «Filologia Romanza » VI (1959) pp. 185-224 (ed ora in questo volume); si veda anche JEAN LECLERCQ L'amour des lettres et le désir de Dieu. lnitiation aux auteurs monastiques du moyen âge, Paris 1957, specie il cap. VII: Les études liberales.

(7) - Per il perduto dialogo di Cicerone e la sua decisiva influenza ad orientare l'interesse di sant'Agostino verso i problemi filosofici, si rimanda all'opera già citata di MAURICE TESTARD, su sant'Agostino e Cicerone (qui sopra, al paragr. 1)

(8) - Si cita dall'ediz. cit. di R. JOLIVET: Et cum radissemus, invenimus Licentium, cui nunquam sitienti Helicon suvenisset, excogitandis versibus inhiantem. Nam de medio pene prandio, quamvis nostri prandii idem initium qui finis fuit, clam surrexerat, nihilque biberat. Cui ego: Opto quidem, inquam, tibi ut istam poeticam quam concupisti, complectaris aliquando: non quod me nimis delectet ista perfectio, sed quod video te tantum exarsisse, ut nisi fastidio evadere ab hoc amore non possis, quod evenire post perfectionem facile solet. Deinde cum sis bene canorus, malim auribus nostris inculces tuos versus, quam ut in illis graecis tragoediis, more avicularum quas in caveis inclusas videmus, verba qual non intelligis cantes. Admoneo tamen ut pergas potum, si voles, et ad scholam redeas nostram, si tamen aliquid iam de te Hortensius et philosophia meretur, cui duleissimas primitias iam vestro illo sermone libasti, qui te vehementius quam ista poetica incenderat ad magnarum et vere fructuosarum rerum scientiam. Sed dum ad istarum disciplinarum, quibus exeoluntur animi, circum revocare vos cupio: metuo ne vobis labyrinthus fiat, et prope me poenitet ab illo te impetu repressisse. Erubuit ille, discessitque ut biberet. Nam et multum sitiebat, et occasio dabalur evitandi me, plura fortasse atque asperiora dieturum (IV 8).

(9) - Per questo problema basterà riferirci al classico volume di E. FARAL, Recherches sur les sources latines des contes et romans courtois du moyen âge, Paris 1913, specie il primo capitolo (Le poème de Piramus et Tisbé et quelques romans français du XIIe siècle, con l'appendice: Deux poèmes latins), da integrare con il bel lavoro di FRANCESCO BRANCIFORTI, che ha edito e analizzato il poemetto francese (Firenze, 1959), corredandolo di una introduzione che illumina l'intero episodio culturale. Si veda inoltre la prima parte delle "dispense" di SALVATORE BATTAGLIA, L'idea amorosa nella narrativa romanza, Napoli, Liguori, 1960.