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CONVENTI agostiniani: Porto d'Adda

La scalinata che porta al Santuario della Madonna della Rocchetta

La scalinata che porta al Santuario della Madonna della Rocchetta

 

 

CONVENTO DI S. AGOSTINO A PORTO D'ADDA

 

 

 

Il fortilizio Visconteo-Sforzesco di Santa Maria della Rocchetta sopra Trezzo

di don Rinaldo Beretta

tratto da APPUNTI STORICI SU ALCUNI MONASTERI E LOCALITÀ DELLA BRIANZA

Seconda edizione ampliata edita da SCUOLE GRAFICHE ARTIGIANELLI PAVONIANI, Monza 1966

 

 

 

Il fortilizio Visconteo-Sforzesco di Santa Maria della Rocchetta sopra Trezzo Presso Porto d'Adda, là dove il naviglio di Paderno sta per confluire nell'Adda, s'innalza tra questa e quello, in mezzo alla valle, l'altura della Rocchetta. Su quest'altura rocciosa, la quale scende a picco sul fiume e guarda i confini di tre provincie, la comasca, la milanese e la bergamasca, un dì sorgeva un piccolo convento dedicato alla Madonna, trasformato poi in fortilizio visconteo-sforzesco e detto perciò di Santa Maria, od anche « supra Abduam », « supra Tricium », «fortezza de Sancta Maria de Trezo ».

Lassù, in alto, oggi vi domina ancora, quasi reliquia del passato, la chiesina di S. Maria, le cui origini ci ricordano uno dei momenti più interessanti della vita milanese: l'erezione del Duomo di Milano. Beltrando o Beltramo « de Cornate », dottor fisico e cittadino milanese [1], non contento di concorrere con offerte alla costruzione del magnifico tempio di Milano, volle ancora, desiderando di cambiare in doni celesti i beni di questa terra, poco prima del 1389 far erigere « de novo » nei suoi possessi della Rocchetta un conventino con annesso un oratorietto, o chiesina dedicata a S. Maria, col suo campaniletto con campana. Dotatolo con una parte dei suoi beni, lo donò ai frati eremitani di S. Agostino. [2]

All'accettazione di quel pio dono ostava la bolla di Bonifacio VIII, per la quale si vietava agli ordini mendicanti di assumere nuovi luoghi. Il padre Bartolomeo da Venezia, generale dell'ordine, inoltrò supplica a Bonifacio IX, perché volesse concedere ai frati eremiti Agostiniani di Milano di poter raccogliere la pia donazione. Il Papa, derogando ai decreti di Bonifacio VIII, annuì con bolla del 1389, salvi sempre i diritti parrocchiali.

 

Il piccolo convento prese tosto a prosperare. Il 26 ottobre 1397 i padri, al suono della campana, si raccolsero in capitolo nel refettorio della casa per deliberare sul mezzo migliore di affittare i loro beni donati da Beltrando. Si diede il mandato al priore del convento, frate Marco da Merate, e a Giovannino de Pusterla, Andreolo da Soma, Bartolomeo de Marco, tutti frati professi costituenti la « maior et sanior pars... et etiam tres partes ex quatuor partibus omnium fratrum et totius capituli et conventus dicte domus ».

Sette anni più tardi, nel luglio del 1404, le porte della chiesa di Santa Maria della Rocchetta si apersero per raccogliere nella pace del sepolcro le mortali spoglie di Lodovico Visconti, figlio legittimo di Bernabò, morto vittima della ragion di stato nel castello di Trezzo nell'età di quarantasei anni, dove dalla morte di suo padre, era stato tenuto prigioniero dal cugino Gian Galeazzo [3].

Senonché il convento, benché situato nella boscosa e deserta valle dell'Adda, non doveva a lungo godere della mistica quiete, né i frati salmodiare in pace. Nella prima metà del secolo XV su queste sponde fu un infuriare di lotte tra guelfi e ghibellini, tra veneti e ducali. Il convento della Rocchetta andò travolto da quegli avvenimenti. I padri per le continue violenze ed oppressioni dei soldati che militavano in quelle parti, dovettero abbandonare il convento, che tuttavia continuò a sussistere canonicamente, disperdendosi per i paesi circonvicini e aiutando le chiese secolari. Il luogo, divenuta l'Adda nel 1428 confine tra la Signoria veneta e il Ducato milanese, si prestava molto bene alla sorveglianza dei diversi guadi lungo la costiera del fiume [4].

Filippo Maria Visconti fece occupare e ridurre a fortilizio il piccolo convento ponendovi di guardia un castellano con alcuni soldati. La chiesa fu risparmiata, come risulta da un'ispezione ducale del 1458 [5]

Per la lontananza dei frati molti beni del convento andarono perduti o incolti.  

 

Nel decreto del generale dell'ordine Ambrogio Coriolano del 20 ottobre 1484, per il quale s'imponeva la soppressione e l'incorporazione, con tutte le sue ragioni e pertinenze, del convento della Rocchetta con quello di S. Marco in Milano, è detto come « iam fere annis quinquaginta et ultra a nostris fratribus destitutus et derelictus et per duces Mediolani occupatus, et in fortalitium deductus ob conservationem et custodiam fluminis Abduae atque castellano et custodibus traditus, ita ut longissimis temporibus fratres ibidem stare non potuerunt neque possunt, et licet ibidem per Provincialem sit deputatus Prior cum solutione collectae et oneribus Provinciae, attamen hoc fuit et est potius in scandalum Religionis quam ad honestatem, cum hujusmodi Priores habitent in domibus saecularium, et magis deserviant Ecclesiis saecularium et utilitati propriae quam conventui et religioni, ac etiam multa bona ipsius conventus sunt admissa et perdita ac etiam transeunt inculta propter absentiam ipsorum fratrum; nos igitur... » ecc.

Il decreto del padre Coriolano rimase lettera morta, finché il generale padre Ambrogio da Viterbo lo richiamò in vigore nel 1513, curandone l'esecuzione. Papa Leone X confermò tale unione con bolla del 30 ottobre 1514. Ma l'incorporazione non divenne effettiva che nel 1517, come da istromento del 3 marzo, e ciò per l'opposizione fatta, nell'interesse della sua provincia, dal padre Lazzaro di Novara, provinciale di Lombardia. Nel 1544 gli Agostiniani di S. Marco incominciarono a comperar fondi anche in Porto, e man mano gli aumentarono così che al momento della loro soppressione (1797) erano divenuti proprietari di oltre due terzi del territorio di Porto. Con istromento 7 luglio 1544 avevano acquistato in Porto Inferiore dal milanese Gerolamo Porta della parrocchia di S. Vito in Milano la casa da nobile e da massaro con 156 pertiche di terra situate in Porto e coltivate a campi, vigne e boschi, sborsando imperiali lire 2583. I padri aggiunsero alla casa da nobile un oratorio dedicato a S. Nicola.

L'affresco, di scuola luinesca, della Madonna col bambino, avente ai lati S. Agostino e S. Nicola, che tuttora si ammira nell'oratorio, venne da alcuni attribuito a Bernardino Luini, il quale lo avrebbe dipinto allorché, si dice, quivi eludeva le ricerche governative, ospitando presso i frati di S. Marco. [6]

Ma questo non può essere se il Luini è morto non dopo il 1533, mentre gli Agostiniani comperarono la casa e vi apersero l'oratorio non prima del 1544 [7]. Chi sia l'autore non saprei, né mi fu dato rintracciarlo dalle carte del convento.

 

Morto il 13 d'agosto 1447 Filippo Maria e proclamata dai milanesi la repubblica ambrosiana, il 15 novembre 1448 venne emanata una grida contro quei cittadini che non volevano pagare il tributo al tesoro della città. Tra questi c'erano Luigi Carpani e fratelli castellani di Santa Maria sopra l'Adda. Caduta la repubblica ambrosiana, Francesco Sforza entrò signore in Milano il 26 febbraio 1450. Tuttavia la guerra tra il nuovo duca e lo stato di Venezia durò ancora per quattro anni. Il fortilizio della Rocchetta, per quanto non avesse l'importanza dei castelli di Brivio e di Trezzo, situato com'era sui confini dei due Stati, era tenuto dallo Sforza in una certa considerazione. Per tanto il 25 marzo 1450 mandò, castellano alla Rocchetta, Francesco de Cotignola con dodici paghe, metà balestrieri e metà pavesari, una morta computata, col salario di tre fiorini per paga. Né, a quanto pare, fu lasciata senza presidio la torre di Porto, poiché nel 1452 vi era castellano un Giacomo Scotto di Monza, la cui famiglia venne a stabilirsi in Cornate. La torre rimonta pur essa al tempo di Filippo Maria Visconti. I documenti ducali ci porgono due lettere del Cotignola, datate dalla Rocchetta il 15 marzo 1452, indirizzata l'una a Cecco Simonetta, l'altra allo stesso duca Francesco Sforza.

Col Simonetta il castellano si lamenta che « Bertrando d'ada et uno Raynino », addetti alla provvisione ducale, i quali stavano in « Cornà qui presso a la Rocheta » e facevano « ogni dì mille ribalderie et barratarie, robando questo et quello soto pretexto di esser provisionati » non solo non gli volevano riconoscere la licenza di poter condurre vettovaglie e biade alla Rocchetta per sé e per i suoi compagni, ma gli avevano anche sequestrato una bella cavalla, carica di grano, quasi fosse un ribelle, e che non potè riavere cavalla e grano se non sborsando un ducato. Più franco e rude, per quanto dica di farlo « cum reverentia et perdonanza », scrive a Francesco Sforza che, nonostante la lettera patente a lui concessa di poter rifornire di vettovaglie e biade la fortezza, giacchè non poteva « viver de Spirito Santo », Bertrando e Raynino osavano contrastargli il permesso.

Lo prega di fargli restituire il ducato da lui sborsato e di rifirmargli la licenza per aver vettovaglie; diversamente, conchiude, « se degni levarmi di qui dovo stento ad modo d'un cane cum li miei compagni et per non haltra ragion d'intrare in magior desperatione chel loro così m'induce ». Francesco de Cotignola ottenne infatti di essere esonerato dalla castellania di Santa Maria della Rocchetta, e col 1° aprile subentrò Alberto de Berzano con le stesse paghe e con lo stesso salario. Le patenti del nuovo castellano erano state firmate fin dall'8 di marzo; dal che è lecito arguire che già Francesco Sforza pensava di levare dalla Rocchetta il Cotignola, forse spinto da altre lettere precedenti del castellano di volersene andare da quel luogo. Alberto de Berzano esercitò per breve tempo la sua carica, giacchè la duchessa Bianca Maria il 26 ottobre lo fece sostituire da Bartolomeo de Terzago. Questi ebbe quindici paghe, una morta computata. Del Terzago abbiamo parecchie lettere.

In una di queste, del 30 dicembre 1452, informava il duca della presenza di nemici « in la valle de sancto martino et in ysola del pregamascho », i quali andavano cercando i guadi dell'Adda per passarla. Gli ricordava che stavano vicini « a un miliaro e mezzo trey guadi, in i qualli ne sono duy si pono aguazare, el nome de l'uno è il guato de zorloto, et l'altro è il guato de peterlino, qualli non è anche facta provixione niuna, per li qualli si poterebbe danezare grandementi il paese che tempore de la bona memoria de lo Ill. quondam vostro patre, sempre in ital tempi suspecti, gli faceva fare la guarda da quaranta iìomeni ogni note, gli qualli continuamente parte di loro discoreveno la rivera, et parte stavano in la tore de porto per refrescharsi di hora in hora, a le quali guarde contribuyveno tute le tere de qua da Lamboro su questa banda. Vi facio anche un altro recordo il qualle cumsona con questo, zioè la tore de porto serà anche cum mancho pericullo et mellio guardata et più utili al stato de la Ill. S. vostra, per questi respecti che il castellano dessa tore non gli è dentro che homo sia se non luy et uno suo fliòlo et la più parte del tempo luy sollo ».

La vita che si conduceva lassù nel forte della Rocchetta, sperduto in mezzo a solitarie boscaglie e come tale più adatto ad un eremo di frati che ad una guarnigione di soldati, non doveva essere certamente piacevole. Infatti il 26 gennaio 1453 il Terzago scriveva al duca, lamentandosi della poca paga che riceveva, e che i soldati a stento rimanevano in quel luogo deserto, dove bisognava « comperare perfino a lo solle ». Ma più di tutto si lamentava dei provvisionati ducali, i quali, ribaldi e contrabbandieri, accusavano il castellano della Rocchetta di far del contrabbando per coprire le loro furfanterie. Questi lo spiavano, e la notte del 17 gennaio avevano mandato quaranta fanti sotto il forte « a morir de fredo », credendo che in quella notte il castellano facesse condur del grano. I suoi nemici lo avevano accusato presso il duca di non attendere come si doveva alla guardia della fortezza. Alle osservazioni del duca rispose con lettera del 17 settembre 1453 com'egli facesse del dì la notte e della notte dì, e che quando gli accadeva di allontanarsi curava si facesse buona guardia, lasciandovi suo fratello assai più abile di lui.

Gli ricordò infine che dopo tutto lassù stentava come un cane. Ma in seguito fu ridotto a sei paghe, una morta computata e anni dopo non mancherà di ricordare l'affronto ricevuto in sua lettera al duca del 27 ottobre 1458, scrivendo: «ho avuto notitia ... che molta gente d'arme ... siano nella notte venuti in la vale de Sancto Martino ... aziò quella fortezza (di Santa Maria) non sinistrasse per manchamento, replicarò recordi facti alla S. V. nel ano 1454, videlicet ternpore quo la cecha de S. V. me fece la detratione de le paghe, recordando alla Ill. S. V. essa forteza zoè la Rocheta da Sancta Maria essere devixa, et che non era possibile guardarla nixi cum paghe quindeci ala più streta provixione, al che la S. V, per li collaterali V. me fu facta resposta, che non dubitassi che la S.V. aveva tal fraternità cum la S. de Venetia non aveva dubitare, et che quando la V. S. avesse uno suspecto farebbe tal provisione », ecc.

 

Non poche seccature ebbero il castellano della Rocchetta e Giacomo Scotto della torre di Porto, riguardo al contrabbando di grani e di sale verso il territorio veneto, che avveniva attraverso i guadi dell'Adda da Trezzo su fino a Paderno.

Anzi più che sospettati era stati accusati presso il duca di aver mano in quelle frodi e ricavarne illeciti guadagni; i « quali dui volendo esser valenthuomini non si poria froxare per quelli passi ». In una lettera del 13 giugno 1455 Marcolo de Marliano, Giovannino Barbato e Gaspare Santo, residenti nel castello di Trezzo, pensano di deputare delle persone di fiducia, due o tre con le loro famiglie, in modo che Iacomo Scotto se torni a Cornate con la sua famiglia, ma che per la Rocheta nulla essi potevano fare perché il castellano non avrebbe accettato senza lettera ducale. E cinque giorni dopo i sopradetti tornavano ad avvertire il duca come qualmente il contrabbando si commette « per mani del castellano de la Rocchetta di Sancta Maria, et per mano dun Iacomo Scotto da Cornate habitante in la torre de Porto qual fece cassare la S. V. ad questo anno novo proximo », e che perciò hanno deliberato di mettere insieme a detto Iacomo una persona di fiducia.

« Ma tale Iacomo, che non può fare i guadagni che vorrebbe, specialmente ora che i prezzi dei grani sono rincarati, verrà dalla S. V. per ottenere di rimanere da solo nella guardia della torre ». Come se la cavassero il Terzago e lo Scotto non mi risulta. Il castellano della Rocchetta continuò nella sua carica, segno evidente che avrà trovato modo di giustificarsi presso il duca di quelle accuse. Impedire il contrabbando fu sempre un impegnativo per tutti i governi: naturalmente non mancavano talora manutengoli e interessati al contrabbando tra coloro stessi che dovevano impedirlo. Il fortino della Rocchetta e la torre di Porto non erano in realtà che posti di guardia per sorvegliare eventuali movimenti nemici sull'altra sponda veneta, e impedire gli sfrosi dal milanese nella Signoria veneta.

 

Sotto Medolago, sulla riva del fiume di fronte alla Rocchetta vi stava un molino per il quale, sul finire del 1455, si era costruita una nuova chiusa. Il 28 gennaio dell'anno seguente il podestà di Trezzo Ambrogio Convoldo, e Zanino Barbato ne informarono il duca, avvertendo innanzitutto che molti uomini della Serenissima passavano nel milanese. E aggiunsero: « Item iuxta Medolago da Bergamascha, qual è per mezo la Rocheta de Sancta Maria sopra Ada, è uno zapello per il quale passa nave quale sono del canto de là », e conducono legname e biade. «Et lì ad quello luoco è facta una palificata nova in Adda de palle XXIIII, più del usato ad uno molino del canto de là, quale piglia quaxi più del terzo del fiume Adda, quale non fuy più basso sete anni fa, et prova questa talle palificata ad tempo per uno guado poter passar » ecc. In merito a questa chiusa abbiamo del 28 febbraio 1459 un'altra lettera da Trezzo di Marco Marliano [8] nella quale si dice ... « et certo me meravigliai, et meraviglio che el castellano de la Rocheta de Sancta Maria, quale stando in la Rocheta pò vedere la dicta chiusa, gli habia consentito lui, et non lhabia notificato ad la S. V... Et è la dicta chiusa larga brazi doa et mezo facta con palli et fassine et talmente forte che gli andarà pur su uno cavallo caricho, como el faria per terra ferma. Et è longa braza cento vinti. Et viene tanto nel Ada che per doi canaletti se poteria passare dal canto de qua. Et forte in modo che duraria cento anni, ne laqua punto potria guastare ne menar via » ecc. Come siasi risolta la cosa non mi consta. Sembrerebbe una quisquiglia questo della chiusa, ma allora aveva la sua importanza, in quanto il letto del fiume spettava al ducato di Milano, in base ai capitoli tra i due stati confinanti.

E appunto nel marzo del 1498 sorse una controversia per ragione di confini tra Milano e Venezia, allorquando sudditi veneziani presero ad edificare un molino sull'Adda di fronte ad Imbersago.  

 

Da un'ispezione d'ordine ducale del 1458 per la nostra Rocchetta venne stabilito, come già si è accennato, di rimettere in piena efficienza il fortilizio col far eseguire al più presto quanto fosse necessario (una cisterna, una saracinesca, alcuni merli, riparare le coperture del fabbricato, ecc.), e nello stesso tempo restaurare anche la chiesuola che, abbandonata a se stessa, minacciava di sfasciarsi completamente. L'8 marzo 1466 moriva il duca Francesco I Sforza, e la duchessa, assente il figlio, ne assumeva provvisoriamente la reggenza. In vista di eventuali complicazioni per il ducato, il capitano della Martesana Ottaviano Turco ebbe senz'altro l'incarico di ispezionare e rimettere subito in assetto la Rocchetta di Santa Maria, la torre di Porto, e il castello di Brivio. Nella sua relazione del 10 marzo abbiamo che fece rifornire la nostra Rocchetta di 5 mogia di grano, e che vi spedì un carro di assi per fare «mantelletti » (una specie di parapetto).

Il castellano non trovò necessario per il momento un aumento del presidio. Per la torre di Porto scrive: « Ho facto fortificar anzi me sia prescritto da la Imprixia la tore de Porto, et li ho ordinato che die noctuque li stiano homini XXIIIJ del paexe sì per la guardia de la tore, come etiam pur trascorrere per la rippa d'Adda per lì de torno a ziò che periculo non li possa cadere ».

A Francesco Sforza successe nel ducato il figlio Galeazzo Maria. Tra le prime cure del giovane duca e di sua madre Bianca Maria, fu di ben vigilare i confini dello stato e che vi si facesse buona guardia. Perciò il duca, dopo aver confermato il 15 aprile 1467 Marco Marliano castellano di Trezzo, e mandato il 1 luglio castellano a Brivio Stefano de Marliano con dieci paghe, due morte computate, pensò di provvedere anche al forte di Santa Maria della Rocchetta che ne aveva maggior bisogno. E poiché il castellano della Rocchetta lasciava a desiderare nel disimpegno della sua carica, il duca lo surrogò con Antonio Mirani de Vailate, allora connestabile della torre di Como, con lettere patenti dell'ultimo giorno di settembre del 1467.

 

Al nuovo castellano vennero fissate dodici paghe, una morta computata, metà balestrieri e metà pavesari, con lo stipendio di tre fiorini di paga, ma coll'obbligo di tenere compagno il figlio Cesare. A questi si doveva sborsare mezza paga morta. Alla torre di Como mise Antonello de Santo Cristoforo che stava alla guardia della bastia e del ponte sul Po a Piacenza, e quivi mandò Domenichino da Pietrasanta caporale dei provvisionati nel castello di porta Giovia. Di questi cambiamenti da lui fatti il duca informò la madre con lettera del 3 ottobre 1468, pregandola specialmente a voler confermare la nuova elezione di Antonio Mirani, « che è persona da bene et fidato, et sempre li suoi sono stati servitori delli nostri predecessori s. Visconti, incominciando dal duca Zohanne et poi della felice memoria del s. vostro padre et mio avo, et successive esso Antonio dell'Ill.mo quon. s. mio patre ».

Antonio Mirani, riconfermato dalla Duchessa Bianca Maria, se ne venne alla Rocchetta munito delle seguenti rigorose istruzioni:

« Galeaz Maria Sfortia Vicecomes Dux Mediolani etc. Antonio de Vailate. Volimo et te comandiamo che per quello tempo staray alla guardia della forteza de sancta maria de trezo, de la quale te havemo ellecto castellano, debii servare li ordeni infrascripti et ad quilli non contrafaray may ne consentirai ad chi li contrafacessi o tentasse contrafare per dricto ne per indirecto per alcuna casone o rasone quale dire o imaginare se potesse, sub pena amputationis capitis tui et perditionis fidei, anime et corporis, et de perdere tutti li toy beni presenti et da venire, overo ogni altra pena che ad noy parirà. Primo. Volimo che con singulare fede et diligente guardia in ogni tempo guardi tegni et conservi dicta forteza ad nostro nome, instancia et peticione, et de quello delli nostri figlioli legitimi che serà successore in questo nostro ducato et dominio; et quella, per ambassate et comandamenti te fosseno facti, né per lettere te fossero scripte per chi se sia, non consigneray may ad homo se non ad chi nuy te diremo de nostra propria bocha aut ad chi te scriveremo per lettere sottoscripte de nostra propria mano, signata de mano de uno delli nostri segretari, et sigillata del nostro ducale sigillo in cera biancha et te portarà el contrasegno havemo con ti, et precipue quello te havemo dato de nostra propria mano, senza el quale se ben havessi tutti li altri contrasegni non consigneray dicta forteza. Ma se te lo scrivemo per lettere sottoscripte de nostra propria mano con el contrasigno te havemo dato de nostra propria mano, alhora la conconsigneray secondo te scriveremo se ben non havessi li altri contrasegni, perché volimo che quello solo senza l'altri basta, ma l'altri senza quello, non. Secondo. A ciò che per trovarte fora della rocha non te occoresse manchamento, como già è intervenuto ad atri, non volemo che, per lettere te fossero scripte ne per ambassate o comandamenti te fossero facti per chi se sia, debii may ne de dì ne de nocte uscire de dicta forteza se non haveray licentia da nuy ad bocha o inscripta et sottoscripta de nostra propria mano, signata de mano de uno de nostri secretarii, sigillata del nostro ducale sigillo in cera biancha et ancora sigillata dentro della nostra corniola che impreme uno arboro et uno pino, et in pede d'esso pino uno cane in cera rossa, como serà qui de capo, et lo contrasegnio te havemo dato de nostra propria mano, senza el qual non usceray ancora che havesse tutti li altri contrasegni. Ma se te daremo licentia sottoscripta de nostra mano con lo contrasegno te havemo dato de nostra propria mano, alhora usciray, se ben non havesse l'altri, contrasegni, perché volimo che quello solo vaglia senza l'altri, ma l'altri senza quello, nò. Tertio. A ciò che per acceptare gra numero de zente in la forteza non ne fosse cacciato fora ti, como già è intervenuto ad altri, non volimo che per lettere te fossero scripte, né per ambassate o comandamenti te fossero facti per chi se voglia, debii acceptare in dicta forteza più de due persone ad uno tracto, et quelle intrate non lasserai intrare altre se le prime intrate non serano uscite. Et quando noi vorimo che per guardia d'essa forteza o per altra casone, salvo nel caso del consignare la rocha nel quale volimo servi e! primo capitulo ad litteram como sta, lassi intrare maior numero de due persone o te lo diremo de propria bocha aut tello scriveremo per lettere sottoscripte de nostra propria mano, signata de mano d'uno delli nostri secretarii sigillata del nostro ducale sigillo con cera biancha et sigillata dentro della nostra corniola, che impreme uno homo et una bissa in cera verde, como serà qui de capo, et el contrasegnio te havemo dato de nostra propria mano senza e! quale non accepterai alcuno dentro et che avesse tutti gli altri contrasegni. Ma quando tello scriveremo per lettere sottoscripte de nostra mano et te manderemo dicto contrasegnio te havemo dato de propria mano, exeguiray quello te scriveremo et che non havessi l'altri contrasegni perché volimo che quello, che quello solo, vaglia senza l'altri, ma l'altn senza quello, nò. Quarto. Volimo che tucte le nostre munitione troveray in dicta forteza, aut li faremo mettere per l'advenire, le guardi et conservi molto bene, et de quelle, per lettere te fossero scripte né per cosa te fosse dicta per chi se sia, non ne consumaray ne daray cosa piccola né grande ad homo del mondo, se non haveray licentia da nuy ad bocha aut inscripto et sottoscripta de nostra propria mano. Quinto. Volimo che, oltra dicte nostre munitione, habii et tenghi in dicta forteza tante victualie de le tue che bastano per ti e per li toy per un anno, videlicet; moza tre de formento, stara quattro de farina de formento, brente sei de vino, bnenta uno de aceto, peso uno de olio, peso uno de carne salata, peso uno de formagio, libre doe de candele de sevo, staro uno de sale, paro uno de calze et duy de scarpe, et carro uno de legna per cadauno compagno, tucti alla mesura et peso milanese. Sesto. Semo contenti che in dicta forteza possi vendere pane, vino, et carne senza dacio alli toy tanto, et in quella non volemo lassi zugare ad zogo niuno dishonesto ne presti né lassi prestare ad usura, né fare arte de lanificio, né fare altre arte dove concora multitudine de zente, né patiray che per questa se fraudano li nostri dacii. Imo ali datiani prestaray ogni aiuto et favor honesto. Septimo. Volimo che continuamente tenghi tucte le tue paghe, per mità balestreri et l'altra mità pavesani, apte, fidate, et apparisente, che non siano de quella Terra ne de loco presso mancho venti miglia né del Dominio de Venetiani, né li habiano patre, matre, fratelli, figlioli, né sorelle, né parenti, et dessi non ne lasseray uscire fora alcuno né de dì né de nocte senza licentia nostra, salvo che de dì siamo contenti ne lassi andare per toy et loro bisogni fora uno o duy, con questo che la sera alle XXIII hore se trovano tutti alla sua guardia. Semo ancora contenti che, per fare tue rasone et per mandare per victualie, possi mandare uno delli toy che stia absente per uno mese, l'andare, stare et retornare computati. Item te concedemo licentia che alli toy possi lassare tenere le mogliere fino in tre, dummodo non siano de loco presso quella rocha mancho de venti miglia, et non li abiano patre, matre, fratelli, sorelle, né parenti, et non siano del dominio de Venetiani, et tu né alcuno delli toy non farete parentado senza nostra licentia. Alla porta de dicta forteza teneray tal guardia che niuno li possa intrare, se non con tua licentia et secondo questi nostri ordeni. Octavo. Non volimo che in quella forteza accepti persona alcuna senza nostra licentia, aut se non te serano consignati da nostri officiali per rasone de stato o altre cose importante, et quelli accepteray per qual se sia de dicte casone. Non li lasseray senza nostra licentia sottoscripta de nostra propria mano. Nono. Accadendo te sentire cosa alcuna sia contra e! stato o persona nostra o delli nostri figlioli, volimo con ogni tuo potere et sapere lo deveti non sortisca effecto, et subito per tue lettere et messi ne avisi in ogni loco dovo saremo. Et questi nostri ordeni et tutte l'altre cose te serano commesse le teneray secrete et le exequiray con fede et diligentia, et cossi faray tutte le altre cose è obligato et debe fare cadauno Castellano et Servitor verso e! suo signore. Ex castris nostris apud Caresanam XX oct. 1467. Galeaz Maria Sfortia Vicecomes manu propria. Cichus [9].

Si noti che quando un castellano lasciava la carica, consegnava al nuovo entrante, dietro contrassegno ducale, il forte con tutte le sue munizioni, e se ne stendeva regolare istrumento, del quale se ne mandava copia autentica al duca stesso. Il nuovo castellano seppe corrispondere alla fiducia del duca, poiché attese con impegno alla custodia del forte dove lo colse la morte sui primi d'aprile del 1479. 

La duchessa Bona, che aveva assunto la reggenza per il figlio Giovanni Galeazzo, dopo che il duca Galeazzo Maria era caduto pugnalato nel 1476, affidò l'officio di castellano della Rocchetta a Giovanni, figlio di Antonio Mirani, 1'8 aprile 1479, in considerazione dei meriti del padre. Gli aggiunse per aiutante il Contino da Robiate. Al nuovo castellano furono assegnate dodici paghe, una morta computata, metà balestrieri e metà pavesari, col mensuale stipendio di tre fiorini, agguagliato il fiorino a trentadue soldi. Il Contino doveva percepire, oltre la sua, altra mezza paga morta. Il Contino, un antenato dei viventi baroni Airoldi di Robiate, pochi anni prima aveva sborsato cento fiorin per avere la podestaria di Mandello, la quale invece fu concessa ai conti Rusconi. Pare che, invece di restituirgli il denaro del quale egli ne reclamava la restituzione, gli si fosse promessa la castellania della Rocchetta. Caduto gravemente ammalato Antonio Mirani, il Contino, in una supplica agli eccellentissimi principi, ricordò la promessa fattagli, facendo presente anche « la sua fede et devotione verso e! stato et chel ha quatro tra fioli et abiatici in bona etate ». Gli venne allora richiesto uno stato di servizio della famiglia verso la casa ducale, che il Contino presentò alla duchessa Bona [10]. Così ottenne di essere associato nella castellania della Rocchetta con Giovanni Mirani. Questi, poco dopo, lasciò la carica di castellano. Vi rimase solo il Contino, al quale nel marzo del 1481, veniva concesso di potersi assentare dalla fortezza, qualora gli occorresse per bisogni a patto che lasciasse a custodia della medesima il figlio Desiderio.

Il Contino, divenuto vecchio ed ammalato non potendo piu attendere con la necessaria diligenza all'officio suo, domandò di essere esonerato. Il duca, o meglio il reggente zio Lodovico il Moro, con lettera del 27 agosto 1489, gli concesse l'esonero e, considerando la sua fedeltà alla casa ducale, pose in suo luogo il figlio Gio. Ambrogio, nella certezza che questi non avrebbe degenerato dai lodevoli costumi del padre. A Gio. Ambrogio veniva concesso due giorni dopo (29 agosto) di potersi assentare per bisogni dal forte, a patto che in sua assenza lasciasse alla custodia della rocca il padre suo insieme a Pedrino Airoldi. Qualora poi il padre avesse a riacquistare la sanità, e volesse perciò stare alla guardia della fortezza, gli si concedeva di potersi assentare, senza che gli venisse ritenuta alcuna parte del salario. Lodovico il Moro, morto Gian Galeazzo nel 1494, divenuto duca anche di nome, il 27 gennaio 1495, confermò a tempo indeterminato Gio. Ambrogio « vir nobilis » nella carica di castellano.

Se non che Gio. Ambrogio si annoiava lassù nel forte. Pertanto nel 1496 e nel 1497 domandò ed ottenne frequenti licenze di assentarsi, lasciando al suo posto Gio. Antonio Airoldi. Naturalmente ne veniva a scapitare il buon governo della fortezza. Infatti da una visita d'ispezione fatta da Alessandro Simonetta il 22 novembre 1497 si trovò che « Jo. Ambrosio de li Airoldi castellano de la Rocheta de S.ta M.a ha paghe dodece, computata una morta; ha ad tenere homini dece; ne ha quattro contro li ordini, et li altri sei sono tristi ».

Per questo Gio. Ambrogio ebbe il 24 marzo 1498 una riduzione di paga. Di questa riduzione il castellano si sarà facilmente consolato, giacché con testamento del 22 febbraio 1498 il fratello Don Desiderio, prevosto della collegiata di S. Pietro in Beolco, lo aveva lasciato erede de' suoi beni.

 

Giovanni Ambrogio Airòldi chiude la serie dei castellani della Rocchetta di Santa Maria. Copriva ancora la carica di castellano, quando il ducato di Milano, per l'avventurosa politica del Moro, la quale aperse il varco alle invasioni straniere all'inizio del 1500, fu travolto dai noti calamitosi avvenimenti che portarono nel 1535, con la morte senza eredi dell'ultimo duca Francesco Il Sforza, al definitivo dominio della Spagna su le nostre terre. Che avvenne del forte della Rocchetta nello svolgersi di quei gravi eventi? Nulla mi fu dato di rinvenire né dai cronisti del tempo né da altre fonti documentarie. Da questo si potrebbe arguire che il fortilizio, al pari della torre di Porto, sia stato abbandonato. Il perfezionarsi dell'arte militare e il mutarsi delle condizioni politiche, condusse nella prima metà del secolo XVI, alla scomparsa di forti o castelli, i quali erano venuti man mano perdendo della loro primitiva importanza. Lo stesso castello di Brivio passò in possesso della famiglia Brebbia. [11]

Lungo il tratto dell'Adda, che ci interessa, non rimasero in piena efficienza che quelli di Lecco e di Trezzo. Negli Atti di visita pastorale di Federico Borromeo del 1610, riguardanti la pieve di Brivio, si dice che la Rocchetta, divenuta ricettacolo di banditi e di ladroni, fu distrutta al tempo del valoroso milite Gian Giacomo Medici, non lasciando intatta che la chiesa. Ma che il fiero castellano di Musso e di Monguzzo, intento a ben altro nella sua audace ambizione, se la prendesse coi banditi e coi ladroni, si stenta a crederlo. Il Medici, al dire del Cantù, nelle sue arrischiate imprese su queste sponde, avrebbe più volte assalito, e con prospero successo, i presidii spagnoli dei castelli di Brivio e di Trezzo. [12]

Se così, potrebbe darsi che il forte della Rocchetta sia stato distrutto in qualcuna di queste fazioni. Comunque sia, di quel forte più nulla oggi rimane. Soltanto la solitaria e devota chiesina, attraverso i secoli, continua il suo dolce richiamo alla Vergine Madre.

 

 

 

 

Note

 

(1) - Beltramo de Cornate è fra i 900 decurioni del Comune di Milano eletti il 22 luglio 1388

(2) - TORELLI, Secoli Agostiniani, vol. VI, Bologna 1680

(3) - FERRARIO, Trezzo e il suo castello, Milano 1867, p. 36

(4) - La storia ci ricorda il passaggio del fiume nei pressi di Porto del ribelle Alachis contro re Cuniberto sul declinare del secolo VII; alla Bagna a due miglia circa sopra Trezzo quello dell'esercito guelfo contro Galeazzo Visconti nel febbraio 1323, e dei Veneziani nel luglio 1483 di fronte alla rocca dei Cusani nella quale si attestarono ma poco dopo ricacciati dalle forse ducali; e ancora alla Bagna quello di una colonna dell'esercito russo nell'aprile del 1799. Né va dimenticato il tentativo del principe Eugenio di Savoia di penetrare nel milanese da Suisio, di fronte a Villa Paradiso, nell'agosto del 1705.

(5) - In quella ispezione vi si ordina "de fare li corratori al cortile verso adda perché non gliene sono alchuno, et fare riconciare quelli de la corte de nanze li quali son tutti marzi, et de conciare la chiesa che va per terra, de fare recoprire tutta la casa la quale strapiove. Item de fare conciare lusso de detro et fargle una saracinescha et fare alchuni merli che non gliene sono, et anchora da fare una cisterna".

(6) - MEANI, Cenni storico-statistici di Cornate, Treviglio 1877

(7) - Arte, anno IV, 1901, fasc. IX-X

(8) - Il 12 luglio 1458 la Comunità di Trezzo chiese al duca il permesso che un Benedetto Ebreo potesse abitare in Trezzo col suo Banco esercitando prestiti in denaro. Forse il primo ufficio bancario del genere in Trezzo: "Cognoscendo nuy per ricevere comoditate assay et esserne quasi certo ad havere in Trezo un Ebreo, qual servi di soy denari ali nostri bisogni, et extreme necessitati secundo il costume ebraico, habiamo capitulato con Benedetto Ebreo, presente portatore, et siamo dacordio cum luy per venire a stare in Trezo, tenere Banco, et imprestare ad chi lo richieda iuxta la conventione et pacti conclusi, fatta fra nuy e luy…" Altra notizia interessante l'antica beneficenza in Trezzo è la supplica dell'11 giugno 1450 diretta alla duchessa Bianca da Marco Marliano, commissario e castellano di Trezzo, con la quale "ad preghiera de alcuni scholari et disciplini de Sancta Marta, quali, per quelle informationi che io ho, hanno in questa vostra terra de Trezo una chaxa ad uso di povere persone et bisogniose et che solamente è ordinata per opere di misericordia, pregano la V. Ill. S. la se digni concederli per l'amore di Dio exemptione perpetua de imbotato"

(9) - .Simili istruzioni furono date poi anche ai castellani Giovanni da Vailate e al Contino Airoldi nel 1479, e a Giovanni Airoldi nel 1489

(10) - A.S.M. Famiglie, Airoldi. "Ill.ma et Ex.ma domina. Per satisfare ala richiesta fata ali vostri fidelissimi servitori, el Contino e li trey fradelli de prete Desiderio, nepoti d'esso, tutti de li Ayroldi de Robiate, videlicet de nominare li suoy magiori et parenti et in che sono stati adoperati. Avisano. "Primo. Che d. Ambrosio avo del dicto Contino al tempo de la bona memoria del Ill.mo primo ducha fu castellano in Cassano.

" .d. Desiderio padre desso Contino al tempo de la bona memoria dell'Ill.mo quondam vostro padre fu per certo tempo excalco nel suo esercito.

" .d. Tadiolo de Ayroldis de Robiate suo Barba fu castellano in placentia al tempo del prefato primo ducha, et li passò de la presente vita in sirvitiis suis.

" .d. Gregorio et Bernabò fradelli de Ayroldis et cusini del dicto Contino fureno castellani a Savona al tempo del prefato quondam vostro padre.

"Postea. El dicto .d. Gregorio fu Conestabile in la città di Cremona. Et deinde insiema cum .d. Ambrosio, che fu padre de prete Desiderio vostro capellano, et lo dicto Contino fu castellano in Montechiaro.

" Item. Uno Barba materno desso Contino fu castellano in Montechiaro.

" .d. Mafiorino de Ayroldis de Robiate cusino di detto Contino fu castellano in Alexandria, et Zoanne Antonio suo figliolo adesso è comisario in Leucho.

" .d. Henrico fradello del suprascripto .d. Gregorio fu castellano in Alexandria et li passò de la presente vita.

" .d. Preposito de Robiate fratello del dicto Contino et Barba del dicto prete Desiderio rectore de la giesa de sancto fidele. Et tutti furono nmepoti de .d. Zohanne de Calcho.

"Petro et li frateli da Robiate citadini et habitatori de Millano sono cittadini et habitatori de Milano.

"Hanno ancora molti altri che sono stati in offitii quali passano brevitatis causa. Avisando che essi Contino et nepoti Hano valsente in Bonis Immobilis libre VI. o circa nel loco de Robiate".

A tergo: " Pro Contino et Nepotibus de Ayroldis de Robiate".

(11) - I. CANTU', Le vicende della Brianza, vol. I, p. 272.

(12) - I. CANTU', op. cit., I, p. 249; BERETTA, Gian Giacomo de Medici in Brianza (1527-1531) in Arch. Stor. Lomb., Milano 1916