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VICARI GENERALI: AGOSTINO DI CREMA

Agostino da Crema terzo Vicario Generale

Il Venerabile Agostino Cazzuli da Crema

 

IV° VICARIO GENERALE

AGOSTINO DI CREMA

(1451)

 

 

 

La dinamica personalità di fra Agostino da Crema meriterebbe forse uno studio approfondito. Negli archivi cremonesi, mantovani, milanesi, ed in altri ancora, deve giacere molto materiale sconosciuto atto ad illustrare la sua multiforme attività e l'interessante ambiente nel quale questa si svolse. Potrebbe anche darci la risposta a certi quesiti che si impongono: meritò egli la qualifica di "Venerabile", tributatagli da Padre Donato Calvi, storico ed apologista di quel ramo dell'Ordine Agostiniano al quale ambedue appartennero? Ebbe tale titolo qualche approvazione ecclesiastica? E dove si trovavano quei dipinti nei quali, secondo il Calvi, egli fu ritratto "con i raggi alle tempie?". Queste cose già se le chiese nel settecento il cronista cremasco Cesare Francesco Tintori e scrisse una lettera piena di domande alla casa generalizia dell'Ordine, non so con quale esito, ma probabilmente negativo, dato che il Tintori nulla ha potuto aggiungere a quanto copiò dall'opera del Calvi e ci lasciò nei suoi zibaldoni. Quanto sappiamo dell'attività di fra Agostino lo proclama generoso e geniale: fu grande costruttore di Chiese e conventi, saggio amministratore, predicatore di eccezionale eloquenza e fervore. In tale qualità fu - ce lo dice egli stesso - ovunque "molto ricercato" e le numerose conversioni operate testimoniano dell'efficacia della sua parola. Si dimostrò anche buon politico, accorto diplomatico ed instancabile faccendiere, molto utile alla sua Congregazione: ma della sua personalità intima, delle altezze spirituali cui seppe giungere, troppo poco sappiamo per poter arrischiare un giudizio. Perciò, lasciando ad altri di ricercare ed esaminare i documenti che potranno forse donare contorni nitidi alla figura morale avviluppata nelle iperboliche lodi di Padre Calvi, mi limiterò a toccare con lieve penna e sulla scorta di pochi documenti quanto sappiamo dell'attività sociale svolta dal geniale frate cremasco.

 

 

GLI INIZI DELL'OSSERVANZA AGOSTINIANA

Agostino Cazzuli nacque attorno al 1420 da famiglia antichissima in Lombardia e che, seppure non nobile, usava stemma gentilizio, come del resto ogni famiglia di qualche riguardo a quei tempi. Un ramo della famiglia fioriva fin dal dodicesimo secolo a Capergnanica nel distretto di Crema, dove ancor oggi esistono case che furono loro e persone che portano quel cognome: antichi documenti ci parlano di Lantelmo Cazzuli, Console di Crema, di Jacopo notaio nel 1332, e di molti altri rispettabili personaggi che sullo scudo accampavano la mestola da minestra che il dialetto cremasco ancora chiama "cassùl". In una sua relazione alla "magnifica Comunità di Crema" Agostino c'informa che entrò giovanissimo nell'Ordine Eremitano di Sant'Agostino, nel quale ed appunto a Crema apparve nel 1439 una nuova Congregazione riformata, detta "l'Osservanza di Lombardia".

Questa nascita di una nuova "religione", come allora si diceva, era stata laboriosa e movimentata, e fornì allo storico locale Pietro da Terno una colorita pagina per la sua cronaca. Egli ci racconta come un certo Latino della potente ed onorata famiglia dei Vimercati aveva macchiato l'avito blasone praticando spudoratamente l'usura. Latino morì verso il 1400, ma suo figlio Giovanni lo seguì sulla brutta strada delle estorsioni, ed a sua volta scomparve lasciando un unico figlio, Tomaso, erede del pingue bottino ma dotato di coscienza sensibile, il quale si convinse che i guadagni paterni avessero oltremodo passato il limite del lecito anche per un "nobile mercante". Sulla lettiera che la rapacità degli ascendenti aveva dorata e parata di broccati, Tomaso vegliava, tormentato da vicarii rimorsi e dal cocente desiderio di riparare a tante malefatte; e quando, quasi ad assecondare il pio proposito, il Cielo lo chiamò ancor giovane, egli stabilì con testamento rogato il 15 ottobre 1422, che a tutte le vittime dell'avo e del padre ancora reperibili fosse restituito il "maltolto". Dispose poi che il residuo, incluso l'avito palazzo (1) fosse dato ai frati di S. Agostino, purché si riducessero a vivere in stretta osservanza della regola, - segno questo che le note marachelle degli Eremitani avevano urtato la sua scrupolosa sensibilità -.

Morto lui, lasciando l'arduo compito di distribuire l'eredità a tre suoi nobili parenti - un Vimercati, un Benzoni, un Degli Uberti, assistiti dal Padre Priore dei Domenicani - la cospicua sostanza fu assalita da ogni lato.

Gareggiarono in cupidità vari suoi cugini con la Camera Ducale e con branchi di fameliche vittime - vere o d'occasione - dei defunti usurai, le cui vociferazioni minacciavano di soffocare i legittimi clamori degli Agostiniani. Vinse la tenzone il contendente più potente, ossia la Camera Ducale, che confiscò il patrimonio Vimercati come proveniente da attività illecite. Pietro da Terno opina che a voler questo fosse il Duca di Milano in persona, inspirato dal Diavolo; ma non credo che il Duca Filippo Maria Visconti avesse bisogno di incitamenti soprannaturali per aguzzare il suo noto appetito di danaro. Se però non aveva bisogno del Diavolo, ne aveva tuttavia una salutare paura che, ravvivata dalle accorate suppliche dei frati, vinse finalmente la partita a favore di questi. Filippo Maria fece "generoso dono" agli Agostiniani dei beni lasciati da Tomaso Vimercati, ed a prenderne possesso giunse dal convento di S. Marco a Milano fra Martino da Caravaggio. Questo, sbaragliati non so come gli esecutori testamentari, annunciò con pubblico atto notarile e mediante la voce del "trombetta" comunale, la sua intenzione di soddisfare ogni legittimo creditore.

Forse lo fece - le cronache non sono esplicite in proposito - ma disgraziatamente, al contatto di tutto quell'oro maledetto, fra Martino perdette la virtù e consumò buona parte del residuo "in piaceri, essendo nelle reti del mondo avviluppato" (2). Erano già passati 17 anni, e nella tomba il pio Tomaso attendeva ancora l'esecuzione delle sue volontà, quando venne a Crema a predicare un altro frate Agostiniano. Questa volta giungeva un autentico santo, già avvertito da una profezia del compito di riformatore destinatogli, e giungeva proprio quando il traviato fra Martino, "nelle peccata invecchiato", pagava con la vita i suoi eccessi e lasciava libero quanto rimaneva dell'eredità Vimercati. Forse nulla delle eccedenze peccaminose, ma solo il nucleo legittimo del patrimonio giunse fra le pie mani del nuovo venuto, che, liquidate le passività, si mise coraggiosamente all'opera costruttiva: "e perché esempio di humilitade tra i fedeli di Cristo doveva essere questa santa Religione, la summa Sapientia volse che da luoco humile et basso il principio procedesse", dice Pietro da Terno, e con queste semplici ma profonde parole assegna allo scialatore fra Martino la funzione di cieco strumento della divina volontà - umile crivello per ridurre in crusca quella farina del Diavolo (3).

Il salvatore si chiamava fra Gian Rocco, ossia come usava firmare "Magister Gianrocco" da Pavia, di cognome variamente indicato dai cronisti come "da Porzia" e "di Porciglia", mentre Pietro da Terno, noncurante della forma, dice "de Porci". Calvi Io dice bellissimo e virtuoso. Indubbiamente era energico e colto. Già lettore all'Università di Padova, poi Maestro e Priore nella sua città natia e compagno del Generale dell'Ordine Agostiniano, a varie riprese aveva tentato di abbandonare ogni carica per poter vivere con maggiore austerità. Colse perciò al volo la tanto sognata occasione di accendere una fiammella nel fuoco purificatore che sotto il nome, di "Osservanza" anime elette accendevano nei vecchi rilassati ordini religiosi. Egli prese con sé qualche altro frate di buona volontà, e poiché i frati Domenicani che abitavano poco lontano dal palazzo Vimercati non vollero altro convento vicino, comperò alcuni locali dalla famiglia de Pandini situati nella "vicinanza dei Terni" (4).

Ivi ebbe umile sede il piccolo convento dell'Osservanza, con la provvisoria Cappella in una cucina dove il camino serviva da campanile. I primi due coadiutori del "Beato" Gianrocco, considerati fondatori con lui dell'Osservanza di Lombardia, furono, secondo il Calvi, fra Giovanni da Novara e fra Giorgio Laccioli o Lazzuoli da Cremona, mentre Pietro da Terno assegna uno di questi posti di onore al cremasco fra Bartolomeo Cazzuli. Effettivamente questo fu, già prima che giungessero gli altri due, compagno e coadiutore a Crema del "Beato" (5), che lo volle con sé perché essendo amato e stimato dai suoi concittadini, sperava che sapesse calmare i vari scalmanati pretendenti all'eredità Vimercati. Ma davanti all'interesse non vale parentela, né amicizia, e gli inviperiti parenti del fu Tomaso oltraggiarono e maltrattarono anche il povero mite fra Bartolomeo (6). Benché giovanissimo, fra Bartolomeo era già da tempo frate Agostiniano, come lo era suo fratello Agostino che lo raggiunse presto nella nuova Congregazione, ed essendo i fratelli Cazzuli ambedue di salute gracile furono inviati a Bergamo "per cura". Fu cura fisica per loro, ma anche cura spirituale per i pochi superstiti Agostiniani di Bergamo. Caduti anche più in basso dei fratelli cremaschi dopo l'incendio del loro convento durante l'assalto dato a Bergamo dai guelfi nel 1403, erano stati espulsi nel 1441 dai pochi ambienti rimasti: "per povertà e malcostume" (7).

Sembra che il convento fosse inabitabile, e non sappiamo dove alloggiassero i Cazzuli, i quali però seppero farsi notare, attirandosi le simpatie dei frati e dei cittadini. Secondo il Calvi, Agostino tanto fece da "acquistare" il Monastero di S. Agostino alla sua Congregazione: "qual hor veduta quei nobili e cittadini rifiorire in Agostino e Bartolomeo la purità e l'innocenza dell'istituto primiero Agostiniano, con pubblico decreto stabilirono non convenire la cura del loro convento di S. Agostino ad altri che a quelli". Pietro da Terno racconta che i Cazzuli "presero possesso" della rovinata Chiesa dei SS. Giacomo e Filippo annessa al convento abbandonato, tanto diroccata e piena di spini che da sotto l'altar maggiore saltò fuori una lupa che vi aveva fatto la tana familiare. Il cronista cremasco commenta, con un pizzico di malignità: "tanto era Bergamo silvestre che i lupi sotto gli altari facevano i loro cubilli" (8). Fuggono i lupi dagli altari ed i peccati dalle anime dei rilassati frati bergamaschi davanti al puro fervore dei giovani e gracili fratelli, destinati l'uno a prematura morte e l'altro a sostenere con la fiamma dello spirito indomito un fisico sempre gramo e sofferente. Il 27 dicembre 1442 il Consiglio della città di Bergamo delibera d'invitare 1'Osservanza di Lombardia a prendere in consegna il convento, e vengono inviati messi alla piccola casa madre di Crema, donde il fondatore Maestro Gianrocco era già partito per piantare il buon seme a Genova, ove gli fu assegnato il convento di S. Maria della Cella a Sampierdarena (9).

Al suo posto aveva lasciato la più importante sua recluta, nientemeno che il Priore del primario convento di S. Marco a Milano, fra Giovanni da Novara, egli pure maestro e coltissimo, tanto che il suo "tugurio" a Crema divenne subito luogo di convegno per "i primi letterati di quella patria".

Volano i messi a Sampierdarena per trasmettere l'invito dei bergamaschi, e col consenso di Maestro Gianrocco fra Giovanni lascia al suo posto a Crema un'altra emerita recluta, fra Giorgio Laccioli o Lazzuoli cremonese, già Priore del convento di S. Agostino di Cremona. Accompagnato da alcuni frati cremaschi il 20 gennaio 1443 fra Giovanni da Novara entra primo Priore osservante nell'antichissimo e rovinato convento di Bergamo. Nei primi gelidi mesi le misere condizioni dell'ambiente obbligarono i frati a dormire sulla paglia e patire freddo e fame, ma nella mente fervida di Maestro Giovanni bollivano piani grandiosi per il restauro di convento e chiesa, nonché per ottenere i necessari mezzi finanziari. In un'assolata domenica di Maggio questi piani fiorirono in una grande "festa dell'offerta", cerimonia di un genere molto usato a Crema, ma forse meno a Bergamo, poiché il Calvi dice che: "mai vidde più grazioso spettacolo il cielo di Bergamo". Dopo una predica di Maestro Gianrocco, appositamente giunto, ebbe luogo fra un'enorme folla di cittadini e vallegiani la sfilata dei carri sfarzosamente addobbati e carichi di gente camuffata da angeli, demoni, ed altri personaggi sacri e profani, che portavano le ricchissime offerte dei bergamaschi per il restauro della chiesa - borse piene di ducati d'oro, calici d'argento, ricche stoffe per pianete e piviali -.

La giornata infiammata di generosità fu coronata da una drammatica scena di dedizione. Un certo capitano di nome Nicola, presente con la sua compagnia alla gara delle offerte, volle superarle tutte... con l'offerta di se stesso. Davanti all'altare dove i suoi soldati fecero ala, egli gettò le armi, s'inginocchiò ai piedi del nuovo Priore, e chiese di entrare nella Congregazione, dove ebbe il nome di fra Cristoforo. Nel diroccato convento, dove l'antichissima superstite sala capitolare sola testimoniava di bellezze perdute per sempre, presto sorgono nuovi ambienti. Rifiorisce la chiesa con nuova dedica a S. Agostino (10), che, insieme agli antichi titolari, compare in effigie sulla facciata; e sotto l'intelligente direzione di Maestro Giovanni diventa il sacrario delle arti, adorna di sculture, intagli, dipinti, mentre nel convento, come a Crema, convengono studiosi e letterati. Alla grande giornata bergamasca avevano assistito i giovani fratelli Cazzuli, primi artefici di tanto trionfo; ma poco dopo Agostino tornava alla casa madre di Crema, mentre al povero Bartolomeo cui l'incalzante malattia vietava il ritorno in patria, veniva assegnato per "compagno", ossia per infermiere, fra Benigno Peri "primogenito" del convento genovese. Non passò molto tempo e la dolce rassegnazione di Bartolomeo alla sofferenza, la sua immatura ed edificante morte lo fecero acclamare dai confratelli quale primo "Beato" della Congregazione. Poco sappiamo dell'attività di fra Agostino nei primi anni dell'Osservanza, anni torbidi quando la Lombardia era in perenne subbuglio per guerra e guerriglie tra Milano e Venezia, ed in ogni città o borgata si viveva nel costante timore di assedi e saccheggi.

Intanto l'Osservanza che si irradiava da Crema acquistava altri conventi. Da Milano, dove l'eloquenza di un frate appartenente ad un altro ramo pure riformato dell'ordine aveva svegliato il desiderio di veder rifiorire l'antica pura regola, giunse a Crema nel 1444 l'invito a fra Giorgio da Cremona di assumere il vetusto convento Agostiniano di S. Maria di Garegnano, reputato culla dell'Ordine essendo sorto laddove secondo un'antica tradizione S. Agostino si era appartato dopo il suo battesimo, ed aveva dettato alcune norme di vita ascetica ad un gruppo di eremiti ritiratisi in quel luogo allora isolato e lontano dalla città. L'edificio pieno di sacre memorie era caduto in vergognoso abbandono, tanto che fra Giovanni da Novara avendolo visitato qualche anno prima non vi aveva trovato "ombra dì religione" ossia di monaci, e, come custode, una sola donna che filava.

Con fra Giorgio si recò a Milano un gruppo di frati cremaschi, fra i quali alcuni indizi rendono probabile la presenza di fra Agostino, che poi ritroviamo nel 1447 già salito in fama come predicatore. Tornato a Bergamo, vi ottenne un trionfo oratorio seguito da molte conversioni e dalla subitanea conquista alla Congregazione di un giovane sacerdote bresciano di passaggio a Bergamo, destinato ad emergere col nome di fra Bartolomeo da Palazzolo (11). Nello stesso anno mori il Duca Filippo Maria Visconti senza lasciar eredi maschi, ed il Ducato di Milano, oggetto di aspra contesa fra diversi pretendenti, credette decidere della propria sorte con una rivolta popolare e la proclamazione dell' "aurea Repubblica Arnbrosiana". L'oro si dimostrò di cattiva lega: la repubblica sussistette malamente per due anni fra feroci lotte interne e guerre esterne contro la solita nemica, Venezia, e contro il proprio Capitano Generale Francesco Sforza, marito dell'unica figlia naturale di Filippo Maria e ben deciso a conquistarsi l'eredità dello suocero. Vi riuscì, e la nuova coppia "ducale" entrò in trionfo a Milano il 25 marzo del 1450, mentre Crema, ceduta a Venezia, diventava importantissimo avamposto, incuneato nel Ducato, della potente repubblica. Anche i conventi di Crema, trovandosi in posto di vantaggio per seguire i fili della politica in ambo gli stati, assunsero nuova importanza presso i rispettivi Ordini. Una certa impunità tacitamente riconosciuta permetteva ai religiosi di passare senza difficoltà i confini degli stati per recarsi da un convento all'altro, e questa facoltà ne faceva i messaggeri preferiti dei potentati - preziose e fidate pedine in ogni gioco politico -.

I Priori "pro tempore" dei vari conventi diventavano personaggi importanti e la loro influenza spirituale si fondeva e confondeva con quella sociale e politica. A Milano il Priore fra Giorgio, diventato nel 1449 primo Vicario Generale della Congregazione, entrava presto nelle grazie della coppia ducale, diventava il "padre spirituale" della corte milanese e, secondo il Calvi, anche il castigamatti. Se mentre i cortegiani si divertivano, correva la voce "ecco il Padre Giorgio", ognuno si affrettava a nascondere carte o dadi ed a comporsi un viso di circostanza. Egli stesso viveva fra penitenze e macerazioni, diceva Messa piangendo, e non permetteva nemmeno alla propria madre di toccarlo con un dito, eppure sapeva temperare la sua austerità con una soavità che gli guadagnò le vive simpatie della Duchessa Bianca Maria, pia, ma che pur amava le belle vesti, il ballo, e le carte da tarocchi. Il Calvi dice ch'essa "adorava le vestigia" di fra Giorgio, il quale seppe anche farsi benvolere dal Duca e ne ottenne per la sua Congregazione il dono di una nuova chiesa da erigersi sull'area della piccola antica chiesa di S. Maria di Garegnano. Sembra che in questa i frati avessero scoperto un'antichissima immagine della Vergine Incoronata, perciò, forse per questo oltre che per il desiderio di Francesco Sforza di commemorare la sua incoronazione a Duca di Milano, fu dedicata all'Incoronata la nuova chiesa eretta nel 1451 "a petizione di fra Giorgio da Cremona" (12), ultima sua soddisfazione terrena prima che la peste scoppiata a Milano nello stesso anno gli aprisse le porte del Paradiso. Del suo posto nella fiducia della Duchessa fu erede il nostro fra Agostino, evidentemente pratico già non solo del convento milanese ma anche dell'ambiente della corte, e che, nonostante la giovane età, era stato assunto all'importante carica di Vicario Generale. L'anno precedente era stato Priore a Crema, dove da tempo il primo "tugurio" aveva ceduto il posto ad un piccolo ma decoroso convento con una chiesetta dedicata alla SS. Annunziata. La cucina-cappella col camino-campanile era rimasta in funzione solo il tempo necessario per ferire la fantasia dei cronisti, e già nel luglio 1439 Maestro Gianrocco aveva messo mano alla fabbrica, aiutato dalla popolazione che faceva a gara per fornire e trasportare, "amore Dei", materiale da costruzione. Nel settembre arrivavano da Pavia le nuove campane, e da Milano papiro e pergamena per libri, ed un bel calice d'argento. L'opera sua venne proseguita energicamente da fra Giovanni, da fra Giorgio (al quale spetta il merito di aver portato a compimento la chiesa), e da fra Agostino che, nominato Priore nei 1450, e di nuovo nel 1453, faceva erigere il campanile, il refettorio, varie sale e molte celle. Per averne i mezzi, i frati si valsero della facoltà di vendere parte dei beni di Tomaso Vimercati.

Vendettero il palazzo del quale non avevano potuto usufruire, vendettero delle terre a S. Donato ai nobili Belino e Giannetto Benvenuti, e nel 1440 comprarono da Franceschino da Terno, avo dello storico Pietro, un'ortaglia adiacente al convento, probabilmente per allargare questo ed erigere il chiostro che ancora si vede accanto all'antica casa dei Terni (13). Il "libro delle spese" per l'erezione e l'amministrazione del convento nei primi anni, dove si può anche ammirare la firma autografa di "Magister Gianrocco", è per buona fortuna pervenuto fino a noi. Ivi, annotate in parte nella nitida scrittura di fra Gianrocco e di diversi Priori, ed in parte nel barbaro latino e le zampe di gallina del fattore Retino Caccia, troviamo il nome dell'architetto Antonio de Marchi (14), membro di una vera dinastia di ingegneri ed architetti, oltre l'annotazione di contratti fatti con maestri, muratori, fabbri falegnami, il tutto fra spese d'ordinaria amministrazione per "butiro", pesce salato, panno bruno, e pagamenti al barbiere "pro barbierando fratibus". Il "libro" ci parla anche di ricchi paramenti portati da Milano, libri aluminati da Pavia e Cremona, di due ricchi calici e due statuette eseguiti dall'artista locale Fondulino de Fondulis, nonché di vari dipinti di artisti cremaschi e forestieri. Troviamo i nomi dei maestri locali Pantaleone de Bianchi e Bartolomeo Cagalupi Bombelli, insieme con quelli di Giovan Andrea e Pasino Carazoli originari di Soncino, che fecero l'uno la pala per l'altare di S. Maddalena, l'altro un S. Nicola "sul muro", e troviamo anche maestro "Masino fiorentino" che eseguì una "maestà" posta sull'altar maggiore in una ricca "anchona" intagliata e dorata dal suddetto Fondulino de Fondulis assistito da suo figlio. Il convento di Milano forniva codici e forse qualche opera d'arte, ma ne riceveva anche. Vi furono inviati da Crema un S. Nicola da Tolentino dipinto su tela ed un "salmista" - probabilmente un codice miniato - ambedue opere di maestro Pantaleone de Bianchi.

Pochi sono, nel "libro delle spese", gli accenni al convento di Bergamo, dove l'attività illuminata di fra Giovanni spingeva a ritmo sempre crescente i lavori di restauro. Dal 1444 al 1476 ardette il fervore che fece di S. Agostino uno dei maggiori templi della città ed il sepolcreto preferito - vero pantheon - della nobiltà bergamasca. Quali artisti vi lavorarono? Fra questi vi fu qualche forestiero come lascerebbe pensare l'aspetto alquanto esotico della bella ed insolita facciata? Speriamo che dalle carte del convento custodite alla Civica Biblioteca di Bergamo, o da qualche archivio privato, possa uscire un altro "libro delle spese" per dirci di chi furono le mani abili che eseguirono i molti affreschi purtroppo scomparsi, le sculture ora disperse, e l'interessantissimo soffitto composto di formelle di terracotta a rilievi policromati rappresentanti persone ed emblemi, unico nei suo genere ed ancora salvo, grazie all'altezza inaccessibile, dalle mani vandaliche che tutto devastarono. Il convento diventò centro importantissimo di vita intellettuale, e diede a Bergamo figure di primo piano quali fra Ambrogio da Calepio, compilatore del primo vocabolario latino, il famoso "Calepino", nonché il noto storico fra Giacomo Filippo Foresti, e, più tardi, Padre Donato Calvi, emerito Priore diarista e cronista del suo Ordine e della vita bergamasca del suo tempo (15).

Nel 1451, mentre a Milano sorgeva l'Incoronata e moriva fra Giorgio, fra Agostino andava e veniva da Crema, dove fra le molteplici sue attività, trovò il tempo di occuparsi di un nuovo cenobio femminile intitolato a S. Monica, al quale avevano voluto dare inizio "alcune verginelle delle famiglie Bolzini, Terni e Zurla". Non conosciamo i nomi di queste prime suorine. Nel 1495 il loro numero era salito a 36, e fra loro era Serafina, figlia unica del condottiero Bartolino da Terno, munifico benefattore del convento che, seppure fondato da nobili donzelle, ebbe inizi poverissimi. Al loro disagio portò qualche sollievo nel 1459 Maestro Gianrocco (detto nei libri della Comunità di Crema "Teologo Agostiniano") che seppe perorare la loro causa ed ottenere che a loro fosse assegnato un legato lasciato da Goizio de Capitani di Caravaggio per l'erezione d'un Ospizio. Nello stesso anno fra Agostino istituiva un altro convento di suore a Tortona. La sua grande attività, l'opera sua abilissima come Vicario, soddisfece i suoi compagni e superiori al punto da indurre il Generale dell'Ordine a revocare la disposizione per cui nessun Vicario potesse stare in carica più di un anno, ed a raccomandare ai frati della Congregazione di rieleggere fra Agostino anche per il 1452. In quell'anno Venezia, gelosa e diffidente come sempre di Milano, riaccese la guerra, sperando di scuotere il nuovo trono milanese prima che si consolidasse, e tutta la Lombardia fu nuovamente in fiamme. I conventi di Crema e Milano vennero perciò a trovarsi in campi diversi, eppure l'attivissimo fra Agostino, nominato Priore a Crema benché ancora in carica come Vicario Generale, andava e veniva protetto dal suo abito, sempre intento agli interessi del suo Ordine, nonché a commissioni ed ambasciate affidategli da amici e, pare, dalla Duchessa Bianca Maria.

Nato nella Crema viscontea da famiglia ghibellina, più che la nuova sudditanza veneta e repubblicana, egli avrà sentito pulsare nel sangue l'atavica devozione ai Signori ereditari. Per lui Bianca Maria non era la sovrana d'uno stato vicino ma la sua legittima Signora, oggetto di rispetto, obbedienza, ed affetto filiale. Lo ritroviamo a Milano, dove all'Incoronata aveva dato grande lustro l'arrivo a Milano dell'Agostiniano fra Gabriele da Cotignola, al secolo Carlo, fratello consanguineo di Francesco Sforza e da questo chiamato nel suo nuovo "stato". E quando nel 1454 morì l'Arcivescovo di Milano, a nessuno parve strano, date le vigenti consuetudini, di vedere innalzare al seggio il fratello dell'avventuriero fortunato. A diversità però di tanti prelati innalzati per ragioni politiche, il virtuoso ed austero Monsignor Gabriele meritava l'onore, e forse anche quello di essere poi contato fra i "Beati" del suo Ordine.

Anni prima, essendo ancora giovanissimo, era fuggito dal campo militare del suo grande fratello per farsi frate in nella Congregazione Agostiniana riformata di Lecceto. Giunto a Milano volle entrare al convento dell'Incoronata, ne fece il suo soggiorno preferito anche dopo la sua assunzione al seggio arcivescovile, ed alla sua immatura morte nel 1457 lasciò al convento un pingue legato (16) che fra Agostino, Priore dell'Incoronata in quell'anno e per almeno tre anni di seguito, ebbe, pare, qualche difficoltà a riscuotere. All'Archivio di Stato di Milano fra le pergamene provenienti dall'Incoronata si trova una Bolla di Papa Calisto III in data 27 novembre 1457 inviata per raccomandare al nuovo Arcivescovo di Milano - Carlo da Forlì - di dare ogni appoggio al Priore fra Agostino da Crema onde potesse entrare in possesso del legato di 500 fiorini d'oro lasciato al convento da Gabriele, precedente Arcivescovo. È facile immaginare quale onore derivasse alla piccola casa madre di Crema da questo alto riconoscimento, e quanta autorità acquistassero i dirigenti della Congregazione. Il nostro fra Agostino divenne intimo familiare della corte milanese e non di questa sola: la Congregazione aveva intanto acquistato il convento di S. Barnaba a Brescia e nel 1456 quello di S. Agnese a Mantova, dove egli si trovava spesso, anche in qualità di Priore, e dove entrava nella intimità della famiglia regnante, diventando messaggero confidenziale tra le corti di Milano e di Mantova. L'appoggio ed amicizia del Marchese Lodovico di Mantova avevano facilitato a Francesco Sforza la presa di Milano, e l'alleanza fra loro era durata anche nella nuova vittoriosa guerra, che però aveva avuto fine nel 1454 con una pace di compromesso, per ferma volontà del Papa, spaventato e desolato della conquista turca di Costantinopoli.

Alcuni anni più tardi - nel 1459 - Mantova fu scelta a sede del Concilio indetto da Pio II per cercare - invano - di scuotere l'apatia dei principi cristiani e inviarli in crociata contro i turchi. Il cronista Schivenoglia descrive con convincente immediatezza l'affluenza da tutta Europa dei personaggi reali o dei loro splendidi rappresentanti con numerosi e sfarzosi seguiti, ed il lusso del loro abbigliamento, (l'inviato del re di Francia portava una "turca" bianca di panno d'oro lunga fino a terra), nonché l'arrivo del Papa con tredici cardinali e migliaia di cavalieri, in mezzo a scene di sfarzo inconcepibili ai nostri tempi. Molti documenti contemporanei ci lasciano intravedere il retroscena animato da movimentati intrighi diplomatici, politici ed ecclesiastici. A tutta questa vita fervida e brillante partecipava od almeno assisteva fra Agostino. Assistette il 13 gennaio 1460 ad un autentico trionfo della sua Congregazione, la consacrazione della chiesa di S. Agnese da parte del Pontefice in persona "con grande solenitade et trionfo": prese poi parte ai lavori nonché agli intrighi politici per conto di Bianca Maria che, con grande seguito di figli, parenti e cortegiani, fu fra i primi personaggi giunti al Concilio. La Duchessa ossequiò il Pontefice, al quale la figlia Ippolita rivolse in latino un discorso rimasto celebre, scambiò visite e cortesie varie con tutti i cardinali, offrì per conto proprio una schiera di armati per la santa guerra e ripartì, lasciando a fra Agostino l'onore di rappresentarla e la cura di osservare tutto e di riferire.

Il principale suo compito ufficiale era di natura religiosa. Un documento acefalo e disordinato, probabilmente di suo pugno, che si trova a Bergamo, ci illumina sull'enorme traffico di indulgenze fatto a quel Concilio. Vi si trova l'annotazione delle spese relative ad indulgenze "de pena et de colpa" da lui chieste ed ottenute per conto della Duchessa, - per il Duomo di Milano, l'Ospedale Maggiore, la chiesa di S. Nicolò da Tolentino (ossia l'erigenda seconda chiesa dell'Incoronata), vari conventi di suore, e, come dice lui, "una multitudine di gente", inclusa la Duchessa stessa, i suoi figlioli e tutto il suo seguito. La più grande debolezza, anzi forse l'unico vero difetto di Bianca Maria era la prodigalità. Era sempre indebitata, e molti anni dopo la sua morte il figlio Lodovico disponeva per il pagamento dei debiti suoi. Quando poi si trattava di opere di pietà o carità la sua generosità non aveva limiti: la scarabocchiata nota del frate ci dice che gli aveva lasciato mille ducati d'oro che andarono tutti per far stendere le "suppliche", pagar tasse e diritti vari, e far scrivere le bolle. È possibile che fra le incombenze affidategli da Bianca Maria fosse anche quello di sorvegliarle il marito, il quale intervenne al Concilio qualche mese più tardi, prese parte alle combinazioni politiche, ed offrì "la sua persona" per la crociata, con grande spavento dell'affezionata moglie, che si raccomandava ai santi (ed anche agli astrologi!) perché egli non dovesse partire. È veramente da rimpiangere che nulla sia rimasto - od almeno sia per ora reperibile - della corrispondenza, certamente assai interessante, di questo periodo tra Bianca Maria ed il suo fido fra Agostino, ma è solo nel 1463 ch'egli emerge in piena luce quale emissario della Duchessa in una delicata faccenda familiare.

 

 

NOTE STORICHE

(1) - È l'attuale palazzo dei Conti Marazzi (ramo del Generale Fortunato) confinante con la piazza di S. Domenico (ora Trieste). Il palazzo fu venduto dopo la morte del Vimercati, presumibilmente da fra Gian Rocco, ma non ho ancora scoperto chi fu il primo compratore. Fu nuovamente venduto nella seconda metà del XV secolo al noto Capitano di ventura Matteo Griffoni da S. Angelo in Vado, che militò sotto Francesco Sforza, poi l'abbandonò per Venezia e si domiciliò a Crema, dove la sua famiglia, di modeste origini, divenne ricca, potente, prepotente e sdegnosa della nobiltà locale. Spentasi questa famiglia, e forse anche prima, il palazzo cambiò ancora padrone. Fu dei Conti Scotti di Piacenza, un ramo dei quali si fissò a Crema, poi divenne l'albergo del "Pozzo Vecchio" rammentato anche dal noto scrittore inglese John Addington Symonds nel suo libro "Sketches in Italy and Greece". Dal suo pittoresco decadimento lo salvò il Generale Fortunato Marazzi che lo comperò, e restituì il vasto cortile, l'elegante portico e le belle sale all'antico splendore. Tornò così la famiglia Marazzi ad abitare laddove nel secolo XV vi fu già una casa loro, forse incorporata nel grande palazzo.

(2) - Le citazioni provengono dalla "Historia di Crema" scritta da Pietro da Terno nella prima metà del secolo XVI (manoscritto originale nella libreria del Conte Ludovico Benvenuti; copie, pure manoscritte, nella Civica Biblioteca di Crema, in casa dei Conti Terni, discendenti della famiglia da Terno ed in casa Pergami, quest'ultima proviene da casa Benvenuti).

(3) - Padre Donato Calvi, nella sua preziosa opera sulle origini della Congregazione dell'Osservanza di Lombardia, dice che fra Martino aveva già comperato le case per impiantarvi con alcuni frati venuti da fuori almeno un simulacro di convento, onde potersi opporre ad un progetto dell'Abbate di Cerreto il quale, visto che non venivano adempiute le volontà di Tomaso Vimercati, aveva chiesto al Concilio di Basilea di dichiarare decaduto il diritto degli Agostiniani e devolvere l'eredità Vimercati a sussidiare gli studenti poveri dell'Università di Pavia. Il Concilio aveva approvato la proposta purché non risultasse già fondato un convento. Vi sono altre discrepanze fra il racconto di Pietro da Terno e quello del Calvi, il quale non parla affatto delle marachelle di fra Martino. Occorre però pensare che il Calvi scriveva un secolo dopo il Terno, e si preoccupava anzitutto di far fare bella figura ad ogni membro del suo Ordine! 

(4) - Come molte altre città, Crema era allora divisa in quartieri che prendevano nome dalle quattro porte della cittadina (allora detta "terra" o "Castello"). A loro volta questi quartieri erano divisi in vicinìe o vicinanze che quasi tutte prendevano nome dalla più importante famiglia che vi abitava, il cui capo fungeva da Console della vicinìa. Secondo Pietro da Terno questa ripartizione fu stabilita quando Crema venne riedificata dopo la distruzione per opera di Federico Barbarossa. Ogni vicinìa doveva comporre una compagnia di uomini armati che aveva il compito di difendere un dato tratto delle mura cittadine. Ogni quartiere si reggeva come un piccolo Comune con un consiglio composto dai Consoli delle vicinìe. Erano collegati e le loro delibere armonizzate mercé l'opera del Cancelliere della Città, unico per i quattro quartieri. Questo importante funzionario era sempre un nobile. Non risulta come venisse scelto, ma è probabile che venisse eletto dai Consoli riuniti. Più tardi i quattro Consigli composti da questi Consoli si fusero nel Gran Consiglio della città. Le case comperate dai frati dalla famiglia Pandini erano nella vicinìa che prendeva nome dalla famiglia Terni, e precisamente nella parte meridionale dell'area del convento trasformato nell'ottocento in caserma "Renzo da Ceri". La famiglia Pandini, per quanto modesta, contava allora fra quelle nobili. Scomparve presto, evidentemente prima che Pietro da Terno compilasse il suo "Codice genealogico delle famiglie nobili cremasche", nella quale non figura. Rimase però il cognome in molte famiglie del contado e della bergamasca. Nell'antico Stemmaria Bergamasco si può vedere il loro stemma.

(5) - Ambedue hanno ragione e torto! La verità è che, secondo l'uso dei religiosi, fra Gian Rocco aveva già con sé un compagno, fra Pacifico, non meglio identificato, ma che credo cremasco. Nello stesso anno della sua venuta a Crema prese con sé anche il giovanissimo fra Bartolomeo Cazzuli, il quale operò molto utilmente per la Congregazione sia a Crema che a Bergamo, ma s'ammalò e mori presto. Perciò non emerge quale figura di primo piano e vengono considerati "fondatori" della Congregazione insieme a Gian Rocco due frati che vi aderirono poco dopo. Questi furono fra "maestro" Giovanni da Novara (di cognome variamente indicato come Nebbia ovvero Caccia) e fra "maestro" Giorgio Lazzuoli ovvero Laccioli da Cremona.

(6) - Padre Calvi racconta che i parenti del Vimercati chiamarono la Congregazione non unione di religiosi, ma "sinagoga di seduttori", e la coprirono di derisione e d'insulti. Un giorno fra Gian Rocco e fra Bartolomeo ebbero a presentarsi a casa di uno di questi energumeni, il quale fece rovesciare sulle loro teste da una finestra soprastante il portone un vaso... utilitario. Ciò nonostante fra Gian Rocco (meritevole davvero del titolo di Beato!) continuò la sua opera conciliativa, cedette ai riottosi parenti una parte dell'eredità, e riuscì finalmente a pacificare tutti.

(7) - Pietro da Terno dice che i Cazzuli furono inviati a Bergamo per recuperare la perduta salute mercé l'aria buona e la cura di valenti medici. Vorrei sapere se fra quei medici vi fosse " Magister Absolom de Cataneis" (ossia Assalonne dei Capitani di Scalve rammentato nel codicillo della Duchessa Bianca Maria, la quale voleva fosse pagato "per aver medicato religiosi dell'Osservanza").

(8) - La cosa era meno strana di quanto pareva a Messer Pietro! A quei tempi, non solo attorno a Bergamo, ma anche attorno a Crema, vagavano i lupi: inoltre, la chiesa dei SS. Giacomo e Filippo si trovava in luogo appartato, lontano dal nucleo abitato, sopra uno sperone del monte incluso, per ragioni di difesa, nelle mura cittadine, ed era abbandonata e diroccata.

(9) - Fra Gian Rocco ne divenne il primo Priore e ne fece la sua abituale residenza, per quanto dopo il 1455 si trattenesse molto spesso a Milano dove, per volontà dell'Arcivescovo Gabriele e della Duchessa Bianca Maria egli aveva dovuto accettare il governo del famoso Monastero Maggiore delle suore benedettine, che conservò fino alla sua morte nel 1461. Oltre a reggere la Congregazione per i primi 10 anni senza veste ufficiale, fu, dopo l'istituzione regolare del Vicariato, nominato quattro volte Vicario Generale.

(10) - Non so quando fu cambiata la dedica della chiesa dei SS. Giacomo e Filippo a S. Agostino. Nei documenti dei primi anni si trova l'antica dedica, poi dopo una lacuna, il titolo di "Sant'Agostino".

(11) - Questo frate divenne confessore della Duchessa Bianca Maria e di sua figlia Ippolita, poi Duchessa di Calabria, la quale, secondo Padre Calvi, desiderava condurlo con sé a Napoli. Ma egli rifiuta; come pure rifiutò l'offerta di un vescovado, e rifulse invece per pietà e virtù.

(12) - Il Forcella, nella sua monumentale opera sulle iscrizioni nelle chiese ed altri edifici di Milano, riproduce molte iscrizioni che trovò all'Incoronata, alcune delle quali vi esistono ancora se anche rimosse dal primitivo posto. Sulla facciata della prima chiesa:

ILLUSTRISSIMUS D. D. FRANCISCUS SFORTIA VICECOMES

DUCALI INSIGNITUS CORONA IN SIGNUM DEVOTIONIS

CORONATAE VIRGINI TEMPLUM HOC CONSTRUI FECIT

SUADENTE BEATO GEORGIO DE CREMONA

HUIUS MONASTERII FUNDATORE ANN. 1451.

Sul sepolcro del Beato Giorgio:

HIC JACET B. GEORGIUS DE CREMONA

SACRE PAGINAE PROFESSOR

PRIMUS FUNDATOR HUIUS MONASTERII

QUI OBIT ANNI MCDLI. V. ID. SEPTEMBRIS.

(Padre Donato Calvi racconta che il Beato Giorgio morì dopo la mezzanotte dell'8 settembre e fu sepolto nella cappella di S. Maria del Popolo a sinistra dell'ingresso della chiesa, e che nella stessa cappella vi era la sua effigie. S. Carlo ebbe poi ad ordinare che vi ardesse sempre una lampada. Secondo il Calvi 1'iscrizione riportata era su una tavoletta di marmo, scoperta quando per causa di restauri fu rimossa la cassa). Il Forcella riporta anche l'iscrizione sepolcrale di un certo "Beato Rocco Porro, milanese "celebre per santità e miracoli", e che sarebbe stato compagno del Beato Giorgio. Questo "Beato", completamente ignoto a noi e del quale non ha fatto cenno Padre Calvi morì nel 1449. Sulla facciata della seconda chiesa, eretta da Bianca Maria nel 1460, vi era:

HANC ECCELESIAM AEDIFICARI FECIT ILLUSTRISS.A DNA

D. BLANCHA MARIA DUCISSA MEDIOLANI

PAPIAE ANGLERIAEQ. COMITISSA AC CREMONAE DOMINA

IN HONORE SCTI NICOLAI DE TOLENTINO CUI IMPETRAVIT

A SANCTISS.O PAPA PIO SECUNDO PLENARIA

REMISSIONEM IN PRIMO. ANNO SUAE DEDICATIONIS

ET SEPTEM ANNORUM ET SEPTEM QUADRAGENARUM

IN FESTO EIUSDEM SANCTI IN PERPETUUM

MCCCCLX. DIE DECIMO SEPTEMBRIS.

(13) - Numerosi stemmi della famiglia Terni e di famiglie imparentate ritrovati nei soffitti quattrocenteschi della casa attualmente di proprietà Donati de Grazia hanno permesso di identificare in questa l'antica casa dei da Terno, famiglia dello storico, il quale vi ebbe probabilmente i natali. E' stata pure identificata l'antica vicinanza dei Terni in quel tratto dell'attuale via Dante (ex contrada di S. Agostino, ex via Garibaldi) che corre dalla via Goldaniga all'istituto Canossiano e che si estendeva in profondità dai due lati della via Dante. In questa vicinanza la famiglia Terni, allora numerosissima, ebbe diverse case oltre la prima, eretta secondo Pietro Terni sull'area di un tratto delle mura cittadine distrutte da Federico Barbarossa. Il "Libro delle Spese" per l'erezione del convento, cimelio prezioso, si trova nell'Archivio dell'Ospedale Maggiore insieme con qualche altro registro dei secoli seguenti. Gli altri antichi registri, visti da Pietro Terni e forse da qualche altro scrittore che ne fa cenno, furono distrutti nell'Ottocento da amministratori ignoranti, onde poterne utilizzare le belle e solide rilegature di cuoio per i registri dei loro conti!

(14) - Della famiglia de' Marchi e di altre famiglie cremasche di artisti e artigiani conto di parlare in un prossimo lavoro sull'arte a Crema.

(15) - Per il convento di Bergamo i secoli di prosperità e splendore ebbero fine solo con la soppressione napoleonica, quando il convento e la sconsacrata e spogliata chiesa furono ridotti ad usi profani. Ora servono da caserma, ed attendono nudi e desolati il progettato restauro ed il ritorno fra le vetuste mura della vita spirituale.

(16) - Padre Donato Calvi dice che Monsignor Gabriele contava fra monaci dell'Incoronata i suoi più cari amici e confidenti, e che volle lasciar il convento "erede universale" d'ogni suo avere. Egli vi volle anche essere sepolto, e nella chiesa dell'Incoronata si vede ancora la bella lapide sepolcrale con la sua effigie fra ornati gotici. Evidentemente fu rimossa dal posto primitivo, poiché attualmente si trova nella seconda chiesa, eretta nel 1460-61. Il giorno prima della sua morte Monsignor Gabriele ebbe la visita del fratello Francesco, al quale trovò ancora la forza di dire "delle molte parole et bone et notevoli". E' da pensare che rappresentassero un'ultima paternale a proposito della vita sregolata dell'avventuriero fatto Duca, poiché Agnese del Maino, suocera di Francesco, riferisce questa circostanza con una certa compiacenza in una sua lettera a Bianca Maria, la quale si trovava allora a Mantova.

 

 

 

LA STORIA DI DOROTEA

A Bianca Maria, benché figlia unica del Visconti, quando era moglie di un capitano di ventura di modeste origini, aveva stretto amicizia con la Principessa Barbara Hohenzouna dell'imperatore, sorella della Regina di Danimarca, e sposa di Ludovico Gonzaga erede al piccolo trono di Mantova. La dotta austera tedesca sembra avesse carattere più plastico del suo duro viso, ed a moderare la superbia regale della sua razza avevano già provveduto il suocero volubile e 1'insopportabile cognato Carlo. Il primo, dalla testa fantastica quanto il cappello che lo copriva, sobillato dal secondo che i cronisti s'accordano a chiamare "pessimo", aveva voluto diseredare il marito di Barbara perché questa, maritata a 13 anni, a 15 non aveva ancora figli! La vita dei giovani coniugi alla corte di Mantova diventò insostenibile, tanto che Ludovico scappò - lasciando, pare, la povera sposa a sostenere da sola gli assalti della malevolenza familiare - prese condotta sotto Filippo Maria Visconti, ed a maggior manifestazione d'indipendenza, si lasciò crescere in quell'epoca di rigorosa sbarbatura una rigogliosa barba. La vita travagliata durò fino alla nascita del primo figlio nel 1442; ma benché le lotte feroci con Carlo continuassero fino al 1454, Ludovico, tagliata la barba della ribellione, aveva potuto occupare il seggio marchionale alla morte del padre nel 1444.

Barbara vi giunse già abituata ad ingoiare rospi e probabilmente per opportunità politica ingoiò con buona grazia l'amicizia e l'alleanza della coppia composta dall'intelligente avventuriero e la geniale rampolla spuria di casa Visconti. Forse seppe apprezzare le innegabili qualità di Bianca, la sua innata signorilità e benevolenza; ma in seguito accettò anche l'amicizia della madre sua, la volitiva ed esuberante Agnese del Maino che, giunti gli Sforza al potere, occupò nella nuova corte il primo posto dopo la figlia. Le lettere a Barbara spedite da Agnese che si firma "uti mater" sono numerose quasi quanto quelle di Bianca Maria, e le risposte di Barbara ad entrambe sono assai ossequiose. Fra Milano e Mantova si stabilì un costante via - vai di personaggi che si recavano in visita, fermandosi a lungo per partecipare a gite, caccie, spettacoli, banchetti e feste da ballo, e già nel 1450 l'alleanza politica, allora assai utile a Francesco Sforza e non meno opportuna per il piccolo stato mantovano, era stata cementata con un "parentado" - ossia il fidanzamento del seienne Galeazzo Maria Sforza con Susanna, bimba primogenita dei Marchesi. Nel 1454 il contratto veniva rinnovato, ma con una curiosa clausola. Sembra che nella famiglia Gonzaga si manifestasse una tendenza alle deviazioni spinali, perciò venne stabilito che ove in Susanna si fosse manifestata la "gibbositade" essa sarebbe stata sostituita da una sorella. E fu ciò che avvenne. Nel 1457 il Marchese avvertiva che Susanna era gobba, ed offriva la seconda figlia Dorotea, che veniva accettata. A quei tempi le "sponsalie" contratte dai genitori legavano gli ignari bambini quanto un vero atto di matrimonio, ed il nuovo impegno, per il quale fu necessario una dispensa papale che sciogliesse il primo, ebbe solenne conclusione in Mantova con tutte le cerimonie d'uso - fra l'altro i piccoli "sposi" furono messi in un grande letto di parata in presenza dei genitori - atto che doveva legarli in modo indissolubile.

Da allora la corrispondenza delle madri è accompagnata da quella, ingenua e graziosa, dei fidanzati. Dorotea scrive che legge e rilegge le letterine dello sposo, e che le "par mill'anni" da quando l'ha visto. Galeazzo "si raccomanda all'anima sua bella", e si reca spesso a Mantova per giocare e scherzare con la "carissima consorte". Dorotea, omonima della zia regina di Danimarca, vien chiamata "Dea" in famiglia. Essa diventa la beniamina della corte milanese; Bianca Maria la tratta come una figlia e le fa confezionare suntuose vesti di broccato dal suo sarto personale. Agnese, a sua volta, scrive costantemente a Barbara per dar notizie di Galeazzo, soggetto a frequenti e clamorosi sconvolgimenti gastrointestinali ch'essa descrive con minuziosità degna di più elegante soggetto, e termina le lettere con "abbracci per la nostra Dea" alla quale raccomanda "di star di buona voglia et vivere alegramente".

Ma sono brevi le separazioni. "Dea" è spesso ospite della famiglia ducale insieme con la sorella naturale Gabriella, già vedova del disgraziato Giberto da Coreggio e fidanzata a Corrado da Fogliano fratellastro di Francesco Sforza. E si recano a Castelleone, dove Bianca Maria aveva fatto "acconciare" la sua casa, per prendere parte alla vendemmia, ad allegre gite, scampagnate, e battute di caccia alla "Corte", grande possessione viscontea, probabilmente rammentata nel nome del paesello di Corte Madama. Nell'autunno del 1458 vengono celebrate a Cremona le nozze di Corrado e Gabriella con grandi feste alle quali presenziano anche gli "sposini". Andreotto del Maino, zio della Duchessa Bianca e gran faccendiere a corte, scrive a Francesco Sforza con evidente compiacenza dell'audace contegno di Galeazzo verso la novenne "moglie", che conduce "nei cantoni per basarla e tocharla".

L'esuberanza delle manifestazioni era una caratteristica della vita quattrocentesca. I divertimenti provocavano segni di letizia quasi puerili, mentre il dolore, il pentimento s'esprimevano con uguale trasporto. Feste e "trionfi" s'alternavano con austere cerimonie religiose, e chi di sera s'abbandonava ai tripudi si ritrovava all'alba prono e pentito al piede degli altari. Nella vita dei potentati la licenza più sfrenata, la prepotenza, la crudeltà, dividevano il campo con una ingenua fervida pietà mista a grossolana superstizione. Alla vita più peccaminosa si credeva di "rimediare" con voti, pellegrinaggi e doni ai santuari. Nelle corti ferveva un via-vai continuo di religiosi, in maggioranza frati, in funzione di consiglieri, direttori spirituali e confessori. Essi assistevano volenti o nolenti alle acrobazie spirituali dei loro illustri penitenti, cercavano di raddrizzare la loro confusione mentale con sgridate, talvolta vivaci e temerarie; ma purtroppo spesso dovevano rassegnarsi ad allargare ancora le larghe maniche, chiudere gli occhi, ed accettare elemosine invece di conversioni. Le donne praticavano in genere la religione con maggior correttezza e convinzione degli uomini, e fra molte pie principesse, Bianca Maria emergeva per coscienza scrupolosa, fervida devozione, e larga protezione agli ordini religiosi, fra i quali, sembra preferisse i francescani e gli agostiniani.

Furono questi i suoi più intimi consiglieri, e per loro fece costruire chiese e monasteri. Sulla ragione per cui nel 1460 essa volle fare erigere a Milano una nuova chiesa accanto all'Incoronata esiste una leggenda poco notai francescani e gli agostiniani. Furono questi i suoi più intimi consiglieri, e per loro fece costruire chiese e monasteri. Secondo Padre Ambrosio Frigerio autore di una vita di S. Nicolò da Tolentino, Bianca Maria, madre prolifica, avrebbe in quel tempo messo al mondo una creatura informe e senza vita. Angosciata, essa si rivolse con fervida preghiera a quel santo che aveva appreso a venerare negli anni passati col marito capitano di ventura nelle Marche, e subito la creatura prese sembianze umane e respirò. A ricordo della grazia, ed adempimento di un voto fatto in quel momento d'angoscia, essa fece erigere e dedicare a S. Nicolò, accanto ed unita all'Incoronata, una seconda chiesa di linea e proporzioni identiche, facendo abbattere il muro divisorio, per cui le due chiese gemelle divennero all'interno un'unica doppia chiesa - curiosità edilizia più unica che rara Sembra che nel pensiero della Duchessa questa parità esterna ed unicità interna dovessero raffigurare la sua stretta unione e completa identità spirituale con l'amato marito. La prima chiesa era stata eretta "a persuasione" di fra Giorgio da Cremona. È lecito pensare la seconda dovuta al suggerimento di fra Agostino, Priore del convento in quel momento e per diversi anni durante i quali un documento dell'epoca ci dice che fece molti lavori e maneggiò grandi somme di denaro. (Si trattava certamente del legato di Mons. Gabriele, e forse di somme date da Bianca Maria per la nuova chiesa). Pure in quel tempo Bianca Maria s'occupava di istituire cenobi di suore a Cremona, fra i quali uno dedicato a S. Monica, e dimostrava anche una predilezione per quello maschile di S. Agostino. Nel 1463 poi faceva rifabbricare, grande e splendida, la piccola chiesa di S. Sigismondo fuori le mura, dove si era sposata, e vi immetteva i frati Agostiniani. Non abbiamo per ora alcuna certezza della partecipazione di fra Agostino a queste altre attività della Duchessa, ma è assai probabile. Egli occupava costantemente una delle alte cariche della Congregazione, e fu per più volte Priore del convento cremonese, dove appunto durante il periodo della sua dimestichezza con la Duchessa si fecero vari importanti lavori. È indubitato che le sue relazioni con Bianca Maria furono assai familiari: le poche lettere sue alla Duchessa che ci sono rimaste parlano di molte altre spedite o ricevute, e sono piene di notizie personali e familiari, date o richieste con tono di intimità che non si riscontra negli scritti di altri ecclesiastici corrispondenti di Bianca Maria.

Egli certamente avrà partecipato alla letizia della famiglia ducale per il "parentado" mantovano, e guardato con occhio indulgente la vita beata che si faceva nel bel Castello di Cremona dove tutti sembravano felici e spensierati. Ma sotto la superficie assolata scorrono acque profonde e torbide. Galeazzo manifesta già quel carattere superbo e malvagio che lo renderà tristemente celebre e, con precoci vizi. prepotenze e violenze, dà serie preoccupazioni ai saggi e bonari genitori. E mentre egli indulge ai propri capricci, mangia e beve a crepapelle, disubbidisce ai precettori e maltratta i servi, suo padre Francesco Sforza, guidato da acume insuperabile, segue nuove correnti politiche che lo portano sempre più in auge, ma lo distaccano lentamente, quasi impercettibilmente, dall'alleanza familiare e politica con Mantova. Si è legato con la corte francese, dove gli vien fatto 1'abbagliante offerta di un "parentado" per Galeazzo tale da innalzare la nuova dinastia sforzesca al rango delle sovrane, e davanti al quale quello mantovano perde ogni pregio ed anzi diventa un deleterio impaccio. Già nel 1460 Francesco Gonzaga, protonotario e futuro Cardinale, scrive al padre da Pavia dove studia, avvertendolo di aver saputo che gli Sforza pensano al modo per liberarsi dall'impegno, con il motivo che "da queste donne nate da sangue de gobi nasse altri gobi". Veramente la preoccupazione degli Sforza su questo punto sembra giustificata. Il cronista Schivenoglia ci dice che oltre Susanna, erano "gobbi" anche due sue sorelle e suo fratello Federico, erede del marchesato. Un loro cugino, figlio di Carlo Gonzaga, divenne pure gobbo, ed un altro fratello di Dorotea, il protonotario Ludovico, presenta in un ritratto dipinto dal Mantegna una linea di spalla alquanto sospetta (17).

In quanto a Dorotea non è facile formare un'opinione, data la disparità di parere dei contemporanei. Un familiare inviato a vederla la trovò "più bella dì quanto comporti il naturale (ossia la media), con occhi chiari e bocca largheta", mentre le dame che accompagnarono Bianca Maria alla cerimonia delle "sponsalie" ebbero a criticare sia il viso che la figura della piccola fidanzata. Ne seguirono pettegolezzi e discussioni che durarono anche negli anni seguenti: chi trovava Dorotea "granda e bella", chi invece parlava di una spalla più alta dell'altra; dopo le offerte francesi, lo stesso Galeazzo si permise apprezzamenti poco lusinghieri, e tutta la faccenda fu complicata dal contegno equivoco di lui, che agli altri difetti univa un'ipocrisia a tutta prova. I Marchesi si lamentano di aver sentito ch'egli sparla di Dorotea, mentre egli continua a farle frequenti visite accompagnate da sviscerate proteste d'affetto e da "basi e tochamenti" che talvolta passano i limiti del convenevole, provocando "amonimenti" dai genitori di lei. Purtroppo le sue attenzioni non erano riservate alla sola Dorotea: ai Gonzaga giunsero voci sgradevoli circa le sue imprese galanti, e sappiamo che a quell'epoca egli aveva già un figlio, Carlo, mentre poco dopo nasceva da altra madre colei destinata a diventare la grande Caterina Sforza. Alle rimostranze dei Marchesi per la sua condotta, sembra che Galeazzo si difendesse accusando la nonna Agnese - che lo adorava e viziava - di avergli fornito l'occasione di peccare, poiché in un lettera a Barbara essa si difende da tale accusa con un'irruenza in contrasto con le sue solite pose da Regina Madre. "Cativo che l'è!" esclama, e dichiara che ove fosse presente "li darìa tante pugnate et per tal forma li tireria i capili che l'imparerìa a mettermi in tal ballo che io sia stata cason de quela femina! Queste sono le consolationi et li meriti che ricevo della solecitudine, cure, ci vigilie... per farlo da bene et preservano casto!".

Agnese termina la lettera pregando Barbara di non credere a Galeazzo, e dargli fede, "perché non l'è vero niente". Sembra che il contegno di Galeazzo fosse tanto instabile ed equivoco da non far comprendere i suoi veri sentimenti. "Giurava e sacramentava" che voleva Dorotea e lei sola, piangeva se si parlava in sua presenza di sciogliere il matrimonio, eppure l'offendeva e denigrava, ed i Gonzaga non sapevano più che cosa pensare. Intanto il re di Francia destinava a Galeazzo la principessa Bona di Savoia, sorella della regina, proprio quando si avvicinava il termine fissato nel contratto mantovano entro il quale, impartita la benedizione nuziale, la quattordicenne sposa doveva entrare nella casa maritale. Francesco Sforza, sempre più desideroso di rafforzare la nuova amicizia francese, s'appigliava alla solita questione dei presunti difetti fisici per cercare di far sciogliere il nodo; poco dopo una delle solite espansive visite di Galeazzo, i Marchesi furono stupefatti di ricevere dall'oratore sforzesco a Mantova la richiesta di far visitare Dorotea da un medico della corte milanese. Sembra che la loro reazione fosse assai energica, ma non tale da farli rinunciare - come speravano gli Sforza - a Galeazzo; quando il Duca tentò qualche cauto passo a Roma onde preparare il terreno in Vaticano ad una richiesta di "divorzio", Francesco Gonzaga, già Cardinale a 17 anni e benviso al Pontefice, s'oppose e rese vane le speranze di Francesco Sforza. Questo scacco non ebbe altro effetto che di irrigidire ancora di più la volontà del Duca a rendere sempre più tese le relazioni fra Milano e Mantova, mentre Bianca Maria, ossequiosa alle volontà del marito ma amabile e conciliativa, cercava una soluzione che salvasse almeno l'amicizia. Essa decise di tentare qualche passo privato onde persuadere i Gonzaga ad una spontanea rinunzia, e nell'ottobre 1463 chiamò a sé fra Agostino, allora Priore del convento di S. Agnese a Mantova, e lo mandò in missione confidenziale presso Barbara, munito di una carta di appunti sulle cose da dire, della quale una copia è rimasta nell'archivio mantovano (18).

Fra altro, egli doveva informare Barbara, che nell'assenza dei genitori Galeazzo aveva incaricato Pietro da Gallerate, uno degli ambasciatori che facevano la spola tra Milano e Mantova, di far sapere: "che lui per niente intendeva prendere la ill.ma Madonna Dorotea per sua moglie. né voleva simile semenza in casa, e che se gli la dasseno... la tracteria al pegio che potesse e di lei faria ogni strazio"; ma il da Gallerate s'era rifiutato di riportare tali parole. Fra Agostino conferì con Barbara a Borgoforte, presente anche il Marchese Ludovico, poi ripartì per andare da Bianca Maria e riferirle il risultato dell'importante colloquio. Ma la Duchessa, saputo che i Marchesi venivano da "loco suspecto", ossia infetto di peste, non voleva correre il rischio dì farsi portare in casa tale malanno annidato nel saio del buon frate, e perciò gli scrisse in fretta di fermarsi a Crema e riferire per iscritto - tanto era allora già radicato il concetto e la paura del contagio. Evidentemente essa s'era scusata di dargli tanta "fatica", poiché "dal nostro convento di S. Agostino a Crema" egli risponde "et poi che mi confortate che non mi rincresca la fatica, cioè di un altra volta scrivere... La S. V. sa quanta carità vi porto, che non é fatica che io podesse durare per essa che quando non offendesse a Dio né a l'anima mia che non fosse aparegiato a durare". Si accinge poi a riferirle, quanto la prudenza gli acconsente dì mettere sulla carta, osservando che non vorrebbe che qualche sua parola venisse male intesa "et presa altramente che non fusse, però che parlando a bocha, se el parlare non é inteso se pò replicare più volte e far che la verità sia lucida, e non cusì in el scrivere".

Egli assicura di aver detto alla Marchesa "tuto quello che la S. V. me haveva imposto dovevo dire. Et in conclusione dissi come el Segnior (ossia il Duca) voleva che Madona Dorotea fusse veduta per Magistro Benedicto da Nursa et in caso refudassero che non fosse veduta per ello, che al tempo debito la manderebbe a protestare... Et questo non diceva però chel volesse chel fosse disfacto el parentado ne anche la amicitia fusse dissolta, ne anchora la sua provisione manchasse come alla Sig.a sua era promessa". Fra Agostino dichiara di aver cercato di persuadere i Gonzaga a lasciar visitare Dorotea, "perché Messer Benedicto era homo da bene e se in ley non era macula che la cosa andarebbe inanci... Unde dopo molto parlare, in conclusione me resposero le loro Sig.rie che loro non se volevano toler de rason (19).

Et se la rason voleva che Madona Dorotea sia veduta nuda, nuda la mostreranno, e se la rasone non lo vole, non li pare della sua filiola... de farne cossì bon mercato. Et molto se meravegliano del Conte Galeaz el quale è così poco tempo che luy la veduta et tochata... Et molto grandemente se doleno de li acti et de le parole che luy ha usato con lei, havendo quella volontà che intendono che ha (20) imperò che non reputano così da poco le cose sue, che havessero permesso che luy in tal modo havesse processo, quantuncha da le Signorie loro più volte fosse amonito". Seguirono altre lettere; ma mentre fra Agostino trattava, Francesco Sforza, fremente d'impazienza, scriveva stringenti istruzioni al suo oratore a Mantova, e Galeazzo, richiesto del suo parere, rifiutava di pronunciarsi, dicendo con la solita ipocrisia, che ci pensassero i genitori, poiché egli avrebbe sempre fatto quanto volevano loro. Intanto Messere Benedetto da Norsa arrivava a Mantova con un altro medico della corte milanese: i Marchesi incaricavano due medici mantovani di riceverli e di chiedere "quali parti et loci della persona di essa Madona Dorotea" dovevano ispezionare; al che i dottori milanesi specificavano "tutti i spondilli, incomenzando dal collo sino ad 'os caude'". Davanti all'os caude i mantovani s'inalberano ed i milanesi restringono le pretese. Si parla molto, ma non si conclude nulla; e benché l'oratore milanese faccia rogare un documento che dovrebbe permettere al suo signore di disimpegnarsi, la cosa si trascina. Interviene ancora Bianca Maria con l'offerta di recarsi a Mantova per ispezionare Dorotea, ma Galeazzo getta la maschera di figlio sottomesso e dichiara che di lei non si fida, e che se Dorotea ha "un diffettuzzo grande come una pulze", egli non la vuole. La faccenda prende sapore di scandalo.

Infiniti sono i commenti, i sussurri, i sorrisi maligni attorno alla disgraziata Dorotea, ingenua ed innamorata, che per l'umiliazione e la vergogna piange tutte le sue lacrime. Il padre le proibisce di scrivere a Galeazzo, ma non rinuncia all'impegno! Sembra davvero inesplicabile l'insistenza dei Gonzaga a voler dare la loro creatura ad un essere malvagio che già, secondo loro, "la vitupera e disonora" e minaccia anche di "straziarla". Erano genitori affettuosi, eppure la sicura infelicità di Dorotea sembra non avesse alcun peso accanto ai vantaggi della stretta alleanza con Milano - vantaggi non solo politici, ma anche finanziari, poiché Ludovico godeva come Condottiero al soldo del Duca una lauta provvigione - quella appunto che fra Agostino doveva assicurare gli sarebbe stata mantenuta. I Marchesi non potevano però sperare vantaggi duraturi da un legame forzato ed odioso all'altro contraente. Sembra perciò necessario di cercar altri motivi - forse più occulti - per spiegare il loro contegno. A questo punto torna conto di rileggere 1'importante lettera di fra Agostino e fermare l'attenzione sulla sua osservazione circa gli "acti et parole" che Galeazzo avrebbe usato con Dorotea, e dei quali i Marchesi "così grandemente se dolevano" come inamissibili in chi pensava a ripudiare la sposa. Dobbiamo ricordarci che dopo la morte di Galeazzo il giudizio generale fu severissimo. Tutti i cronisti del tempo lo accusarono di turpitudini d'ogni genere. L'Infessura scrisse: "era homo che faceva cose dishoneste da non scrivere", ed il Machiavelli: "era libidinoso e crudele, non gli bastava corrompere le donne nobili, prendeva ancora piacere a pubblicarle".

Il Corio poi, che fu suo cortegiano e familiare, è anche più esplicito: "Questo principe" - scrive - "fu molto dedito a Venere e a sozza libidine, per il qual motivo molestava grandemente i suoi sudditi, teneva a proprie spese molte donne, e peggio ancora, quando aveva soddisfatto i suoi appetiti egli abbandonava le disgraziate ai suoi cortegiani". Data anche la sua precocità nel vizio è forse lecito sospettare che, nonostante gli "amonimenti" dei genitori, egli fosse riuscito a compromettere Dorotea in modo che almeno a loro sembrasse irrimediabile. Comunque sia, i Gonzaga rimasero irremovibili, dichiarando che non volevano "per alcun modo mettere in questione l'honore". Aggiunsero che ove la sposa veniva ripudiata "se la protesta non sarà de rason, risponderanno quello che piaserà alle Signorie loro". Era una minaccia? Un ammonimento che in un caso estremo avrebbero potuto trovare argomenti tali da far naufragare i piani degli Sforza? Non è possibile giudicare: però la visita medica non ebbe luogo; gli Sforza non ebbero la Bolla di dissoluzione, né i Gonzaga ottennero l'adempimento del contratto: le relazioni rimasero apparentemente cordiali, ma segretamente tese, e la strana situazione durava ancora nel 1466, quando avvenne improvvisamente la morte di Francesco Sforza. Galeazzo era in Francia dove era stato inviato dal padre come capo nominale di una spedizione militare per aiutare Luigi XI contro i Duchi di Borgogna ed altri che gli s'erano ribellati. Bianca Maria si trovò sola a Milano a fronteggiare una situazione complicata e minacciosa, poiché alla latente malevolenza di coloro che sempre avevano subito a malincuore la dominazione sforzesca, considerata usurpazione, si era aggiunto il vivo malanimo che già Galeazzo aveva saputo guadagnare. Perciò il momento pareva propizio per una rivolta. Ludovico Gonzaga si recò subito a Milano per mettersi a disposizione della Duchessa, e vi arrivò pure Barbara in visita di condoglianza. Galeazzo, tornato dopo un viaggio assai avventuroso, dichiarava in presenza della Marchesa di sapere che "ove facesse il matrimonio francese, farebbe morire sua madre, ma che non la voleva far morire, anzi voleva accontentarla". Evidentemente la buona e saggia Duchessa cercava di persuadere il figlio a mantenere la parola data, ma l'ipocrita non aveva la minima intenzione di accontentarla e questo era il minore dei dispiaceri che si apprestava a darle. Si mise subito, e con prepotenza e malvagità sempre crescenti, a maltrattare e spodestare la madre che per diritto di nascita e volontà del defunto marito doveva dividere con lui il potere; e frattanto spingeva a fondo le trattative per il suo matrimonio con Bona di Savoia.

Nella primavera del 1467 egli si trovò a Parma con Ludovico Gonzaga per discutere di certi accordi militari, e sembra che il Marchese tentasse ancora di ottenere una decisione circa il matrimonio, ignaro che proprio in quei giorni, e precisamente il 10 aprile, la Principessa Bona firmava una procura per il suo matrimonio con Galeazzo. Improvvisamente il laborioso colloquio fra il padre ansioso per "l'honore di casa" e lo sposo renitente fu troncato da un urgente messaggio da Mantova. La Marchesa informa che Dorotea è ammalata: ha febbre alta, delira, e chiede con insistenza il padre. Ludovico si precipita a Mantova, e Galeazzo scrive a sua madre. Bianca Maria addolorata e premurosa, si affretta a scrivere a Barbara ed invia un suo familiare per prendere notizie e per recare affettuosi messaggi a Dorotea. Ma l'inviato non riesce a vedere l'ammalata. Sulla soglia della camera s'erge la madre e ne vieta l'entrata. A che prò vederla? delira... non comprende... non lo riconoscerebbe... Però ogni giorno Barbara scrive a Bianca Maria lettere schiette e desolate che ci fanno seguire l'inesorabile svolgersi del dramma: la febbre che sale, la sofferenza che aumenta, la coscienza che sempre più s'annebbia; e, nella camera chiusa e difesa da sguardi indiscreti, i desolati genitori chini sul letto della loro tanto infelice creatura. Poco dopo, tra il 20 e 21 Aprile, si chiude la breve tormentata giornata terrena di Dorotea Gonzaga. Nella storia di Mantova, Mario Equicola registra la morte di Dorotea con questo commento: "Galeazzo, fatto Duca di Milano, tentò subito di havere per consorte Bona, sorella del Duca di Savoia, ricercando dal Pontefice la dissoluzione del matrimonio con Dorotea. Al che, contradicendo Francesco Gonzaga, non lo puote ottenere, onde si voltò ad altra via, e per quanto dicono, ordinò di dare il veleno a Dorotea". Nessuna traccia di quel veleno è rimasto nei documenti d'archivio a convalidare l'accusa, e le relazioni con Milano perdurarono, assai fredde con Galeazzo, cordiali come sempre con Bianca Maria. Eppure la coincidenza delle date è troppo marcata per poterla credere casuale, l'assoluto bisogno di Galeazzo di essere libero dall'impegno, unito all'impossibilità di liberarsi, formano da sé basi sufficienti per un severo atto d'accusa. Galeazzo era capace di questo ed altro; aveva ovunque spie ed agenti privi d'ogni scrupolo, e sappiamo che fra i veleni resi in seguito tristemente celebri dai Borgia, ve n'erano atti a provocare tutti i sintomi di una acuta malattia febbrile. I fiori s'appassiscono sulla recente tomba di Dorotea: Galeazzo, finalmente libero, conclude in trionfo il nuovo contratto nuziale, ed intanto a Milano altre vittime sue, ree di essersi in qualche modo opposte alla sua volontà, soffrono e muoiono. Non risparmia i parenti, non gli stessi suoi fratelli che vuol spogliare ed asservire, e meno ancora la madre, con la quale usa modi "selvatici et dishonesti", e perseguita i suoi familiari. Essa si sfoga coi vecchi fedeli; si lamenta: "hor perché non sono io di subito ita dietro ala morte dei mio signore? Misera malcontenta ch'io sono, mi pesa questo mondo a vedere de miey figliuoli et sudditi tanta habominazione". E disperata, non sa più che cosa fare, confessa d'aver perfino pensato a scendere in piazza e chiedere al suo popolo di aiutarla (21).

Ma chi poteva aiutarla? La fedeltà a lei, l'obbedienza ai suoi ordini erano per Galeazzo delitti da punirsi con la perdita degli averi se non della vita. Ogni giorno vedeva l'arresto ovvero la fuga precipitosa di qualche cortigiano: le piccole corti lombarde fremevano di curiosità e ronzavano di commenti: tutti gli amici della buona Duchessa seguivano con ansia gli avvenimenti di Milano e trepidavano per lei. Fra Agostino la seguiva con affettuoso interessamento da Cremona, dove si trovava nel 1467 ed accoglieva un altro figlio di Bianca Maria - forse il suo beniamino - da lei inviato come "Governatore" di quella sua città dotale. Era Ludovico, bel quindicenne dalla pelle scura e dall'anima enigmatica, che doveva poi rifulgere brevemente nella storia come il più splendido Duca di Milano - il "Moro", ambizioso quanto il fratello maggiore, ma mite, duttile, affettuoso. Nelle sue lettere alla madre troviamo qualche fugace visione di fra Agostino che si reca a dir Messa nella cappella del Castello. Avrebbe anche dovuto recarsi a portare il viatico ad un precettore di Ludovico, 1'umanista Matteo Avelano, che morì durante il loro soggiorno cremonese, ma Ludovico scrive: "questa mattina lo ha comunicato il Padre Vicario al posto di Messer fra Agostino da Crema, il quale doveva dargli il Corpus Domini come disse ieri, e non è venuto per la scharanzia che gli è sopravenuta questa notte". Che cosa fosse questa "scharanzia" non so: ma nelle parole di Ludovico pare di sentire una leggera inflessione canzonatoria.

In quei giorni si erano manifestati in città alcuni casi di peste, Cremona era piena di paura, e forse il povero fra Agostino, sempre di salute gracile, si lasciava facilmente impressionare. Il compito di Ludovico a Cremona non era troppo facile. Egli doveva seguire strettamente le istruzioni della madre, legittima sovrana della città e che lo teneva lì appunto come persona di tutta sua fiducia; ma suo fratello Galeazzo, col pretesto che Cremona faceva parte del Ducato e che il Duca era lui, pretendeva di comandarvi nel solito modo prepotente e brutale ed inviava a Ludovico ed alle altre autorità ordini contradicenti a quelli di Bianca Maria. Ludovico cerca di barcamenarsi. Manda a Galeazzo parole buone e l'assicura che sarà sempre "fratello sottomesso", ma rassicura la madre, le dice di fidarsi di lui, e si lamenta delle ingerenze di Galeazzo, il quale spinge la sua sfrontatezza al punto di far impiccare a Cremona, contro la volontà di Ludovico, un vecchio fedele di suo padre. Era una situazione terribile. La lotta fra madre e figlio, inevitabile dato il contrasto spiccatissimo fra le loro figure morali e il diverso concetto dei diritti e doveri dei regnanti, si inaspriva sempre più, e veniva svolta da Galeazzo con metodi subdoli, velenosi, e con scoppi di "selvatica" violenza. Chi nei documenti d'archivio ha seguito attentamente le fasi di quella tragica lotta, oggetto in tutte le Corti d'Italia di commenti indignati, deve trovare logico, quasi inevitabile, il progetto da alcuni storici attribuito a Bianca Maria di rendere cioè Cremona stato indipendente e porla sotto la protezione di qualche altro stato potente, onde potervisi rifugiare con gli altri figli, per i quali la vita a Milano, sotto la dominazione tirannica di Galeazzo, diventava sempre più penosa. Della maturazione di questo progetto, che Galeazzo conosceva od almeno intuiva e paventava, doveva saper qualche cosa - anzi forse molto - il nostro fra Agostino. Due sue lettere a Bianca Maria, scritte nella primavera del 1468 quando la crisi era in pieno sviluppo ed egli era Priore del convento di S. Agostino a Cremona, ci dicono ch'egli godeva la confidenza di lei e le serviva da messaggero per impartire istruzioni alle autorità locali. Ludovico, che il fratello aveva voluto mandare altrove, non era più a Cremona, e Bianca Maria si apprestava a venirvi, forse per fermarsi, forse invece per prepararvi la sua residenza fissa. Con lei contava di condurre Ascanio suo quintogenito, dedicato alla carriera ecclesiastica e già Monsignore a 13 anni, e doveva esservi raggiunta dalla figlia Ippolita col marito Duca di Calabria.

Fra Agostino era stato a Milano a parlare con Bianca Maria: era tornato latore di sue istruzioni verbali al Referendario di Cremona, ed avendo saputo poi che la Duchessa sarebbe arrivata prima del giorno stabilito, le scriveva il 2 e il 3 febbraio le sole due lettere che ci sono rimaste di quell'epoca. Egli è pieno di zelo e di ardore: non sa più che cosa fare per poter ospitare degnamente nel suo convento il piccolo Monsignore che chiama "il vostro dolce fiolo Ascanio", visto che non vi può ospitare Bianca Maria. E benché sia un po' lamentoso perché la notizia del loro anticipato arrivo è giunta improvvisa, e la fatica degli affrettati preparativi gli ha procurato "un'infermitade", ha parole commoventi di affetto e fedeltà per la povera spodestata Duchessa che a Cremona cercava un asilo sicuro nella sua disperazione. "Tanto amo la S. V. quanto quella che me ha portato nel corpo" le scrive nel crudo stile dell'epoca! che pure doveva suonare dolce al grande e martoriato cuore di colei che oltre i suoi otto figli amava tutto il suo popolo con affetto materno. L'arrivo affrettato di Bianca Maria ed Ascanio non ebbe luogo. La Duchessa dovette ritardare la sua venuta a Cremona, provocando nuovi lamenti da fra Agostino, ma quando finalmente giunse, fu ricevuta con ogni dimostrazione di affetto dai suoi cremonesi. Però il rapace Galeazzo non poteva lasciar in riposo la madre nella sua Cremona, e, dato che il suo terribile carattere gli vietava di venire a patti con lei e cercar di vivere in pace, la sua preoccupazione di dominare anche Cremona appare comprensibile. La perdita del cremonese sarebbe stato un duro colpo per la compagine del Ducato ed i documenti riservati lasciano trasparire un retroscena politico dove sembra che Venezia e Napoli andassero a gara per allettare Bianca Maria ed averla alleata contro Galeazzo. La venuta in Lombardia e la permanenza presso la madre di Ippolita, sua sorella, e del cognato Duca di Calabria, il matrimonio progettato fra suo fratello terzogenito Sforza Maria ed Eleonora, figlia di re Ferdinando di Napoli, il quale lasciava trapelare il suo desiderio di vedere Sforza al posto di Galeazzo sul trono milanese, erano tutte cause di viva preoccupazione per il giovane tiranno.

Presto la Duchessa madre viene a sapere che il figlio cerca "cautamente et molto secrete" di aver le rocche del cremonese in suo potere, e fa impiccar quei castellani che per fedeltà a lei resistono alle sue pretese. Intanto si profila per Galeazzo una minaccia da parte di Ludovico di Mantova, che, forse pieno di antico sordo rancore, appresta, per incarico di re Ferdinando, il suo esercito onde essere pronto ad intervenire a favore di Bianca Maria ove questa avesse bisogno di aiuto armato contro il malvagio figlio, mentre alla Duchessa, momentaneamente sicura a Cremona, il re fa scrivere "di non mettersi più per nessuna ragione in potere di Galeazzo" (22).

Davanti al pericolo di vedersi sfuggire la madre, che la sua malvagità ha messo nella dolorosa condizione di trovarsi nemica del proprio figlio, Galeazzo cambia tattica. Adopera l'ipocrisia e con proteste di affetto e riverenza riesce ad addormentare i dubbi di Bianca Maria, attirandola a Milano per le sue trionfali nozze con Bona di Savoia, nozze che pure avevano corso rischio di andare in fumo per le cattive relazioni sue col Duca di Savoia, fratello della sposa, e sembra anche a causa di "parole dishoneste" di Galeazzo all'indirizzo della stessa Bona. Forse Bianca Maria, presentandosi attorniata dagli altri figli e con a fianco il potente genero, si sentiva protetta dalle "novità" - ossia violenze - da parte di Galeazzo, che i suoi amici temevano. Certamente essa ebbe grande desiderio di assistere alla riunione familiare, e di ritrovarvi per un momento il suo posto d'onore. Perciò si lasciò lusingare; andò a Milano, ma non tornò. Dopo le nozze, allorché la Duchessa di Calabria si mise in viaggio per Napoli, la madre l'accompagnò fino sul genovese; poi s'avviò verso Cremona, ma fu colta durante il viaggio da un accesso del suo male che sempre l'afflisse - l'asma bronchiale. Attirata non si sa come al castello di Melegnano, dove Galeazzo la circondò di fedeli suoi e mandò medici di sua fiducia a curarla, nuove misteriose complicazioni sopravvennero a rendere disperate le sue condizioni. Due mesi più tardi Bianca Maria spirava santamente a soli 43 anni, fra l'universale cordoglio, ed i cronisti, unanimi, aggiunsero un nuovo addebito all'elenco dei delitti, provati o presunti, di Galeazzo. Fra i molti religiosi che visitarono la pia Duchessa nell'ultima sua malattia forse vi sarà stato anche fra Agostino, divenuto in aprile e per la terza volta Vicario Generale della sua Congregazione. Non abbiamo documenti in proposito, ma certamente avrà seguito con sgomento lo svolgersi fatale della malattia, unendo la sua voce di dolore al coro universale di pianti e lamenti.

Da quel funesto giorno sembra che siano cessate le sue relazioni con la corte milanese. A Milano non spirava aria buona per gli ecclesiastici amici della pia Duchessa, troppo zelanti a rammentare le sue virtù ed esortare il figlio a seguire il suo esempio. Galeazzo espulse dal suo Ducato tutti coloro che nelle loro prediche gli rivolgevano esortazioni od ammonimenti - perfino il Beato Michele Carcano che aveva assistito la madre nell'agonia. Ma a Crema, in territorio veneto, lo zampino di Galeazzo non giungeva, ed è qui che ritroveremo fra Agostino, nel suo caro convento di Crema, dove fu molte volte Priore, e dove dimorava sempre quando gli incarichi non l'obbligavano a stame lontano. Durante la sua prioranza del 1461 vi aveva ospitato per l'ultima volta il fondatore, maestro Gian Rocco, Vicario Generale per quell'anno, e che, pure vecchio ed ammalato, si era messo in viaggio per Mantova dovendovi incontrare il Generale di tutto l'Ordine Agostiniano. Il futuro Beato si fermò alcuni giorni presso fra Agostino, e gli predisse la propria vicina morte, esprimendo il desiderio di essere sepolto nel convento di Crema. Questa sua volontà non fu però eseguita, poiché quando poche settimane dopo egli morì in fama di santità, il popolo mantovano affollatosi attorno alla sua bara fu, o si credette, beneficato con prodigi e con miracoli, ed i Marchesi non vollero lasciar asportare la salma. Da Crema fra Agostino assistette alla breve e scellerata carriera del Duca Galeazzo, ma, troncata questa da vindici mani assassine, ricevette alcuni anni più tardi un ampio lasciapassare rilasciato a nome del minorenne Gian Galeazzo, strappato alla madre e preso in tutela dallo zio Ludovico il Moro. Questo documento dimostra come fra Agostino godesse ancora della benevolenza di quell'enigmatico personaggio; Ludovico aveva amato la madre, ed, al contrario del fratello maggiore, fu sempre pieno di deferenza per i suoi amici e familiari. E così, sotto la protezione del sigillo visconteo adottato dalla famiglia avventuriera, fra Agostino, nuovamente Vicario Generale nel 1488, girava "con 6 compagni" per ispezionare conventi e ricondurre sulla retta via i molti svagati e dissoluti frati che ancora quasi 50 anni dopo la riforma screditavano i conventi Agostiniani.

Davano scandalo perfino ai dissoluti principi dell'epoca, che si rivolgevano all'Osservanza di Lombardia perché vi mettesse rimedio, e quasi sempre la bisogna toccava a fra Agostino. Già in una sua lettera del 1470 dice d'essere in attiva corrispondenza "con li gentiluomini di Piacenza" dove deve andare per "riformare quel luocho", ossia il locale convento Agostiniano. Nel 1472 è lo stesso Pontefice, Sisto IV, che chiama a Roma la Congregazione per riformare il convento di S. Maria del Popolo, e nel 1474 il Duca di Ferrara chiede l'Osservanza per l'antico convento di S. Andrea dove i frati "oltre il mal vivere" avevano dissipati tutti gli argenti, calici, pianete e messali e tutti gli altri beni "per modo che fu necessario cacciarli dal convento" (23).

Nel 1480 è invece il nipote di Papa Sisto, Gerolamo Riario, da pochi anni marito della famosa Caterina Sforza, figlia di Galeazzo, che grida al soccorso per il convento Agostiniano di Imola, che "stava per ruinare del tutto per il dissoluto vivere dei frati conventuali". Fra Agostino, in perpetuo movimento, maneggiava una simbolica scopa e la sibilante sferza della sua scioltissima lingua. Dobbiamo però pensarlo aiutato da sei nerboruti fratelli, poiché pare fosse spesso necessario ricorrere a vie di fatto contro gli ostinati peccatori in tonaca; bisogna certamente superiore alle possibilità del gracile e timido fra Agostino. Quando queste sante baruffe gli lasciavano un po' di riposo, avrà forse rivolto un mesto pensiero a Milano, dove si palesavano nuove e subdole infamie commesse dal mite ma scaltro Ludovico il Moro contro il gracile infelice nipote erede di Galeazzo - infamie che dovevano portare Ludovico al trono ducale, per poi aprire le porte d'Italia allo straniero, e precipitare lui con tutta la sua famiglia nell'estrema tragica rovina. Assai più immediata doveva però essere la partecipazione di fra Agostino alle vicende della corte mantovana, dove godeva fiducia anche presso il Marchese Federico succeduto nel 1478 a Ludovico, e dove diversi cremaschi suoi concittadini occupavano cariche. Fra questi "Beltramino da Crema", Podestà di Mantova ed intimo consigliere dei Marchesi, aveva trapiantato a Mantova un ramo della nobile famiglia Cusatri. Egli fu anche oratore ed ambasciatore mantovano presso altri principati ed ebbe parte primaria nelle trattative per il matrimonio di Francesco, primogenito di Federico, con Isabella d'Este, figlia del Duca di Ferrara.

La bionda coltissima sposina sedicenne, destinata ad emergere fra i più celebri mecenati della Rinascita, avrà certamente conosciuto l'attivissimo frate cremasco, ormai figura di primo piano - i cronisti parlano vagamente di qualche sua importante missione a Roma - e che si piccava di appartenere al ceto letterario. Poco prima della morte del marchese Federico nel 1484, fra Agostino gli dedicava una sua vita di S. Giovanni Buono, e fu con Beltramino Cusatri fra i primi lettori della famosa Cronaca pubblicata in quell'anno da fra Giacomo Filippo Foresti di Bergamo, illustre figlio della Congregazione. Ma mentre Beltramino partecipava al grande avvenimento letterario acquistando la preziosa opera per la somma di lire quattro e soldi sei imperiali, e due esemplari venivano comperati per il convento di Crema, fra Agostino fu fra i pochissimi che la ricevettero in omaggio dall'autore.

 

 

NOTE

(17) - Questo ritratto esposto alla Mostra Gonzaghesca quale "Cardinale Francesco Gonzaga" del Mantegna, è a Napoli. Al confronto con gli altri ritratti di tutta la famiglia dipinti dal Mantegna a Mantova sembra piuttosto il ritratto del Protonotario Ludovico - altro fratello di Dorotea - e come tale credo sia stato ora riconosciuto.

(18) - Veramente è una nota fatta a memoria da un Cortegiano, perché fra Agostino non volle lasciar copiare i suoi appunti. Il termine entro il quale gli Sforza erano impegnati ad accettare la sposa e condurla a casa loro scadeva nel Dicembre. I Marchesi erano già stati in gravi fastidi per le faccende matrimoniali di un altro loro figlio, il primogenito Federico, al quale l'Imperatore aveva voluto concedere in isposa una sua giovane parente, Margherita, figlia del Duca Alberto di Baviera. Vennero a concludere le sponsalie alcuni ambasciatori che non andarono a genio al cronista Schivenoglia. Egli dice che "parevano tanti cuochi e sguatteri" e si meravigliava del loro "malo vivere". Federico era innamorato di un'altra fanciulla, e non ne voleva sapere della tedesca. Davanti alle insistenze del padre ansioso di concludere tanta parentela, egli scappò da Mantova complice la madre e vagò per l'Italia. Fu finalmente ripescato a Napoli, ammalato ed in miseria, ricondotto a Mantova, ed obbligato a sposare Margherita, che arrivò a Mantova "con grande trionfo", e dai cronisti cortegiani fu detta "bella", qualifica d'obbligo per una sposa principesca. Ma il disinvolto e mordace Schivenoglia la dice invece "piccola e grassotella", ed accompagnata da molti tedeschi brutti e mal vestiti.

(19) - Ossia mettersi dalla parte del torto. (Questa lettera è stata pubblicata dal Dina, il quale per errore chiama fra Agostino "da Cremona", invece che da Crema).

(20) - Ossia l'intenzione di sciogliere il contratto e ripudiare la sposa.

(21) - Sono notizie riferite dal cortegiano sforzesco Zanino Barbati, cremasco, scappato da Milano perché inviso a Galeazzo e riportate in una lettera al Marchese Ludovico da Anselmo Folengo, oratore mantovano a Carpi. (Archivio Gonzaga a Mantova).

(22) - Lettera da Napoli alla Duchessa Bianca Maria dall'oratore sforzesco Antonio da Trezzo. (Archivio di Stato, Milano).

(23) - Questi documenti oltre quelli citati a pag. 47, il "lascia-passare" di Giangaleazzo, le carte riguardanti il Concilio di Mantova, l'elenco dei Priori dell'Incoronata ed il documento rammentato a pag. 27 sulle spese ivi fatte da fra Agostino, sono tutti fra le carte degli Agostiniani alla Biblioteca Civica di Bergamo.

 

 

 

 

IL BRACCIO DI SAN PANTALEONE

Nel 1488 fra Agostino era, come abbiamo detto, per settima ed ultima volta Vicario Generale della Congregazione. Si occupava di preparare il Capitolo generale dell'anno seguente che sperava - invano - di riunire a Crema, e riceveva da un pio testatore un piccolo legato a questo scopo, oltre al legato personale di tanto panno da farsi una cappa (24).

Data l'età e la debole salute non fu più sottoposto al grave peso del vicariato, ma fu ancora e forse per diversi anni Priore del suo convento di Crema, ed in questa qualità compì fra il 1492 e il 1493 l'ultimo atto di qualche importanza che ci é noto, facendosi promotore della cessione a Crema di una preziosa reliquia. Quando Costantinopoli cadde in mano ai turchi, alcuni genovesi che vi si trovavano erano riusciti a salvare un braccio di S. Pantaleone ivi conservato. L'avevano portato a Genova, dove era stato affidato al convento di S. Maria della Cella; ma i cremaschi, che circa un secolo prima avevano scelto S. Pantaleone a protettore della città, e che avevano scoperto nel 1485 una parte del suo cranio sepolto in una preziosa cassetta sotto l'altar maggiore del Duomo, desideravano di avere anche quest'altra reliquia, e già nel 1485 avevano mandato a questo scopo un oratore a Brescia dove si trovava radunato il Capitolo Generale della Congregazione. L'oratore, ch'era il nobile Gianbattista da Terno, padre dello storico Pietro, persona autorevole e largamente munita di commendatizie, riuscì ad ottenere una promessa che, sciolta la riunione, i frati di Genova trovarono comodo dimenticare.

Ma da quel Capitolo fra Agostino da Crema era uscito Vicario Generale per la sesta volta, ed aveva preso a cuore la cosa, tanto più che da lui si recarono nel 1492 alcuni cittadini "de li primi de la terra, più fiate et cum gran preghiere dimandando chio volesse far opera che la sancta reliquia del glorioso martyre Pantaeleymone la quale altre volte era stata promissa... fusse portata a Crema. Allegando lor questo, che se io non pigliasse questa cura, non haveriano may speranza alchuna dì poter conseguire questa reliquia". Così scrive fra Agostino in una sua relazione alla comunità di Crema, e proclama: "quest'anno per opera mia è fatto chel Capitulo Generale della Congregazione nostra se congregato qui apresso noy, in el quale è stato molto mazore numero de frati che sia stato altre fiate. Per procuratione mia el summo Pontefice Innocentio octavo ha concesso Jubileo... et apresso di ciò plenaria Indulgentia de tutti li peccati a quelli che per tutta la Domenica en la quale se celebrava dicto Capitulo visitava la chiesa di sancto Augustino ".

È interessante sapere che fu per "procuratione" di lui che nel 1492 il Papa concesse larghe indulgenze nelle quali associò la chiesa di S. Agostino di Crema a quella importante di S. Maria del Popolo a Roma, assunta dalla Congregazione nel 1472. La concessione doveva durare quattro mesi, e le relative elemosine erano destinate a restauri o rifacimenti nelle due chiese tanto lontane una dall'altra. A Santa Maria del Popolo doveva spettare la parte del leone, ossia i due terzi della somma. Vari atti rogati in quell'occasione dai notai cremaschi Lodovico Albergoni e Lazzaro Dolcevita ci dicono che la "capsa" delle offerte, posta all'altare della Madonna del Popolo, era munita di quattro chiavi, consegnate dal notaio: la prima a Monsignor Giovanantonio da Terno, Vicario e delegato speciale del Cardinale Ascanio Sforza, Vescovo di Cremona, la seconda a Monsignor Andrea Clavelli, Vicario del Vescovo di Piacenza, la terza a fra Agostino, Priore del convento, e la quarta a fra Serafino da Cremona, delegato speciale del Vicario Generale. Si trovarono a Crema tutti i Priori più importanti, incluso quello di Roma, il notissimo fra Mariano da Genazzano emulo del Savonarola, ed in uno sgualcito e scarabocchiato registrino, probabilmente di mano di fra Agostino, è giunto a noi un elenco degli offerenti. Oltre tutta la nobiltà cremasca, molti personaggi bergamaschi ed alcuni milanesi, lodigiani e cremonesi si affrettarono a mondarsi a buon mercato dei loro numerosi peccati, e quando la "capsa" fu aperta vi si trovarono offerte per il valore di 221 ducati d'oro. In fra Serafino, che fece le somme ed i conguagli, dobbiamo riconoscere eccezionali qualità di contabile! Ecco che cosa trovò e dovette valutare: "ducati aurei, bislacchi, corone, marcelline, testoni, tedeschi, bolognesi, carlini, zenoyesi (genovesi?) grossi da sei e da tre soldi di moneta milanese, marchetti, bisoli (?), soldini, quindicini baiocchi, treini, monete forestiere" ed alcune altre ancora, evidentemente indescrivibili, ch'egli classificò come "monete diverse". (Vedasi nota 23). Sulla sincerità di questi conti resta però qualche dubbio. Nel resoconto ufficiale steso dal notaio Dolcevita non risultano i ducati d'oro offerti dai Magnifici Scipione Benzoni e Bartolino da Terno, dei quali ho trovato le bellissime ricevute originali in pergamena, e nell'elenco delle offerte mancano quei nomi. Ci si chiede perciò se, nonostante la quadruplice serratura, i frati cremaschi - forse poco contenti della terza parte loro assegnata - fossero riusciti a fare qualche pia operazione di... sottrazione a favore del loro convento!

Forse nel braccio di S. Pantaleone fra Agostino vide anche la possibilità di una nuova retata di elemosine a beneficio del suo amato convento. Nella sua relazione racconta come essendo "studiosissimo della comune laude" pur di ottenere quell'Osso andò a piedi fino a S. Pier d'Arena - non senza le solite lamentele sulla fatica, le infermitade, e la sua "quasi decrepita età". Si lamenta, brontola, ma corre e briga e riesce a strappare ai renitenti frati genovesi metà di quel povero braccio, che riporta in trionfo e deposita al convento di Credera sul cremasco, da lui fondato anni prima con beni ivi lasciati da Tomaso Vimercati. Poco dopo, e precisamente il 28 dicembre 1492 il Gran Consiglio della città elesse due noti personaggi, i nobili Francesco Vimercati e Giambattista da Terno, per accompagnare il Padre Priore, ossia fra Agostino, dal Vescovo di Piacenza, onde mostrargli le autentiche della reliquia e ottenere la sua autorizzazione di esporla al culto e tenerla in permanenza a Crema. Fra Agostino volle ed ottenne la nomina di un terzo ambasciatore nella persona del legale Dottor Bartolomeo Canepari. Forse contava sulla sua parola suadente per dissipare nella mente episcopale eventuali dubbi sulla autenticità della reliquia, ovvero sul maggior diritto dei genovesi al suo possesso. E così, nel cuore del freddo inverno, egli ancora corre e briga onde condurre sana e salva in porto la sua pia barchetta. Rientrato in Crema, si accorda con le autorità locali affinché la translazione delta reliquia alla chiesa di S. Agostino abbia luogo in forma solenne. Non vuole lasciar sfuggire così bella occasione di beneficare al rnassimo possibile la sua Congregazione ed il suo convento; né intende lasciar sotto il moggio la propria fiaccola, che anzi sventola ingenuamente col racconto delle proprie fatiche e benemerenze. Finalmente, nella prima Domenica di Quaresima del 1493, il Podestà veneto Priamo Tron, tutte le autorità e gran folla di popolo si recano alla chiesa di S. Bartolomeo fuori città per rilevare la reliquia portatavi il giorno prima, ed accompagnarla in città con ogni possibile segno di devozione e di letizia, nonché gran strepito di trombe, pifferi e tamburi. Dopo la grande festa, onorevole e proficua, dove si fece di nuovo una grande distribuzione di indulgenze e relativa messe di elemosine, fra Agostino, estenuato ma felice, si ritira nella sua cella onde esaminare una vita latina di S. Pantaleone, portata da Genova insieme alla reliquia e che pensa di divulgare. La trova "un poco prolissa", perciò la "riduce in brevità, affinché a nessuno sia grave la lectione", vi antepone una sua relazione latina sulla translazione appena avvenuta ed un discorso pronunciato in quell'occasione dal suo amico Dottor Canepari, ed offre l'operetta alla "Magnifica Comunità di Crema". Il Gran Consiglio delibera che il libretto venga stampato a Cremona dai soci tipografi Bernardino de Misintis e Cesare da Parma e che i frati abbiano a curarne la vendita. Ove il ricavo non sia sufficiente a coprire le spese di stampa, vi provvederà la Comunità, e difatti, forse in seguito ad insistenze da parte dei frati, vi contribuisce con nove lire imperiali.

Mentre nella sua cella il buon frate lasciava riposare le stanche estremità e si affaticava con la penna d'oca, non pensava che quell'operetta, dalla quale forse sperava un po' di gloria nel XV secolo, lo avrebbe reso famoso nel XX quale autore di uno dei più rari incunaboli! Nulla sappiamo dell'accoglienza che ebbe al momento: possiamo però pensarla buona, dato che l'edizione latina che porta la data dell'8 agosto 1493 fu seguita il 18 dello stesso mese da altra con testo italiano. Eppure alcuni esemplari rimasero invenduti in convento ed i frati ne adoperarono le pagine per foderare la legatura di altri libri della loro ricca e celebre biblioteca. In alcuni libri usciti da quella libreria queste pagine sono state ritrovate pochi anni or sono e distaccate con somma cura da bibliofili felici di trovarsi davanti a "cosa di somma rarità dal lato bibliografico e ancor più dal lato storico" (25).

Non si conoscono altre edizioni per il 1493 di quei noti e pregiati tipografi Bernardino e Cesare; non si conoscono altre opere di fra Agostino che pur scrisse una storia della sua Congregazione, che secondo il Calvi fu anche stampata, e la vita di S. Giovanni Buono. Di quest'unica sua operetta superstite, dimenticata per secoli e "scoperta" attraverso quelle pagine staccate, si conoscono per ora appena quattro esemplari. Una è al Museo Britannico a Londra, una alla Biblioteca Nazionale di Brera, una all'Università di Bologna, mentre l'unico esemplare rimasto alla natia Crema in una grande biblioteca privata, sfuggì, perché rilegata con altri opuscoli, alla ricerca affannosa degli amatori locali che la volevano conservare a Crema, e fu poi ritrovata dall'acquirente dopo che la biblioteca, venduta in blocco, era già... emigrata e perduta per Crema. Questa "Historia del Martyrio del glorioso Sancto Pantaeleymone" fu l'ultima nota fatica di fra Agostino, che fu nominato in quell'anno per la quarta volta Priore di S. Agostino a Cremona, ed è probabilmente affinché egli la potesse personalmente curare che la stampa della sua "Historia" fu affidata agli stampatori cremonesi.

Sembra che da Cremona egli tornasse al convento di Crema, dove morì due anni più tardi e trovò riposo nella chiesa ovvero nel chiostro. Già nel 1508 la sua chiesetta quattrocentesca, allargata più volte, veniva inghiottita da una chiesa grande che a sua volta scompariva nella prima metà del XVII secolo per cedere il posto ad una chiesa monumentale con ornatissima facciata e grande cupola. Così pure il convento, accresciuto con l'aggiunta di altri edifici, divenne sempre più grande e "suntuoso" tanto da essere preferito dalla autorità quale alloggio per i grandi personaggi in visita a Crema, e quale abitazione per il Vescovo mentre si erigeva il Vescovado. La ricchissima biblioteca, alla quale il primo importante contributo fu forse il legato della libreria del nobile Cavalier Agostino Benvenuti, morto nel 1480, divenne celebre in tutta l'alta Italia ma fu dispersa quando su chiese e conventi s'abbattè la tempesta giacobina, e, demolita la chiesa, il convento fu adebito ad altro uso. Pochi anni fa visitavo l'antico e splendido edificio, oramai in deplorevole stato di deperimento, cercando nell'immenso e magnifico Refettorio - adibito a magazzino - traccia degli affreschi che Gian Pietro da Cemmo vi dipinse alla fine del Quattrocento od all'inizio del secolo seguente, e che uno spesso strato di imbiancatura conserva - speriamo - quale gloriosa "scoperta" per chi fra noi od i nostri discendenti saprà conquistare e meritare tanta fortuna. Il custode che mi guidava si fermò nel più antico chiostro ed osservò: "si vede che qui seppellivano i frati. Quando furono messe le canne dell'acqua abbiamo trovate tante ossa....". Forse fra quelle erano le ossa del buon frate, dotto, devoto ed ingenuo, che attraverso pochi scritti ci ha lasciato una fugace visione della sua personalità geniale.

 

 

NOTE

(24) - Testamento di Bartolomeo Ferrari del 29 settembre 1488. (Archivio Benvenuti).

(25) - Queste parole sono del noto bibliofilo Angelo Davoli, il quale scrisse monografia su questo raro incunabolo. Egli ne aveva scoperto a Modena alcune pagine inserite come fodera nella legatura di un volume evidentemente uscito dalla Libreria degli Agostiniani di Crema. La stessa scoperta fece chi scrive, nella fodera di un incunabolo nella libreria di casa e che portava l'indicazione dell'antica sua appartenenza ad un frate del convento di Crema. La monografia del Davoli, il quale cercò invano di sapere qualche cosa di fra Agostino, è piena di domande alle quali il presente lavoro fornisce, bene o male, le risposte! Credo opportuno di riportare qui l'elenco delle opere di fra Agostino da Crema steso da Padre Calvi a pag. 66 della sua opera "Delle memorie istoriche della Congregazione Osservante di Lombardia dell'Ordine Eremitano di S. Agostino", stampata a Milano nel 1669: "Come era zelantissimo della Congregazione sua, così compose tre libri à memoria perpetua della sua santa origine, e fortunati progressi che furono:

EXPIMERIS, SEU DE ORIGINE CONGREGATIONIS.

DE IMPUGNATIONIBUS CONGREGATIONIS.

DE INCREMENTO EIUSDEM.

Tutti dedicandoli al Padre Vicario Generale Benigno Peri l'anno 1477, che poi per decreto del Capitolo Generale dell'Eremo l'anno 1523 furon alle stampe destinati. Aggiunse altre operette c'hor vedono la luce del mondo e sono:

HISTORIA DIVI PANTALEONIS MART. AD MAGNIFICAM, ET GLORIOSAM

 CREMENSEM COMMUNITATEM ANNI 1494 (?).

TRASLATIO BRACHIJ EIUSDEM DIVI MART. PANTALEONIS.

D. IO. BONI MANTUANI ORD. FF. EREM. S. AUGUSTINI

IN PROVINCIJS ROMANDIOLAE, LOMBARDIAE, AC VENETIARUM

PRIMI INSTITUTORIS AC FUNDATORIS HISTORIA.

AD ILLUSTRISS. PRINCIPEM FEDERRICUM GONZAGAM MANTUAE MARCHIONEM, 1484.

In quest'elenco, forse non completo, è evidente qualche piccola inesattezza, ed in altra parte della sua opera Padre Calvi dice che la storia della Congregazione fu scritta da Padre Benigno Peri. E' naturalmente possibile che il Peri si sia valso dello scritto di fra Agostino per comporre altra e forse più completa storia, ma la notizia potrà anche dipendere da una distrazione di Padre Calvi, il quale forse confonde i nomi dell'autore e di colui al quale fu dedicata l'opera. In una memoria manoscritta di A. Tiraboschi sulla chiesa e convento di S. Agostino a Bergamo, esistente in quella Biblioteca Civica, si parla di una opera manoscritta di fra Agostino da Crema che si trovava nella libreria del convento, e nella quale erano riprodotte molte lettere dei fondatori del convento e di alcuni eccelsi personaggi. Secondo il Tiraboschi gli originali di queste lettere, incluse due della Duchessa Bianca Maria, si trovavano anni fa in una raccolta di documenti appartenente al Nob. Vincenzo Barca. La famiglia Barca si trasferì molti anni fa da Bergamo a Brescia e non é ancora stato possibile di rintracciare l'interessante raccolta. Il citato manoscritto di fra Agostino poteva essere forse la prima stesura della sua "Storia" od almeno di una parte di questa, dedicata in modo speciale al convento di Bergamo. Comunque sia, se effettivamente l'opera fu data alla stampa nel 1523, sembra strano che non se ne trovi nemmeno un solo esemplare!

 

 

 

LE FONTI

 

Fonti manoscritte:

PIETRO DA TERNO: Historia di Crema. Registri n. 9 e 10 delle "Parti prese in Consiglio" (Città di Crema).

A. TIRABOSCHI: Notizie attorno al Monastero e alla chiesa di Sant'Agostino (Bergamo).

CESARE FRANCESCO TINTORI: Delle Memorie sacro-profane appartenenti alla nobilissima città di Crema.

SANDRO ANGELINI: Memorie Storiche e studio di Restauro del Convento di S. Agostino in Bergamo (inedito).

DOCUMENTI VARI all'Archivio di Stato a Milano e a Mantova, alla Biblioteca Civica di Bergamo ed in archivi privati cremaschi. (Per il convento di Crema esistono molti documenti all'Archivio Notarile di Lodi).

INCUNABOLO presso la Biblioteca Universitaria di Genova, in eccellenti condizioni di conservazione, composto di 8 fogli (16 pagine). Catalogo: Inc. Gaslini 17 Xilografia di S. Pantaleone (fol.1 recto), quindi: Ad magnificam et gloriosam Cremensem communitate frater Augustinus de Crema regularis vite fratrum Eremitarum Sancti Augustini. Salutem. Divi Pantaleymonis martirys historia. Translatio brachii eius divi Martyris Pantaeleymonis. Bartholomei caneparii iuris consulti ornatissimi coram senatu Cremensi in traslatione divi Pantaeleymonis martyris. Oratio. Commemoratio pro sancto Pantaeleymone martyre Antiphona. Oratio. Impressa Cremone ad instantiam Magnifice communitatis Cremensis: per Bernardinum de misintis de Pap. & Cesarem parmensem: Socios. Anno salutis. M.CCCC.LXXXXIII. die YIII. Augu.

 

Fonti stampate:

PADRE DONATO CALVI: Delle Memorie istoriche della Congregazione Osservante di Lombardia dell'Ordine Eremitano di Sant'Agostino. Milano 1669.

BERNARDINO CORIO: Historia di Milano. Ivi 1505.

ANDREA SCHIVENOGLIA: Cronaca di Mantova. Edita e pubblicata da Carlo d'Arco. Milano 1857.

FRA AGOSTINO DA CREMA: Relazione alla Magnifica Comunità di Crema, stampata nella sua " Historia ecc. ecc., di S. Pantaleone. Cremona 1493.

LUCA BELTRAME: Gli sponsali di Galeazzo Maria Sforza. Milano 1893.

DINA: Notizie su Dorotea Gonzaga, ecc. in Archivio Storico Lombardo, 1887 e 1889.

MARIO EQUICOLA: Storia di Mantova. Ivi 1610.

IPPOLITO DONESMONDI: Storia Ecclesiastica di Mantova.

L. C. VOLTA: Storia di Mantova. Ivi 1827.

ANGELO DAVOLI: Della duplice e rarissima edizione del sec. XV de "La historia del martyrio del glorioso sancto Pantaleymone" di Frate Augustino da Crema. Firenze 1928.

VINCENZO FORCELLA: Iscrizioni nelle chiese (ecc.) di Milano. Ivi 1890.

D. GIULIO CESARE TENSINI: Vita di S. Pantaleone. Crema 1837.