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rigamonti ivo: DON GIOVANNI MOTTA PARROCO DI CASSAGO

 don Giovanni Motta celebra la Messa all'altare di Cassago

Cassago: don Motta celebra la S. Messa

 

 

 

DON GIOVANNI MOTTA PARROCO DI CASSAGO

di Ivo Rigamonti

 

 

 

Don Giovanni nacque il 23 giugno 1911 a La Santa, a quel tempo un sobborgo di Monza. Papà Alessandro e la madre Francesca Ornaghi lo chiamarono, per essere precisi, Giovanni Enrico. Sin da fanciullo manifestò una spiccata inclinazione a coltivare la fede cristiana, tanto da entrare ben presto in seminario. In una sua carta d'identità rilasciata dal comune di Venegono il 10 maggio 1931, don Giovanni, appena ventenne, ha la qualifica di studente nel seminario di quello stesso paese. Era di statura media, circa 170 cm di altezza, di fisico piuttosto asciutto. Da qualche anno era rimasto orfano di padre. Nel 1931 riuscì a diplomarsi a Milano, il 15 ottobre, conseguendo la Maturità Classica. Fra le votazioni nelle materie d'esame affrontate spiccano due sette in lettere italiane e storia con addirittura uno splendido otto in storia dell'arte. Il 19 dicembre di quello stesso anno ricevette la tonsura clericale nel Duomo di Milano. Uno dopo l'altro ricevette, sempre in Duomo, i priores ordines minores (29 giugno 1932), i posteriores ordines minores (17 dicembre 1932), il suddiaconato a titolo di servizio della diocesi (29 giugno 1934) e il sacro diaconato (3 novembre 1934). Sempre in Duomo a Milano fu infine ordinato prete il 15 giugno 1935 dal cardinale Ildefonso Schuster. Un suo parente, Ezio Penati, gli rivolse un saluto augurale su carta pergamenata, dove tocca le corde dei sentimenti e soprattutto la figura della madre:

Monza 16 giugno 1935

Carissimo Don Giovanni,

nel giorno in cui per la prima volta indossi i Sacri arredi sacerdotali, e inizi la tua carriera Ecclesiastica, voglio esserti vicino col mio pensiero affettuoso. Dopo tanti anni di duro e faticoso studio, ecco finalmente raggiunta la mèta che Dio ti additava e che hai meritato con la buona volontà e con la fede. Io sono molto orgoglioso di te poiché tu sei l'unico parente che si sia dedicato alla vita religiosa. Tu hai dato a tua madre la consolazione più grande che possa aspettare. Essa da molti anni sogna questo fausto giorno e la tua benedizione sarà la ricompensa alle sue ansie e alle sue pene. Ti prego di ricordare tutti noi nelle tue preghiere e di raccomandarci all'Altissimo, tu che hai la grandissima fortuna d'essere suo Ministro. Il mio augurio è che Iddio ti conservi a lungo e ti conceda fecondo apostolato.

Dopo aver conseguito la licenza in teologia a Venegono nel dicembre 1935, perfezionò i suoi studi frequentando la facoltà di Lettere all'Università Cattolica. Il 15 giugno 1940 sostenne l'esame di laurea conseguendo il dottorato in Lettere, al numero 5528 di matricola, con le congratulazioni di padre Agostino Gemelli. Grazie a questi brillanti risultati fu nominato professore di latino e lettere al seminario arcivescovile di S. Pietro a Seveso, dove fu molto apprezzato il suo stile di insegnamento che rispettava e valorizzava la personalità degli studenti in via di formazione. Suoi colleghi furono don Ferdinando Baj e mons. Teresio Ferraroni, futuro vescovo di Como. Per alcuni anni fu anche coadiutore domenicale nella parrocchia di Paderno Dugnano. Nel dopoguerra desiderò aprirsi al mondo e chiese di venire assegnato alla cura d'anime: le sue ansie pastorali furono soddisfatte nel 1948, quando venne nominato parroco di Cassago. Racconta don Giovanni che apprese dal giornale del 6 febbraio '48 che si era resa vacante questa parrocchia e subito decise di prepararsi al concorso canonico che si sarebbe tenuto il 14 aprile. Lo vinse e prese possesso della parrocchia il 6 giugno di quell'anno.

 

Parroco di Cassago (1948-1973)

Come lui stesso ricorda nei suoi scritti quando venne in questo paese non aveva in testa particolari pensieri o iniziative da sviluppare e portare a termine. "Nella giornata di entrata a parroco - ricorda - il mio risveglio fu come uno di tante altre mattine tranquillo e gioioso. Lasciavo la vita del Seminario. Che cosa avrei fatto ? Da dieci anni per ragioni di malattia della mamma e del parroco poi passavo le mattine in parrocchia di Villasanta e la vicinanza di quel mio parroco don Gaetano creava una mentalità parrocchiale senza neanche m'accorgessi. Con nella memoria i suoi esempi mi ritrovai quindi parroco in Cassago."

A 37 anni, nel fiore della giovinezza, don Giovanni si ritrova dunque parroco a Cassago. Il nuovo incarico tuttavia mette subito a dura prova le sue forze. Infatti il 2 luglio 1948 gli viene a mancare l'aiuto del coadiutore don Piero Pini, che da alcuni anni era anche Vicario della parrocchia. Quel giorno don Piero si trasferì nella parrocchia di S. Giuseppe a Sesto San Giovanni sempre in qualità di coadiutore. Don Giovanni così rimase solo, ma non perse la sua tranquillità poichè si riprometteva un aiuto spirituale dai sacerdoti del Collegio guanelliano dei Campiasciutti. Forte di questo appoggio cominciò, come dice lui stesso, a "rivolgersi anche alle opere materiali." Assecondando una sua inclinazione che gli sarà abituale, nei primi giorni della sua residenza in paese passò in tutte le case a portare il suo saluto e a fare un po' di conoscenza con i suoi nuovi parrocchiani. Fattasi passare la parola, i cassaghesi si fecero premura di consegnargli una offerta: "ebbi così in mano - scrive don Giovanni - una cifra che non dovevo far fatica a cercare."

Questi soldi furono subito impegnati per dare una sistemazione più funzionale e decorosa all'Oratorio Maschile: fu completata la cinta e soprattutto fu costruito un portico con soprastante terrazzo. Al piano superiore vennero predisposti due locali per riunioni, due sale per giocare e una cappella. Altri locali furono adattati ad appartamento che, secondo una costante e lungimirante sensibilità di don Giovanni, avrebbero potuto essere utilizzati nel futuro per un coadiutore assistente all'oratorio. Per il momento furono affidati a un custode, la famosa "màma gatìna", che vi entrò nell'aprile del 1950. Al piano terra fu ricavato un salone-teatro adibito anche a cinema. La prima rappresentazione teatrale fu eseguita il 9 dicembre 1949, esattamente un mese dopo la fine dei lavori. il primo film fu proiettato invece a capodanno del 1950. La ristrutturazione dell'oratorio con gli inevitabili disagi e necessità dei lavori edili fornì a don Giovanni l'occasione di riportarlo alla sua destinazione originaria e cioè luogo di incontro per i giovani: le due famiglie che vi abitavano occupando gran parte degli spazi utili furono trasferite nella casa coadiutorale. Un'altra questione aperta per lui fu la sistemazione della famiglia del sagrestano, che alloggiava nella stessa casa parrocchiale: era una situazione di cui non riusciva a capacitarsi, ma dovette accettarla, almeno fino a quando si decise a costruirne una nuova. La casa parrocchiale, di proprietà comunale, gli piaceva: "Casa vecchia, ma ideale - annota - e una volta chiuso il portone più nessuno vi caccia occhio indiscreto: ha la sua bella attrattiva, qualche accorgimento igienico poteva renderla abitabile e quasi confortevole. Per utilità e per estetica mi sembrava adatta, almeno secondo i concetti a cui deve essere informata una casa parrocchiale, che mi eran stati dati durante la mia educazione. "

Don Giovanni cercò di apportarvi qualche miglioria e i lavori furono ultimati prima del 16 agosto 1949, quando ricevette la visita pastorale del cardinale Schuster, che fu, come sottolinea incredulo don Motta, di ordinaria amministrazione e ben lungi da quell'indagine profonda e rispettosamente timorosa delle prime, al dire dei rev. Sacerdoti che l'avevano constatato.

Dopo questi primi urgenti interventi che potremmo definire "organizzativi e interni", don Giovanni avvia un programma di opere di ampliamento della attività della parrocchia che caratterizzerà la sua azione pastorale, sempre attenta alle esigenze spirituali ma anche materiali dei suoi parrocchiani. Per questo suo orientamento pragmatico fu sovente richiamato dai suoi superiori che tentarono di contestargli certe posizioni in cui si era messo. Don Giovanni si difese sempre affermando che nell'atto di consegna e di descrizione del Beneficio parrocchiale c'era scritto che si deve migliorare. "Ed io - scrive di suo pugno - sempre in questo pensiero ho fatto quel che ho fatto." Sono queste le ragioni, associate a una fortissima sensibilità ai problemi sociali, che conducono a due interventi edilizi in via Vittorio Veneto che producono dapprima la ristrutturazione della casa coadiutorale, ricavandone tre appartamenti e poi la costruzione della Casa Popolare «Pro Domo Mea.» Perché don Motta decise di intervenire nel campo edilizio ? La risposta è semplice: da buon parroco vedeva le sofferenze dei parrocchiani e non riusciva a restare insensibile ai bisogni della gente che ancora pativa duramente la miseria del dopoguerra. Grande era la fame di case: il geometra Eugenio Colnago, suo validissimo collaboratore e nipote del parroco don Enrico Colnaghi, gli suggerì di utilizzare le risorse pubbliche dei piani Tupini e Fanfani, ma, come ben si accorge subito don Giovanni, da questi interventi non ci si poteva aspettare qualche immediato aiuto alla carenza di alloggi per il paese. Ecco così che il sensibilissimo don Giovanni, si fece carico del problema, cercò aiuti, che gli furono promessi e poi negati, e pur in mezzo a difficoltà tirò dritto per la sua strada fiducioso nella Provvidenza, che anche in questa occasione non lo abbandonò. Sia pure tra molte fatiche, la Casa Pro Domo Mea fu eretta e diede alloggio a sei famiglie.

 

La Casa del Signore

La preoccupazione di assicurare un dignitoso benessere sociale ai suoi parrocchiani andava di pari passo con la necessità di garantire agli stessi spazi decorosi dove esprimere appieno la propria spiritualità e il senso di appartenenza alla Chiesa. In questa prospettiva una cura particolarissima fu riservata alla Chiesa. "La trovai bella la mia Chiesa piena di luce, invitante al canto, annota don Motta. Ma c'era un qualche cosa che - vedevo io - doveva essere messo a posto." Di fronte ai suggerimenti dei parrocchiani che proponevano di metterla in ordine, di dipingerla e di acquistare un organo, don Giovanni scrive con espressione asciutta ma chiarissima: "all'ordine pensai, sull'imbiancatura meditai, l'organo ordinai." Gli interventi che poi di fatto don Giovanni mise in pratica nell'arco di diversi anni presero avvio simbolicamente da una nuova e più funzionale collocazione del confessionale.

Racconta don Giovanni di aver provato compassione per gli uomini che volevano confessarsi alle SS. Quarantore e a Pasqua. "Vedevo questi uomini entrare dal campanile, fare uno sgorbio di genuflessione e addossarsi in sacristia: che pena ! " E poi prosegue: "Avevo ancor detto loro: non state in fondo occupate la vostra parte qui su l'altare: ma è come parlare ai ... allora mi vendicai: pensai: voi non mi ubbidite e state sempre in fondo ? ed io vi lascerò in fondo anche per le confessioni: questo fu uno dei motivi che mi suggerirono la disposizione dei confessionali nell'ultima cappella a destra; ma l'altro motivo fu, direi, più fine, più scientificamente liturgico." Memore di una disposizione similare realizzata nella chiesa di Macherio, adibì la cappella in fondo a sinistra a fonte battesimale, lasciando la piccola antistante per le funzioni di esorcismo sul battesimo, quindi le associò al confessionale volendo manifestare che nella prima si nasce alla Grazia mentre alla Fonte si rinasce. Lo stesso concetto fu ribadito affiggendo il quadro della Resurrezione di Lazzaro di contenuto genuinamente patristico, che ancora oggi si trova in loco. L'opera più complessa e più duratura di don Motta verso la sua chiesa fu la decorazione che la abbellì con un grande ciclo pittorico. Si trattò di un intervento veramente straordinario che coinvolse la chiesa per parecchi anni. Come ricorda don Motta tutto cominciò nel 1948 "la sera del lunedì della mia entrata. A festa finita mi si avvicina un giovane, si dichiara pittore ed esprime il pensiero e formula per sè l'augurio di poter dipingere la Chiesa. Di quel giovane conservo memoria ... Sento la gioia come di una Grazia, l'essermi toccata la possibilità di far dipingere una Chiesa. Che tema avrei suggerito ? In un giorno che seduto in Chiesa guardavo alla volta mi colpì questo pensiero: suggerirò il tema della devozione al Sacro Cuore di Gesù, che conduce alla vita eucaristica ed alla gioia della Santissima Trinità: ed ecco come con poche alternative si fissò definitivamente lo svolgimento figurativo del tema. Partendo dal fondo della Chiesa: le sante confidenti del Sacro Cuore, l'essenza della devozione fatta di riparazioni in memoria a Gesù nell'Orto. Il mezzo: la pratica del I venerdì del mese."

Quel giovane si chiamava Vilasco ed era di Villasanta. Lavorò a varie riprese per diversi anni al ciclo pittorico iconografico che don Giovanni gli aveva suggerito. Quando nella primavera del 1954 l'arcivescovo annunciò che avrebbe visitato la pieve di Missaglia, don Motta sollecitò il pittore a concludere i lavori, che ormai volgevano al termine nel più breve tempo possibile affinché la chiesa fosse pronta per la festa di S. Agostino. Poiché nel 1954 ricorreva il XVI centenario della sua nascita, don Motta desiderava solennizzare l'evento con la consacrazione della chiesa alla presenza del cardinale. Alla sua richiesta specifica fu risposto: Nihil obstat quominus consecretur in Visitationis Pastoralis. A maggio fu reso noto che la visita in Pieve si sarebbe svolta dal 17-30 luglio e che Cassago sarebbe stato toccato il 24 luglio. Purtroppo i lavori non potettero essere conclusi per tempo, tuttavia Schuster poté averne la quasi completa visione. L'apprezzò di sicuro se nelle note pubblicate nel giornale L'Italia dell'1.8.1954 di Cassago scrisse "Il S. Tempio va ora adornandosi di novelle pitture in grazia dello zelo del Rev. Parroco." Per forza di cose la consacrazione fu quindi rinviata ad altra data. La visita di Schuster fu di breve durata, ma intensa, di cui abbiamo un fresco resoconto lasciatoci da don Motta, dove emerge uno spaccato della società di Cassago, delle sue ansie, dei suoi desideri, delle sue speranze. Schuster arrivò con puntualità cronometrica alle 4 del pomeriggio e svolse la visita secondo il noto schema d'orario: allocuzione, benedizione pastorale, Esequie, S. Cresima e infine Celebrazione della S. Messa, dove trova occasione di rivolgere un'omelia di S. Giacomo di cui l'indomani ricorre la festa. Ed eccoci a don Giovanni e alla penna dei suoi ricordi: "Entra in casa e si svolge un breve cordiale colloquio: un mezzo bicchiere di vino porto innanzi a tutti e due ci dà motivo di brindare alla vicendevole mente e di bagnare la lingua e rendere più facile la parola, più calmo l'animo dopo il surriscaldamento del succedersi quasi vorticoso delle cerimonie in Chiesa.

"Le Associazioni ? ... " ci sono ma l'efficienza è piuttosto scaduta tra i giovani e gli uomini di A. C. ... "La Confraternita ? ... " non vivono più lo spirito di "una cooperativa ..." di cui forse non accusano più l'importanza dato il denaro che corre e che profondono nei funerali. "Cos'hai da dire ? " Che mi cruccio dei 160 iscritti al P. S. I. "Che ci vuoi fare figliolo !" "Mi hanno scritto quelli dei Campi Asciutti dicendomi che vuoi tirar via la Messa." Non è che voglia tirar via, ma come ho già spiegato a V. E. chiedevo una precisazione di orario. "Ebbene figliolo, tanto per non litigare ... " Sicché Eminenza non penserebbe di consacrare la mia Chiesa ? "Fino a dicembre sono impegnato per la Visita pastorale. Potresti rivolgerti a qualche altro vescovo: mons. Bernareggi non ce la fa più. Forse qualche vescovo missionario." Eminenza ! non amano più la parola di Dio "eh sì ! "

Entrano le Rev. Suore: sono le solite lamentele sull'incuria in cui Duca Marcello Visconti lascia loro lo stabile. Si trattiene affabilmente a parlare ed a benedire tra i miei familiari radunati qui per l'occasione. Si trattiene ancora tra i chierichetti esortando a diventare sacerdoti, poi parte.

Il maresciallo avverte. S. Eminenza si è trattenuta 1 ora e 50 minuti. Cassago è in testa per tempo di permanenza sulle altre parrocchie della Pieve finora visitate."

La festa di S. Agostino fu comunque celebrata con fede, criterio, splendore e larga partecipazione. A ricordo fu stampato un Numero Unico. Purtroppo nello stesso periodo morì il cardinale che diede a Cassago un ultimo segno della sua benevolenza con la sua firma autografa in calce al decreto della V Visita pastorale. Provvidenzialmente datato al giorno 28 agosto 1954 - scrive don Motta - Schuster inviò anche una sua fotografia con il suo pensiero augurale per la festa in onore di S. Agostino. La morte di Schuster obbligò don Giovanni a rinviare la consacrazione della chiesa. Venuto a conoscenza nel febbraio 1955 della nomina a vescovo di Milano di mons. Montini, subito prese contatti con il suo segretario Macchi, che conosceva bene perché era stato suo collega di insegnamento in seminario a S. Pietro a Seveso. Ancora una volta chiese di poter consacrare la chiesa il girono 28 agosto, ma per impegni dell'arcivescovo la data fu spostata al 2-3 settembre.

In quell'occasione il vescovo amministrò la S. Cresima a cinquanta bambini oltre finalmente a consacrare la nuova chiesa. Una folla numerosissima lo attendeva davanti alla chiesa, accolto dal parroco don Giovanni Motta, presenti anche il Prevosto di Missaglia, il Sindaco e il Duca Visconti di Modrone. Al termine della cresima, procedette alla prima parte della consacrazione della chiesa, terminata la quale benedisse la prima pietra di una cooperativa ACLI. Il 3 settembre alle 7,30 l'Arcivescovo ritornò a Cassago per concludere la funzione della consacrazione e quindi celebrò la S. Messa. Agli occhi di don Motta il vescovo Montini diventò ben presto un uomo di Dio, un uomo di grande fede e di non minor devozione, un uomo pieno di compitezza che accontentava tutti, fino le piccole vanità che in quelle occasioni si potrebbero nutrire in cuore; è un uomo che si donava, a cui non sfuggivano i desideri comunque si avesse avuto occasione di esprimerli. In sintesi era un uomo avvincente nella sua profonda umiltà. Nell'altare maggiore durante la consacrazione furono messe le reliquie dei santi Arialdo e Vittore.

 

Le SS. Missioni

Ricorda don Giovanni nel Cronicon che un giorno gli capitò di incontrare in Curia a Milano don Piero Pini, l'ultimo coadiutore che Cassago aveva avuto. Senza mezzi termini questi si rivolse a don Motta esclamando: "Ho sentito che c'è stata la S. Missione. Saranno venuti tutti come l'altra missione, solo 38 non avevano partecipato, compreso le puerpere. Frutto però zero."

Don Motta si sentì raggelare non tanto per la spigliatezza del dire quanto per la dolorosa constatazione. "Sarà così anche questa appena conclusa ? " si interroga pensoso il parroco, ma anche fiducioso. In fondo don Giovanni ha fatto di tutto per spronare la sua gente a seguire le vie dello spirito di conversione delle missioni. Dopo una sua visita nel febbraio 1953 a Rho dai Rev. Padri, nel giugno 1954 il P. Rettore del Collegio Biasca, allora in carica, aveva accettato la richiesta fissando le S. Missioni dal 1 al 16 gennaio 1955. Don Motta la preparò intensificando soprattutto la predicazione sistematica domenicale. Inoltre interessò personalmente 3 conventi di clausura a pregare, e non contento, si procurò gli indirizzi delle suore native di Cassago, una quarantina circa, scrivendo loro di interessarsi alle giornate di missione non solo con preghiere personali ma pure con quelle della loro comunità. Vennero infine i Padri. Il capo Missione era P. Longoni, che era stato suo compagno in Seminario e con lui vi erano P. Musazzi e P. Asiani, un suo ex-allievo. L'arrivo dei Padri fu tranquillo mentre scendeva a fiocchi leggera la neve. La Missione fu subito frequentata dalla popolazione: il giorno 2, dato il segno, gli uomini entravano a frotte sicché la chiesa si presentò presto piena, se non proprio stipata, tanto che P. Musazzi disse "L'è nanca bel " per esprimere la facilità del concorso dei parrocchiani.

La prima settimana fu riservata alle donne con questo ordine nella predicazione: P. Musazzi predicava la meditazione al mattino alle 5 e 30. Seguiva la S. Messa alle 6 con la predica che puntualmente finiva alle 6 e 30. Ore 7 e 45 alla sera c'era l'istruzione di P. Asiani e infine, dopo il canto delle litanie, la predica del P. Longoni. Facile e brioso P. Musazzi, legnoso e ripetitivo P. Asiani, forte, paterno, convincente P. Longoni. Gli argomenti trattati furono solo e specificamente morali, per venire incontro alla semplicità di pensiero che ancora dominava nella mente della popolazione. Ma il desiderio di una trattazione più dogmatica, era però avvertito dai Padri stessi. Don Motta sottolinea che parlarono con chiarezza, trattando con fortezza al confessionale per creare la vivacità di un maggior impegno. Era don Motta stesso a chiedere di richiamare agli impegni i suoi parrocchiani tanto da far dire ripetutamente ai Padri "questo paese, paese di fede ancora, certo aveva bisogno di una scossa." Frase lapidaria, annota don Giovanni, ma anche, e forse per questo viva, nel richiamare la sue responsabilità. Nel corso della predicazione don Motta si rende conto di quanto fosse difficile la vita del Padre di Rho, non tanto per la fatica in sè, che è quella che il fisico può dare, ma per la prudenza che richiede e il particolare spirito di fede. Sente di aver bisogno di loro, ma percepisce che loro avevano più bisogno di lui della forza di Dio. Gliela conceda Dio, scrive, lo auguro proprio di cuore. Alla parte morale i Padri fecero seguire per approfondimento gli argomenti della famiglia, con i doveri dei genitori e quelli dei figli. Le Missioni si conclusero il giorno 16. La visione della Chiesa era eccezionale, indimenticabile.

Quanti ? - si interroga don Motta - e prosegue: "i miei parrocchiani in quei giorni raggiungevano la cifra di 2754: ma in quell'occasione dovevano essere in chiesa almeno 1500 fedeli !" A questo punto don Motta può avventurarsi, memore delle parole di don Piero Pini, in un piccolo commento a voce alta: "i risultati sono certo valutabili solo dinanzi a Dio e non possiamo pretendere altrimenti perché obiettivo delle S. Missioni è di far vivere la vita cristiana." Ci sono tuttavia alcuni episodi che allargano il cuore al parroco e alimentano la sue speranze. Fa dapprima una conta dei partecipanti: "Con la settimana delle donne, le immaginette portate dai Padri per avere un controllo se ne ebbero distribuite 840, si aggiunsero poi 39 per ammalati. Si puntò così sulla partecipazione degli uomini: a S. Missioni finite le immaginette distribuite furono 1705: è supponibile che la differenza corrisponda al numero degli uomini che si sono accostati ai SS. Sacramenti." Don Giovanni però non si accontenta e vuole sapere di più, per cui fa quello che sempre faceva e cioè va a parlare alla gente per tastarne il polso e sentire i loro commenti e le loro reazioni. Con la scusa di aver bisogno di riordinare lo stato d'anime annuncia ai suoi parrocchiani che sarebbe passato per le case e così ha modo di interrogare e di conoscere ciò che si è svolto nelle singole famiglie in occasione delle S. Missioni. Questo contatto gli riserverà grandi soddisfazioni e l'occasione per modulare al meglio le sue attività di apostolato. Dopo quasi 7 anni vissuti da parroco in cui le responsabilità erano poggiate sulle sole sue spalle don Giovanni si rende conto delle sue debolezze, delle sue imperfezioni, dei motivi di stanchezza della gente. Prova soprattutto una sensibilità nuova che lo sollecita ad un interesse particolare per la gioventù, soprattutto per quella che vede dolorosamente allontanarsi per la propaganda di partiti che giudica anticristiani. Capisce che deve condividere le fatiche dei lavoratori e non deve prestare orecchie alle male lingue, a tutti quanti sfruttano le circostanze particolari e le persone per creare difficoltà e gettar ombre a piene mani su chicchessia e soprattutto sul loro sacerdote. Fra i suoi propositi prende corpo l'idea di due oratori, uno per le giovani e l'altro per i giovani. Progetta di educare gli uomini proponendo per la dottrina cristiana almeno due spiegazioni mensili e nel contempo rinnova il suo amore alla Parrocchia invocando la grazia di Dio per essere bravo e per invitare tutti ad essere bravi.

Don Motta avrà la gioia di una seconda S. Missione a distanza di 11 anni dalla prima. Anche questa che terrà dall'8 al 23 gennaio 1966 sarà fonte di copiosi frutti spirituali per il suo popolo. Scrive per l'occasione: "Ho fatto e faccio quel che posso, per avvertire, rendere attuali, preparare, aiutare i miei parrocchiani. I tempi sono nuovi anche qui. Il clima di entusiasmo non sembra che regni: speriamo che all'entusiasmo la Grazia di Dio e la nuova educazione degli spiriti, facciano succedere nel cuore dei miei parrocchiani una disposizione di più matura riflessione e più efficace frutto."

 

La casa Ducale

Quando don Motta arrivò a Cassago, trovò un paese in piena trasformazione. Stavano soprattutto cambiando i rapporti sociali all'interno della popolazione, che ormai desiderava affrancarsi dalle miserevoli servitù del passato, mal sopportando la presenza di gruppi sociali privilegiati che egemonizzavano la vita economica e lo sviluppo del paese. Con la caduta della Monarchia e la proclamazione della Repubblica anche a Cassago stavano cambiando i rapporti con la Casa Ducale ultimo baluardo in paese della nobiltà d'antico stampo che per secoli aveva fatto il bello e il brutto tempo a suo piacimento. Pur permanendo ancora una consolidata deferenza in ampi strati della popolazione, il mondo contadino e artigianale si proponeva ormai come la struttura più attiva e viva del paese, capace con il proprio lavoro di trascinare l'intera società verso forme nuove di convivenza e di benessere. Il lavoro in proprio stava diventando il perno motore della nuova società del dopoguerra, un perno così importante da essere sancito dalla stessa costituzione italiana, appena approvata, nei suoi principi ispiratori. Di questa nuova situazione che aveva mutato la psicologia della gente si erano accorti i parroci che per le loro opere non pensarono più al grande benefattore, ma preferirono organizzare una offerta metodica dai propri fedeli, in considerazione del fatto che nel dopoguerra i cittadini avevano indiscutibilmente migliorato il reddito ed il regime di vita. Don Motta osserva che questa evoluzione andava di pari passo con l'emancipazione dai gravami e dagli oneri secolari che le case nobiliari imponevano alla popolazione, forti della loro capacità di disporre a proprio piacimento delle migliori risorse mobiliari e immobiliari del paese. Per lui che veniva da Villasanta, paese di lavoro e di nessun nobile, almeno che potesse avere attinenza con la Chiesa, poiché l'unico che c'era, era di religione protestante, la situazione di Cassago appare subito problematica, perché qui un ostacolo a questa evoluzione poteva essere proprio la presenza della Casa Ducale, che fece del bene innegabile, ma che tendeva a mantenere ancora a lungo il carattere tipicamente agricolo e sottomesso della popolazione.

Don Motta ebbe rapporti sempre un po' problematici con la Casa Ducale, anzi in qualche occasione l'accusò di essere troppo lontana dai bisogni della popolazione, di eclissarsi di fronte ai problemi sociali, di declinare le proprie responsabilità e anche talvolta di ostacolare apertamente le sue iniziative o quelle del paese. I suoi contatti con la Casa Ducale furono difficili già dai giorni della sua entrata in paese come parroco nel giugno 1948. Don Piero Pini, il vicario che stava preparando la festa per la sua entrata, aveva interpellato il Duca perché facesse da padrino al parroco: questa richiesta era però un impiccio per don Motta più che un onore, perché si era già scelto due amici di vita oratoriana a Villasanta. Il Duca tuttavia rispose declinando l'invito. Con una lettera e per telefono don Motta si era messo personalmente in contatto con il Duca, che, noblesse oblige, a settembre in occasione del saggio dei bambini dell'Asilo gli porse le sue congratulazioni: «Usi del mio giardino come fosse il suo, e la inviterò nella villa di Macherio, dove può vedere la Villa, l'allevamento.» A commento don Motta sottolinea che il suo contegno seguì sempre questa linea e cioè dire e non eseguire. Una volta don Motta si recò a Macherio per incontrare il Duca. Ebbe con lui un colloquio franco e leale che affrontò le difficoltà dei tempi, il carattere della gente, le sue necessità. In quella occasione il Duca gli dice di avere offerto terreni per la costruzione di case a Macherio e fa intravedere la stessa possibilità per Cassago. Però quando il suo ing. Ravina entra nello specifico per indicare le terre da vendere a taluni che vogliono comprare, don Motta scopre con sorpresa che i prezzi di vendita sono i più salati che il mercato chiede. Quel giorno il Duca l'invitò ad andare a celebrare al S. Salvatore ma nessuno gli accennò mai un emolumento comunque, nemmeno nella misura della tassa prevista. Quando nel corso della Visita Pastorale del 1949, incidentalmente ne accenna al card. Schuster, il commento è: «Poverini si sa e poi lui è duca.»

Quando si avvicina il fatidico 2 novembre don Motta decide di non andare a celebrare a S. Salvatore. Il Duca s'interessa presso un altro sacerdote che al momento opportuno però non viene. La beffa fu aspra perché in quell'occasione si era riunito tutto il parentado di Torino e di Firenze oltre quello di Milano. Il Duca non gliela perdonò più.

Nell'ottobre 1950 don Motta ritornò ancora a Macherio. Nel colloquio si accenna al 2 novembre dell'anno prima, ma in modo apparentemente conciliante, cercando una reciproca comprensione. La visita di don Motta però aveva come scopo quello di sollecitare il Duca ad intervenire per soddisfare le richieste delle Rev. Suore, che volevano portare qualche miglioria all'asilo. Inoltre coglie l'occasione per parlargli dell'organo che voleva mettere in chiesa. Il Duca non si sbilancia e non va oltre un laconico e diplomatico: «Bene, bene, vedremo, organizzeremo un piano di ammortamento.» Fra Natale ed Epifania ci fu uno scambio di lettere, ma senza frutto tanto che don Motta ne scrisse una un po' dura, che andò a finire direttamente all'Arcivescovo. I non felici rapporti con la Casa Ducale si deteriorano del tutto in seguito alla querelle che interessò l'asilo a partire dal 1951. Il 6 aprile di quell'anno morì la Rev. Suor Ernesta, superiora dell'Asilo fin dalla sua fondazione nel 1903 e don Motta torna alla carica chiedendo in un colloquio con la sig. Duchessa che lo aiuti a sistemare le strutture fatiscenti dell'asilo. Non ne cava nulla, tanto che a gennaio del 1953 la Rev. Superiora Provinciale informa il parroco di aver ammonito la Casa Ducale ad apportare le migliorie richieste, pena il ritiro delle suore. Il 24 gennaio don Motta ottiene udienza dal Duca che gli promette di parlarne con la Signora Duchessa. Ma l'8 febbraio l'ing. Ravina amministratore della Casa Ducale dà una risposta sconcertante: dopo aver convocato il consiglio comunale e il parroco, dice che la Duchessa ha deciso che: «il locale rimanga abitazione delle Rev. Suore e oratorii femminili con laboratorii; il Comune pensi a costruirsi l'asilo.» La proposta scatena un putiferio e tutto quello che si riesce a concludere è concordare un nuovo incontro con la Duchessa, che però per un complesso di circostanze non avverrà mai.

Don Motta il 4 maggio sollecita l'Arcivescovo a intervenire presso il Duca. Il che avviene, ma produce poco perché il 13 maggio il sig. Verga, nuovo amministratore della Casa Ducale, comunica al Sindaco che il Comune ha il permesso di lavorare a migliorie. Il parroco viene informato il giorno dopo. D'accordo con il Sindaco il 24 maggio don Motta esprime alla popolazione l'idea di un prestito per ristrutturare l'asilo, perchè continui nella sua duplice e comoda funzione di Asilo e di Oratorio femminile. Repentinamente la situazione sfugge però di mano a don Giovanni, perché Comune e Casa Ducale trovano un accordo, tanto che il Sindaco gli comunica che «dopo aver parlato con il Consiglio Comunale ed il rappresentante della Casa Ducale le debbo dire che l'affare dell'Asilo deve essere risolto dal Comune.» Questa mossa toglieva di mezzo la parrocchia e gli apriva il problema di dove alloggiare l'oratorio femminile. Don Motta era convinto che fu proprio la Casa Ducale ad escluderlo deliberatamente dalle trattative. Perché ? Oltre ai precedenti, don Motta ricorda che si stavano avvicinando le elezioni politiche del 7 giugno, dove il Duca si era presentato nella lista del Partito Monarchico, una scelta questa che lui aveva apertamente criticato rispondendo seccamente a un biglietto del Duca. Il peggio però doveva ancora venire e l'inevitabile accadde quando i lavori furono terminati nel 1956. Verso la fine di quell'anno, l'8 novembre, proprio il giorno in cui don Motta fu costretto a ricoverarsi in ospedale per un intervento chirurgico, venne a Cassago la Duchessa a vedere i lavori di adattamento dell'Asilo che si erano eseguiti. L'esito finale di questa visita fu sconsolante per il parroco: la duchessa apprezzando il buon ordine dei locali decide che d'ora in poi non ci dovranno più entrare le figliole dell'Oratorio, perché sporcano, rovinano, rompono ...

La notizia data in via confidenziale alle Rev. Suore trapelò fino alle orecchie del parroco che si allarmò subito. Quel che temeva, presto accadde. L'11 gennaio del 1957 venne invitato in Comune, dove gli viene consegnata dalla Duchessa una lettera dove sostanzialmente ordina che le figliole non entrino più in Asilo dal primo marzo. Don Motta reagì vivacemente e cercò di ritardare il più possibile lo sfratto, ma inutilmente: la sera del 31 agosto in Chiesa, dove aveva appena finito di confessare, la portinaia del Palazzo Ducale gli consegna una lettera, con avviso ducale, dove perentoriamente si comunica che dal giorno dopo le figliole verranno definitivamente escluse dai locali dell'Asilo. Per tutta risposta don Motta il 1 settembre, giorno festivo in cui si celebrava la festa votiva di S. Agostino, alla prima S. Messa lesse pubblicamente l'avviso ducale aggiungendo che quello stesso giorno sarebbe passato per le case a chiedere una offerta per l'Oratorio femminile.

Venute a conoscenza dei fatti, quella medesima mattina, Galli Maria Adele e Rigamonti Rosetta, presidente della Gioventù Femminile, dopo essersi consultate, comunicano al parroco che la signora Rosa Carera vedova Galli, madre di Maria Adele, ha deciso di mettere a disposizione il suo cortile attiguo all'Oratorio Maschile ed una sala temporaneamente libera con lo scopo di permettere alle ragazze di radunarsi la domenica pomeriggio e nelle adunanze infrasettimanali.

Come sua abitudine, subito il giorno dopo il parroco contatta il geometra Eugenio Colnago e gli chiede di predisporre un progetto, pregandolo allo stesso tempo di mettersi in contatto con il capomastro Pozzi. Nonostante che la Parrocchia avesse con lui molti debiti, Pozzi accetta di eseguire il lavoro, tralasciando offerte di un altro lavoro. Per don Motta ciò rappresenta il segno tangibile della Provvidenza, il segno che le preghiere sono state ben accette al Signore. "Il giorno 15 settembre, così alla rustica - ricorda don Motta - incolonnate le Oratoriane, ci rechiamo sul posto dell'erigendo locale e posiamo la prima pietra: era la festa della Madonna Addolorata nella capsula della prima pietra, allegata ad un tentativo di pergamena v'è una medaglietta d'oro con l'effigie dell'Addolorata." L'ultima domenica di gennaio le ragazze entrano nel nuovo salone, che non è ancora pavimentato. Verrà completato gradualmente e solo dal 1 giugno 1958, a locale terminato, potranno entrare tutte le Oratoriane a nove mesi esatti dalla loro espulsione dall'asilo. " Bene ! Bravo Parroco ! " scriverà a commento nel Chronicon don Rinaldo Beretta il 17 luglio 1958. L'Oratorio sarà inaugurato da mons. Pignedoli e qualche anno dopo si arricchirà di una Grotta di Lourdes.

I sacerdoti della sua parrocchia

Cosa pensava don Motta dei sacerdoti che lo avevano preceduto a Cassago ? Le sue idee in proposito riflettono in gran parte il pensiero dei suoi parrocchiani. Di don Enrico Colnaghi ha certamente una immagine molto positiva, che gli viene confermata dalla fraterna frequentazione del nipote, il geometra Eugenio Colnago. Ricorda don Motta nei suoi scritti che la figura del parroco Colnaghi fu certamente nobile, aperta all'evolversi dei tempi anche se difficoltà possono aver messo ostacolo all'attuarsi dei suoi progetti. Quando i suoi parrocchiani gliele ne parlavano amavano ritrarlo soprattutto nella vita dei suoi ultimi anni. Don Motta ammira l'ampliamento della Chiesa che stava a testimoniare non solo la sua fede, ma anche la grandezza del suo carattere tutt'altro che megalomane e facilone, ma piuttosto paziente e incline al sacrificio. Il Prevosto don Rinaldo Beretta quando gliele ne parlò lodò la paziente raccolta di stracci che promosse, che certo fu laboriosa, ma molto proficua.

Don Giovanni ne ammira lo spirito alacre, il senso di autorità non disgiunto da paternità, il senso di responsabilità e quello spirito grande di fede che lo sostenne soprattutto negli ultimi anni. Don Motta giudica positivamente anche l'attività dei sacerdoti coadiutori che aiutarono il vecchio parroco nell'ultimo ventennio della sua vita a partire da don Marco Frigerio e don Luigi Cazzaniga, che gli successe nel 1932 a sua volta apertissimo per indole alla gioventù e per senso di responsabilità al parroco. Don Motta ha parole di gratitudine verso entrambi per il loro desiderio di formare l'Oratorio maschile: mentre il parroco si interessa per un terreno retrostante l'Asilo, don Luigi cerca di acquistare un locale, un tempo adibito a filanda. L'acquisto va a buon fine e il parroco a sua volta amplierà provvidenzialmente il cortile comperando due appezzamenti di coltivo rendendoli adatti alle esigenza dello sport moderno preferito, il pallone. Don Motta ammira con insistenza la figura del suo predecessore don Enrico Colnaghi soprattutto per l'esemplare comportamento cristiano mantenuto in tante disavventure, soprattutto fisiche, che gli capitarono. Nel 1936 entrò in parrocchia come coadiutore don Piero Pini e il suo arrivo coincise con il manifestarsi della cecità totale del parroco che fu costretto ad abbandonare gradualmente l'amministrazione dei S. Sacramenti eccetto le S. Confessioni, a cui era puntuale e perseverante. Nel 1946 dovette abbandonare anche l'amministrazione della parrocchia che passò a don Piero Pini, nominato Vicario spirituale. Soffrì, pianse ? si chiede don Motta. Con grande sensibilità ammira la grande dignità dell'anziano parroco che a poco a poco cede lentamente ma inesorabilmente ai suoi malanni. I postumi di una operazione di appendicite lo stroncano, ma ha la fortuna di ritornare a casa e di morire in mezzo alla sua gente.

Don Motta elogia il suo lavoro spirituale e quello in ambito sociale. E' con lui che la parrocchia assume un nuovo aspetto organizzativo e oltre agli Oratori vengono poste le basi per la nascita e lo sviluppo dei movimenti cattolici quali la Gioventù Femminile, la GIAC, l'Unione Cattolici Italiani, le A.C.L.I. e nell'ambito cristiano politico-sociale la sezione D. C. Anche in campo sindacale dopo che la C.I.S.L. matura la sua separazione dalla C.G.I.L. nascerà una sua sezione in parrocchia.

Quando nel 1948 don Motta arrivò a Cassago trovò dunque una parrocchia già ben strutturata nelle sue attività. Aveva inoltre uno spirito d'iniziativa piuttosto forte tanto da ritenere che poteva gestire la parrocchia da solo, senza l'aiuto di un coadiutore. Nel 1948 pensava che non sarebbe stato opportuno che due sacerdoti pressoché della stessa età vivessero insieme in un paese che toccava sì e no i 2000 abitanti. Così don Piero Pini se ne andò, trasferendosi a Sesto S. Giovanni nella parrocchia di S. Giuseppe sempre come coadiutore. Da allora Cassago non ebbe più coadiutori per trent'anni. Don Motta vi supplì grazie all'aiuto e alla presenza efficace dei Padri Guanelliani. Con il passare degli anni don Motta sentì il bisogno di un aiuto. Così nel 1963 presenta per la prima volta la richiesta di un sacerdote coadiutore. La richiesta sarà rinnovata anche negli anni successivi senza esito fino al 1968 quando sarà nominato don Lorenzo Fumagalli, un coadiutore la cui figura è ancora nel cuore dei cassaghesi. Nell'intervallo procede alla sistemazione della casa per il sacerdote. L'opera riesce decorosa nella prospettiva e funzionale nella struttura. Don Motta si augura che "sia usata per il suo scopo con santa efficacia della vita parrocchiale e giovanile in particolare."

 

Don Motta e i cassaghesi

Ma qual era l'opinione, l'idea che don Motta si era fatto dei suoi parrocchiani ? Scrive don Motta, fotografando la situazione del 1948, che a Cassago la congiuntura economica era favorevole, sostenuta da un complesso di stabilimenti in fase di sviluppo. Alla crisi tessile che in due anni aveva fatto chiudere due stabilimenti di circa 50 operai ciascuno e ridotto l'attività di altri, faceva da contrappeso un'azienda in espansione, l'azienda Fornelli elettrici ed a gas che aveva visto negli ultimi cinque anni il raddoppio di capienza e di maestranza. Sorgono i Grandi Magazzini Emma proprio davanti all'Oratorio, mentre nasce e si sviluppa la Cooperativa di Consumo in un edificio parrocchiale. Fra la popolazione sono occupati in lavori agricoli soprattutto gli anziani mentre nelle fabbriche si trovano uomini e donne giovani. Don Motta nota che non ci sono malattie professionali, mentre la costituzione fisica in genere risente delle irrequiete abitudini moderne dove si è affermata la necessità del tutto nuova di trascorrere le vacanze ai monti e di portare i bambini alla cura del mare. Per don Motta i suoi parrocchiani hanno un carattere fondamentalmente responsabile e familiare. L'uomo ha amore e attaccamento alla famiglia e dimostra premura per il suo buon andamento anche se ciò è spesso motivato dalla volontà di far bella figura in mezzo agli altri. Don Motta osserva che le Osterie, pur ancora numerose, stanno declinando a favore del caffè-bar che attira irresistibilmente la gioventù. Per fortuna la frequenza di questi bar si limita (in quegli anni) solo al sabato sera e alla domenica. La gioventù maschile ama divertirsi anche con il cinema, la bicicletta (per i ragazzi dai 14 ai 18 anni) e con le moto. Don Motta constata che si tratta di gente laboriosa.

Per quanto riguarda la vita cristiana don Motta non può esimersi da qualche lamentela. Ammette che indubbiamente esiste il senso religioso di adorare Dio e ciò lo constata dalla frequenza alla S. Messa, che è praticamente totale, fatta eccezione forse per una diecina di uomini. Però non c'è lo sforzo di interiorizzare l'essenza della spiegazione della Dottrina Cristiana. "Perciò si capisce - conclude don Motta - il poco sforzo contro le passioni e la refrattarietà ad ogni tentativo, esortazione, insistenza, organizzazione che lì possa portare con maggior frequenza e coscienza ai SS. Sacramenti." Per scuotere questa indifferenza don Motta propone momenti speciali agli aderenti dell'Azione Cattolica, chiede di valorizzare la devozione del primo venerdì del mese, ai confratelli del SS. Sacramento suggerisce di partecipare alla Vita eucaristica. Queste proposte hanno dato poco frutto tuttavia don Motta non dispera nè gli manca l'energia della perseveranza perché sa che l'apostolato sta soprattutto nel seminare. Nel suo animo don Giovanni è animato da una grande fiducia e non si nasconde vere e proprie consolazioni come quando annota che resta ogni volta impressionato dall'azione della fede che è viva ed operante sempre e ne ha prova nell'assistere in morte uomini, che si sarebbero creduti contrari a Dio tanto era la rozzezza della loro vita e chiudere invece la loro vita tra i segni di più grande fede, di grande coscienza morale e di delicatezza commista di pietà. "Questo è il frutto del passato - si interroga - come sarà l'avvenire che io son chiamato a preparare ? Non vorrei che i miei successori fossero privi anche di questi ultimi doni di consolazione."

Un'altra forte preoccupazione che tormentava il suo animo è il carattere dei suoi parrocchiani. Egli vi scopre una tendenza egoistica che ostacola le buone iniziative. Anche nelle associazioni nota una scarsa vitalità dei soci che cadono nella più banale acquiescenza lasciando a chi ne ha assunto le cariche tutto il peso della responsabilità. L'interesse per il prossimo sembra invece orientarsi verso un intenso pettegolezzo, tanto che diventa difficile in questo clima proporre e far vivere un ideale. Quel che è difficile per i grandi, è difficile anche per i piccoli ed è raro trovare delle persone che coscientemente perseverino con serietà nei propri doveri. Lagnandosi apertamente di questa situazione, ne riconosce un sintomo o una conseguenza nell'assenza di vocazioni religiose maschili nonostante le sue continue esortazioni. Se per i maschi non ha avuto ancora la soddisfazione di mandare in chierico in Seminario, con le figliole è più contento, perché ogni anno ha avuto la gioia di vedere più vocazioni..

Questi parrocchiani però si ricordano del loro parroco e nel 1960 gli tributano una gran festa per i suoi venticinque anni di sacerdozio. Padrini saranno i signori Corti Ilario e Luigi Milani. Su quanto i parrocchiani dicono di lui, don Motta è ben informato e scrive che taluni dicono è un semplicista, tali altri un intrigante, ed ancora altri un piccolo duce, ma la gente più sapiente e meno saputa vivrebbe cent'anni con il suo Curato. Invece, da tempo sofferente per diversi disturbi e spiritualmente scosso dalla morte della sorella che conviveva con lui, purtroppo don Motta morì ancor giovane il 19 maggio 1973 alla vigilia dei festeggiamenti che i cassaghesi si accingevano a fare per onorare i suoi 25 anni vissuti come parroco a Cassago. Al suo fun erale vi fu grande concorso di popolo e partecipò anche una delegazione del Seminario Arcivescovile di S. Pietro Martire dove aveva insegnato. Numerosi erano i suoi vecchi allievi ormai diventati sacerdoti. Anche da Monza giunse qualche sacerdote poichè don Motta, già parroco a Cassago, aveva avuto l'opportunità di insegnarvi presso il Collegio dei Dehoniani. La sua morte non ha spento il ricordo della sua profonda spiritualità, del suo coraggio nel servire la fede in Dio e la speranza nella Provvidenza. Ancora oggi la gente di Cassago ammira le sue opere e le sue virtù, soprattutto spirituali, lo venera quasi come un santo e sulla sua tomba non mancano mai fiori e lumini, segni reali della riconoscenza del bene da lui fatto.