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LA CITTA' DI DIO NEL QUADRO STORICO DEL TARDO IMPERO ROMANO

Immagine di sant'Agostino cardioforo

Immagine di sant'Agostino cardioforo

 

 

 

LA CITTA' DI DIO NEL QUADRO STORICO E NELLA RIFLESSIONE STORICA DEL TARDO IMPERO ROMANO [1]

di Giuseppe Corti

 

 

 

Tra il 24 ed il 26 agosto del 410 d.C. i Goti, guidati da Alarico, misero a ferro e fuoco Roma. Non era la prima volta che questo comandante e le sue truppe si scontravano contro le forze romane: otto anni prima, a Pollenzo, nel nord Italia, le sue schiere erano state sconfitte dall'esercito romano guidato da Stilicone, anche lui di origine barbara ed a capo di un esercito in cui la presenza barbara era preponderante. Nel 408 Alarico aveva guidato una nuova invasione in Italia: stavolta non c'era più Stilicone a contrastarlo: era caduto - oltre al fatto che la gratitudine è sempre merce molto rara - vittima di una congiura di palazzo, in cui s'era mischiata l'avversione per la sua persona e la violenta controversia che attraversava la corte e la stessa società romana sul comportamento da assumere nei riguardi delle popolazioni barbare: accoglierle nell'impero e procedere ad un processo di romanizzazione, come era una consuetudine dell'impero romano, oppure espellerle come totalmente estranee e non assorbibili nella cultura romana.

Era prevalsa questa seconda linea e Stilicone aveva pagato il prezzo anche di questo. Nel 408 si raggiunse con la corruzione quello che non si era ottenuto con la forza: Alarico fu convinto ad abbandonare l'assedio di Roma con la consegna di un grande quantitativo di oro, argento e preziosi; il sovrano goto rifiutò il denaro: sapeva che esso si svaluta, e quelli erano anni di inflazione feroce. Gli gnomi di Wall Street, che hanno ingannato un mondo che sapeva, o presumeva di sapere, di economia non l'avrebbero spuntata contro questo barbaro molto probabilmente analfabeta, ma tutt'altro che sprovveduto. Nel 410 la debolezza dell'impero era ancora più evidente, e le pretese di Alarico, di conseguenza, maggiori. Stanco di una trattativa inconcludente Alarico venne a prendersi con la forza quel che gli era stato negato con un accordo. Così Roma subiva il primo saccheggio interno dopo secoli: l'antecedente risaliva addirittura ai primordi dello stato romano, ai tempi quasi mitici di Brenno e dei suoi Galli; neppure Annibale, il simbolo del pericolo più grande che la città aveva corso, aveva osato assediarla.

L'eco e l'impressione nel mondo fu enorme: Roma da più di un secolo non era più la capitale dell'impero; con Diocleziano, sovrano dal 284 al 305, le corti e le capitali si erano moltiplicate e spostate più vicine ai campi delle operazioni militari; nel 410 la corte risiedeva a Ravenna, e per ragioni non propriamente nobili: era più facile la fuga verso Oriente in caso di un attacco barbaro alla città. Ma Roma restava il simbolo dell'impero romano: da essa era partita la conquista di questo Stato, romano era l'impero, l'esercito, la legislazione e l'amministrazione: la città era carica di un valore storico e simbolico, che nessun'altra città, anche di più antica fondazione, poteva vantare. Ma soprattutto nel 410 la cultura pagana poteva rivolgere contro i cristiani l'accusa che gli stessi cristiani avevano rivolto ai loro dei in tutto il secolo precedente: dov'era la forza di questo nuovo Dio che non aveva saputo impedire il saccheggio della città, e non era forse l'abbandono dei culti aviti che ne aveva determinato la rovina? Il De civitate Dei [2], un'opera che tenne impegnato Agostino dal 413 al 427, ripetutamente abbandonata per le sue esigenze pastorali, ma sempre ripresa, è la risposta scrupolosa, consapevole, spesso impervia, a queste accuse pagane; si tenga presente che si tratta dell'opera più ampia di Agostino, redatta in ben 22 libri; per ampiezza è seconda solo alla sua replica al manicheo Fausto; neppure il De Trinitate, scritta su un argomento complesso e che gli stava particolarmente a cuore, è di tali proporzioni [3].

Non c'è solo questo elemento da considerare: Agostino diffuse parti dell'opera, per saggiarne le reazioni, prima del suo completamento; ricorse a collaboratori per parte del suo progetto, che fossero sostegno ed ampliamento delle sue tesi: le Historiae adversos paganos dello spagnolo Orosio [4], per quanto un parto che lo stesso Agostino reputò mal riuscito, nascono in questo clima e per questa esigenza. Nell'incontro di stasera non parlerò comunque della Città di Dio: cercherò di presentare un quadro di come l'impero romano si concepiva e si presentava e come veniva visto dalle popolazioni sottoposte; parlerò anche del modo diverso e mutevole con cui i cristiani si posero politicamente, non teologicamente, di fronte all'impero, e concluderò con una rapida scorsa sulla c.d. teologia della vittoria che percorre la riflessione storica cristiana per tutto il IV secolo. Nel farlo ricorrerò anche a citazioni da testi dell'epoca. Per l'ampiezza dell'assunto, ed i limiti di tempo, dovrò essere sintetico: mi sforzerò di evitare di essere anche semplificatore.

 

 

L'impero romano: alcuni caratteri ed il rapporto con le popolazioni assoggettate

 

Una tradizione fortemente consolidata tende a rappresentare l'impero romano come uno Stato imperialista, militarizzato, con un saldo potere centrale, una politica di repressione delle popolazioni soggette, talora fino all'annientamento delle stesse ed alla distruzione dei loro centri simbolici. Si tratta di un'immagine non del tutto falsa, che però cozza contro altri dati altrettanto certi: l'impero romano, nella sua forma definita con le conquiste di Cesare e di Augusto, è durato oltre quattro secoli, conglobando popolazioni molto eterogenee, dagli africani ai teutonici, dagli asiatici agli ispanici, e con un grado di sviluppo della civiltà assai diverso tra i vari popoli. E' evidente che non sarebbe durato così a lungo con una politica di sola repressione. Ma c'è un altro dato altrettanto interessante: la scarsità delle rivolte delle popolazioni che abitavano l'impero contro il potere romano: il pensiero corre subito alle rivolte giudaiche, al movimento dei Bagaudi, diffuso soprattutto in Gallia. In verità rivolte contadine e cittadine, soprattutto contro un fisco in effetti sovente rapace, sono più numerose, ma comunque non c'è rapporto con quelle che hanno percorso il Medioevo e l'Età moderna: se provate a fare un confronto tra le guerre intestine che ha conosciuto l'Europa tra il 1000 ed il 1500 o tra il 1500 ed il secolo scorso avete l'idea che la pax vantata dai Romani non era un'espressione retorica.

Lo stesso cristianesimo interpreterà questa pace, che ha molto facilitato la diffusione di questa dottrina, come un segno dell'azione di Dio nella storia. E se il mito dell'impero romano, come simbolo di una stagione di concordia e di ordine, ha attraversato i secoli ed è incessantemente penetrato nelle coscienze ciò non è soltanto per la consuetudine di rimpiangere il passato, ma perché una memoria tenace ne ha trasmesso i valori ed il rimpianto in epoche che si presentavano totalmente differenti. Non è un caso che si rinnova il mito dell'impero in periodi di pacificazione: è il caso del Sacro romano impero di Carlo Magno, che inserisce il carattere religioso ma non dimentica l'antica entità civile, o dello stesso Sacro romano impero germanico degli Ottoni, che invece sottolinea maggiormente la componente etnica, tuttavia sempre accanto al significato politico. Ancora in epoca illuministica, ed in un territorio, l'Inghilterra, che dell'impero ha poco conosciuto i benefici diretti, un grande storico, Gibbon [5], descrive la miglior stagione dell'impero romano con accenti di accorato rimpianto come una delle più grandi epoche della storia. Questo concetto di pax mi consente di riallacciarmi alla militarizzazione dello Stato romano per considerarne l'aspetto positivo.

E' indubbio che nel mondo antico questo livello di militarizzazione costituisca un esempio unico: in genere gli stati si limitavano ad un piccolo esercito che serviva soprattutto a proteggere la corona ed a garantire l'ordine interno; in caso di conflitto si provvedeva alle leve, ovvero ad arruolamenti temporanei; finita la guerra ciascuno tornava alle sue attività. Nel caso dell'impero romano si creò invece un vero e proprio corpo militare permanente, dislocato soprattutto sui territori di confine, con una complessa organizzazione per assicurare il vettovagliamento ed il pagamento dei militari e per garantire ai pochi che sopravvivevano alle fatiche della guerra ed alle malattie una specie di pensione o una piccola proprietà, in genere terriera. Ma questo esercito, pur con crescente fatica, riuscì a garantire al nocciolo duro dell'impero la protezione contro le invasioni di popolazioni straniere; per i contadini, che costituivano di gran lunga la componente maggiore della popolazione, questo era un grande beneficio: i loro raccolti erano minacciati soltanto dal maltempo.

Una condizione invidiabile: nel Medioevo ed anche nell'Età moderna saranno costretti a fare continuamente i conti con guerre e guerriciole endemiche tra vassalli e stati e statarelli in lotta tra loro; per avere un'idea di quella che era la condizione normale del contadino si può prendere come riferimento il Libano di oggi: era decisamente meglio essere sudditi di Roma. Ma i contadini non erano i soli a beneficiare della pace: erano favoriti anche i commerci, gli scambi e tutte le attività produttive.

Ma ci sono altri due elementi che mi preme sottolineare: il concetto di civiltà, cui legherò quello di appartenenza, ed il significato dell'urbanizzazione nell'impero romano. Se potessimo guardare una cartina dell'impero allargata ai paesi confinanti avremmo netta l'impressione di una enclave civilizzata in un mondo esterno ostile e barbaro: al sud i confini erano delimitati dal deserto del Sahara, e nelle cartine geografiche, anche secoli dopo la caduta dell'impero, la zona era definita con la scritta "hic sunt leones", volendo indicare che in quei territori era possibile solo una forma di vita animale selvaggia; l'ampia fascia di nord-ovest, delimitata sostanzialmente dai fiumi Reno e Danubio, non si presentava meno ostile ed impenetrabile: al di là dei territori romani si stendevano lande per lo più incolte, con grandi foreste ed estese paludi, abitate da popolazioni per lo più nomadi, ignare della scrittura, dalle forme di vita e di organizzazione sociale primitive; non v'erano strade - le mitiche strade romane, sulle cui vie correvano gli eserciti, ma anche la civiltà e lo stesso cristianesimo -, canali, acquedotti per lo sfruttamento delle acque, anche il clima, con lunghi gelidi inverni ed altrettanto lunghe stagioni nebbiose contrastava con i climi miti e caldi del Mediterraneo; l'agricoltura era quasi ignorata, così come la vita stanziale; non v'erano città al di là di piccoli borghi rurali; si viveva prevalentemente tra attendamenti e sequele di carri sempre in movimento; l'unico confine che presentava caratteristiche assimilabili a quelle dello stato romano era l'impero persiano ad est, corrispondente grosso modo agli attuali Iran ed Iraq, regno con cui i romani furono impegnati in secolari scontri militari, senza che nessuna delle due parti riuscisse a prevalere sull'altra: uno stato che si presentava certamente urbanizzato e civile, ma ben lontano dall'organizzazione propria dell'impero romano.

La sensazione diffusa che si trasmetteva alle popolazioni che vivevano all'interno dell'impero era dunque quella di costituire pressoché tutta la civiltà del mondo conosciuto, in quanto il lontano Oriente era ignoto e l'unica realtà comparabile era quella dell'impero persiano. Ma non era solo una questione geografica, era anche un fatto culturale: se ci facciamo caso ci rendiamo conto che, dopo l'annessione dell'Egitto da parte di Augusto, l'impero aveva raccolto quasi tutte le grandi civiltà del mondo antico: l'Egitto, sempre visto come il luogo d'origine della civiltà; la Grecia, che della civiltà occidentale ne era ed è tuttora considerata il simbolo stesso; l'Asia Minore, la Siria, la stessa Palestina, che vantava una cultura ed una disciplina giuridica anteriori a quella del mondo greco; ancora una volta solo l'antica Mesopotamia restava al di fuori del raggio di influenza romano.

Questi due dati geografico-culturali, cementati dal tempo, dalla pace, dall'organizzazione statale costituivano una specie di liquido ammiotico, entro cui il mondo romano viveva consapevolmente; diventava arduo per un figlio di questo impero pensare che esso potesse finire, perché ciò poteva significare soltanto il cadere nel caos che circondava questo stato. Noi, al contrario di loro, siamo consapevoli che i grandi imperi declinano e vengono sostituiti da altri stati: le generazioni che ci hanno preceduto e quelle con cui viviamo hanno visto il declino della Francia, dell'Inghilterra, dell'Unione Sovietica, forse i nostri figli vedranno quello degli Stati Uniti ed il primato della Cina e dell'India senza contraccolpi; gli stati dominanti mutano in un processo continuo ed inarrestabile senza che ci venga trasmesso il senso di un salto nel vuoto. Per l'impero romano, e credo per l'unica volta nella storia, non era così: esso veniva concepito come eterno, al di là del quale e senza il quale il mondo non era più concepibile.

Questo valeva anche per i cristiani: certamente se ad un Paolo, ad un Ambrogio si fosse detto che la parusia, il secondo ritorno in terra del Cristo giudice, non sarebbe avvenuta nell'impero romano non ci avrebbero creduto. E questo è anche il dramma di Agostino, che non rinnega la sua romanità, che sente anche lui come valore, ma che circa di fissarsi ad una storia della salvezza in cui c'è già l'azione di Dio, mentre l'impero non c'è; se lui abbia concepito questo impero come transeunte o se abbia ritenuto che esso avrebbe superato anche la crisi che viveva ai suoi tempi, come aveva superato altre crisi, non ci è dato sapere; e naturalmente è una elusività consapevole. Ma c'è anche un altro elemento che riscatta questo impero nella nostra memoria: ed è il senso di appartenenza; esso aveva creato una realtà che presentava aspetti abbastanza uniformi in popolazioni originariamente molto diverse: Roma, a differenza di quanto comunemente si crede, non ambiva ad imporre i propri costumi; rispettava quelli delle popolazioni e cercava di utilizzarli a proprio vantaggio, così come, in ambito politico, cercava l'alleanza, non il conflitto, con i ceti dominanti; ma pur nel rispetto di molteplici usi e costumi c'era stata una indubbia unificazione linguistica ed anche giuridica ed amministrativa: il latino, e per altri versi ancor più il greco, erano diventati nel mondo mediterraneo l'equivalente dell'inglese di oggi, forse in modo ancor più avanzato; il diritto romano era esteso in tutto l'impero, e lo stesso valeva per la moneta, pur nel rispetto di consuetudini locali particolarmente sentite; l'ordinamento militare, civile ed amministrativo dell'impero valeva in Inghilterra come in Egitto, anticipando per alcuni verso l'unione europea, in un modo ancor più sviluppato, perché lo stato era uno solo.

Ma c'era un ulteriore elemento che definiva questo senso di appartenenza: se teniamo presente l'elenco degli imperatori romani ci accorgiamo che questo impero fu retto da romani - quelli che diremmo popolarmente "romani de Roma" - per un lasso di tempo molto breve: soltanto il primo secolo. Dopo la dinastia dei Flavi, che erano di origine italica, con Traiano cominciano gli imperatori stranieri: Traiano è spagnolo, come Adriano; Antonino Pio, che fu il suo successore, veniva dalla Gallia; i Severi, che presero il potere alla fine del II sec. d.C., erano di origine africana, con forti legami con membri di una dinastia siriana. Lo stesso Costantino, che tanto ha inciso nella storia dell'occidente e fino ai nostri giorni, era di origine illirica; potrebbe essere, se guardiamo la distribuzione odierna degli stati, di origine albanese; forse è una forzatura, ma non possiamo escluderla del tutto. Se così fosse non sarebbe che uno dei tanti paradossi, o delle beffe, con cui la storia si diverte contro la nostra presunzione.

Quello che mi preme sottolineare è che questi imperatori non si sentivano innanzitutto figli del paese d'origine, ma romani: il valore per loro era lo stato che essi si trovavano a gestire; questo non ha certo impedito che tutti abbiano avuto un occhio di riguardo per la loro città d'origine, facilitandone l'ampliamento, la costruzione di edifici monumentali e celebrativi, talora anche le esenzioni fiscali, che sono sempre gradite, ma comunque essi erano prima di tutto imperatori dello stato romano, e non avrebbero mai pensato di posporlo per interessi personali o localistici. Questa forte coesione è uno degli elementi che aiutano anch'essi a spiegare la lunga durata dell'impero. E questo non era un elemento che riguardava solo i vertici dello Stato, si estendeva a tutti: la stessa vicenda personale di Agostino è significativa al riguardo: il fatto di essere africano, dunque di provenire da una delle periferie dell'impero, e da una famiglia che definiremmo di ceto medio-basso, non gli è stato d'ostacolo nella sua carriera di retore; l'ha abbandonata volontariamente, come Ambrogio aveva fatto per la carriera civile alcuni decenni prima, ma non c'era nessuna preclusione verso di lui, che pure non poteva vantare i nobili natali di Ambrogio.

Con questo voglio dire che in tutte le attività, maggiormente nel lavoro autonomo ed anche per la carriera militare, non contava la provenienza, ad esclusione degli schiavi, praticamente privi di diritti: si era comunque tutti cittadini dello stesso impero. Roma era un crogiolo di razze; gli stessi romani de Roma tradizionalisti se ne lamentavano. I limiti erano costituiti dall'ordinamento gerarchico sociale, ma questo valeva per un romano come valeva per un siriano o per un inglese. Non abbiamo nella lingua latina l'equivalente per definire i terroni o gli extra-comunitari: la romanità era un valore acquisito per tutti e di cui tutti erano partecipi. Quando Celso, un filosofo pagano, alla fine del II sec. d. C. scriverà una dura reprimenda contro i cristiani li accuserà proprio di questo: di mancare di lealtà verso lo Stato in cui vivono; questo era inconcepibile, e non solo per lui [6]. E la prova di aver saputo raggiungere una singolare passione di appartenenza è confermata dal fatto che l'ultimo canto celebrativo di Roma non è stato scritto da un romano, ma da un abitante della Gallia: si tratta di Rutilio Namaziano [7], che scriveva in uno Stato a pezzi, dominato dal disordine, dalla violenza, con prospettive di destino e di ripresa molto fosche; ma anche per lui, anche in quelle condizioni, Roma continuava a costituire il simbolo dell'ordine, era lo Stato, al di là del quale non si poteva concepire altro. L'aver saputo creare un sentimento di appartenenza così forte è certamente uno degli elementi più straordinari ed unici dell'antica Roma. Mi rendo conto che questa può sembrare una celebrazione; ed allora è meglio chiarire subito che l'impero romano era tutt'altro che esente da difetti. Alcuni sovrani sono stati dei tiranni, dei criminali o dei pazzi; i governatori delle province erano spesso dei predoni, al punto che alcuni sono dovuti comparire davanti ai giudici per giustificarsi delle loro ruberie; un governatore onesto era merce rarissima.

La società era brutale, violenta e prevaricatrice, e spesso lo Stato voltava la faccia dall'altra parte; la giustizia era corrotta in modo dichiarato talora apertamente; l'amministrazione strabica, talora ossessiva nelle sue richieste, talaltra negligente; il fisco oppressivo, l'esercito prepotente; non v'era il concetto di diritti della persona o di intervento dello Stato per la sanità e l'istruzione pubblica. Ma se l'impero è sopravvissuto tanti secoli nonostante questi difetti, se ha continuato a restare nella memoria collettiva come una stagione felice ciò è accaduto perché il suo potere e la sua organizzazione hanno conservato punti di riferimento, una coscienza, per quanto parziale, dei propri limiti, una certa attenzione alla cittadinanza, delle regole stabilite e, pur nella corruzione, vincolanti; si sapeva in definitiva a chi rivolgersi, quali adempimenti chiedere, cosa attendersi: quella che subentrerà sarà un'anarchia senza punti di riferimento, dove la violenza sarà ancora più cieca e lo Stato un'entità inesistente. Solo Salviano di Marsiglia, alla metà del V sec. [8] preferirà i barbari ai romani: ma è l'unica voce in questo senso, ed in una situazione storica nettamente peggiorata rispetto a quella di Agostino. Ho detto prima che una delle caratteristiche dell'impero era la sua diffusa urbanizzazione, certo non comparabile con quella di oggi né per il numero di città che per quello dei rispettivi abitanti: a parte Roma ed Alessandria d'Egitto, metropoli uniche nel loro genere, una città di 150.000 abitanti era già considerata una grandissima città; Milano, che fu quasi per un secolo la capitale dell'impero, pare che non ci sia mai arrivata.

L'urbanizzazione non era un valore condiviso; in questo senso è chiarificatrice la lettura di Genesi 4, 17: Caino conobbe quindi sua moglie, la quale concepì e partorì Enoch. Costruì poi una città che chiamò dal nome di suo figlio Enoc. Il pezzo è breve e semplice, ma di straordinario interesse: va premesso che Genesi è il primo libro della Bibbia ma, oltre ad essere un testo composito, la prima parte è posteriore all'esilio babilonese; alcuni studiosi ne collocano la composizione definitiva nel V-IV sec. a. C., quando Egitto ed Oriente contavano molte città e la Grecia viveva il periodo più brillante della sua storia. Il testo non ci dice nulla dal punto di vista storico, ma collegato ad altre vicende, è illuminante per la concezione che ci trasmette: il primo fondatore di città è Caino, il simbolo stesso della malvagità; poco più avanti troveremo il tentativo di costruzione della torre nella città di Babele, simbolo della presunzione intellettuale degli uomini; sono città pure Sodoma e Gomorra, distrutte per il loro disordine soprattutto sessuale, ma direi anche morale in senso lato. Una costante caratterizza queste storie: la presentazione delle città come luogo di corruzione di costumi; l'ideale di vita che queste pagine sembrano preferire e proporre è quella del pastore o comunque dell'allevatore nomade; meglio i piccoli centri rurali che non le metropoli; eppure l'ebraismo aveva già conosciuto l'edificazione di una città come Gerusalemme e la costruzione del primo grande Tempio.

Ma la proposta di vita morale ed intellettuale esclude la città come luogo adatto alla estrinsecazione delle virtù; e questo, ripeto, non accadeva tra i barbari, che non avevano una tradizione urbana, ma nella stessa Palestina, che contava centri molto antichi, pensiamo a Gerico, e popolosi. Questo ci dice che l'urbanizzazione non sempre era concepita come valore anche laddove esisteva. Quando ci rechiamo in viaggio in alcuni paesi, come ad esempio la Francia o la Spagna o la stessa Germania al di qua dal Reno o l'Africa mediterranea, spesso la prima informazione che ci danno le guide locali è che la "città fu fondata dai Romani"; un classico, qualche volta sbagliato; sovente i romani hanno operato su un nucleo già esistente, sviluppandolo, popolandolo, rendendolo più importante, ma non ne sono stati i fondatori. Tuttavia lo sviluppo dell'urbanizzazione è certamente un dato che caratterizza la civiltà romana; cosa significa la creazione di questa rete di centri urbani?

Essi esigono collegamenti, ecco dunque la costruzione di una rete viaria assolutamente originale ed impressionante per quell'epoca; entro le città si costruiscono edifici talora imponenti che hanno finalità specifiche: saranno i templi per gli dei, le basiliche per l'amministrazione della giustizia, i palazzi degli alti funzionari, la sede della curia, una specie di senato cittadino, le grandi fontane per l'acqua, in quanto non esisteva un servizio idrico paragonabile al nostro; tutti abbiamo sentito parlare delle terme, un luogo specificamente romano, sede di bagni e di saune, ma anche di accordi economici e di intrighi politici; ove l'acqua mancava o era insufficiente si costruivano grandi acquedotti, di cui ci sono rimasti alcuni resti straordinari per imponenza e solidità costruttiva; si organizzavano servizi di fognatura; si edificavano ginnasi, insieme luoghi di educazione e di pratica sportiva; in alcuni grandi centri v'erano pure il circo, l'anfiteatro per gli spettacoli gladiatori e le lotte con gli animali, che erano le grandi passioni dei romani; non mancavano i teatri, che nel mondo romano erano edifici costruiti, non cavee all'aperto come per i greci; v'erano insomma luoghi dove si esprimeva la vita civile ma anche ci si poteva lasciare andare al divertimento.

Questi aspetti della città romana sono stati progressivamente spenti dal cristianesimo, ma paradossalmente recuperati proprio dalla cultura moderna, che è tornata, in un certo senso, a riallacciarsi all'antica Roma. Gran parte degli edifici di cui ho parlato sono andati in rovina insieme alla fine del mondo antico o sono stati saccheggiati per costruire chiese. Ma stanno ricomparendo nelle grandi città ed anche nei piccoli paesi: le terme sono paragonabili alle nostre piscine, i ginnasi alle palestre, i circhi e gli anfiteatri alle arene o agli stadi, i teatri hanno ripreso le caratteristiche di allora: un riconoscimento che nella città antica si cercava di venire incontro alle diverse esigenze degli uomini. Ma non c'era soltanto questo aspetto: esse erano anche luogo di scambio di merci dell'agricoltura e dell'allevamento; la sede dell'artigianato qualificato, dei negozi più ricchi, spesso sotto grandi colonnati che proteggevano dalle intemperie e dalla calura, delle professioni liberali, dove si potevano trovare i medici, gli avvocati, gli artisti, i maestri di scuola, tutti rigorosamente a pagamento; i maestri, già allora, erano i più svalutati.

Questo trasmette l'idea di luoghi vivaci, eterogenei, anche aperti: la presenza in alcune città italiane di nomi di origine greca, ebraica o siriana, come pure di nomi latini in Oriente, ci dimostra che le popolazioni viaggiavano anche allora più di quanto ci si potesse aspettare. Questo aspetto è importante perché ci trasmette l'idea di una civiltà aperta che confida nella sua forza reale, ma anche nella forza che gli proviene dagli stili di vita e di pensiero che essa propone. Solo in due casi il mondo romano ha preferito la chiusura o la repressione all'apertura ed alla larghezza di vedute: nel rapporto religioso con il cristianesimo ed in quello politico con i barbari; in entrambi i casi sappiamo, purtroppo, come è andata a finire. Si tratta di un argomento molto moderno, in cui i vecchi romani, così come nella modulazione plurale delle città, ci potrebbero essere saggi consiglieri: una civiltà vive della sua forza di sedurre, di coinvolgere, di rendere partecipi; la chiusura è sempre indice di declino, di scarsa fiducia nei propri valori.

Credo che in pochi casi sia stato espresso con altrettanta chiarezza e senza troppa retorica il significato che Roma ha attribuito a se stessa ed ha diffuso in occidente come in questa pagina di Marguerite Yourcenar, che traduco dal suo romanzo più celebre, le "Memorie di Adriano": Essa (allude a Roma) sfuggirà al suo corpo di pietra; comporrà con il termine di Stato, di cittadinanza, di repubblica, una immortalità più sicura. Nei paesi ancora incolti ... ogni villaggio difeso da una palizzata di pioli mi ricorderà ... la capanna di letame dove i nostri gemelli romani dormivano ... : queste metropoli future riprodurranno Roma. Ai corpi fisici delle nazioni e delle razze, ai casi della geografia e della storia, alle esigenze disparate degli dei e degli antenati, noi dovremo sovrapporre, ma senza distruggere nulla, l'unità di una condotta umana, l'empirismo di una esperienza saggia. Roma si perpetuerà nel più piccolo villaggio dove dei magistrati si sforzeranno di verificare i pesi dei mercanti, di pulire e di illuminare le vie, di opporsi al disordine, all'incuria, alla paura, all'ingiustizia, di interpretare ragionevolmente le leggi. Essa non perirà che con l'ultima città degli uomini [9].

Sono parole estremamente ispirate ed insieme semplici, che non traducono la concezione che Adriano aveva di Roma, visto che di lui non ci è pervenuto nessuno scritto, ma l'interpretazione che la Yourcenar stessa dà del significato, del valore di Roma. Prima, tuttavia, occorre fare una premessa: nel mondo latino, lo dico semplificando, e ne sono consapevole, due erano i termini più usati per indicare la città: il primo è urbs, con cui si alludeva all'entità fisica, l'altra è civitas, in cui si metteva invece in rilievo il concetto di cittadinanza, ovvero di un insieme di uomini partecipi di un destino comune, interessati alle sorti della collettività e che la governano tramite una pratica di deleghe a loro concittadini, che se ne prendono cura in settori specifici e che rispondono del loro operato: in sostanza una pratica della democrazia, in cui si uniscono l'orgoglio per la propria città, la discussione ed infine anche l'esecuzione di quanto si è deliberato. Non è che la Yourcenar ci presenti obbiettivi grandiosi, una specie di città perfetta: al contrario i traguardi sono molto limitati: garantire che sul Celio e sul Palatino un kg. di carne sia un kg. su ognuno dei due colli, non che da qualche parte si speculi sul peso; gli basta che la città sia illuminata, sicura, anche pulita (il che in Italia da qualche parte sembra ancora una meta irraggiungibile); anche l'applicazione delle leggi non viene presentata come se ci trovassimo di fronte ad un alto ideale di giustizia: gli basta una interpretazione "ragionevole", che non faccia troppo a pugni con il buonsenso e la smaccata partigianeria. Roma ha raggiunto tutto questo con grandi difficoltà e convulsioni, ed in una forma sempre impervia, sovente violata: la democrazia romana era piena di corruzioni e di eccezioni; nell'epoca di Agostino il consolato, un tempo la massima carica della repubblica, veniva conferito persino a bambini. Ma questo concetto di civitas, nella cui vita si era coinvolti e partecipi, ha continuato a sussistere, ed è stato diffuso in tutte le città dell'impero, quando ciò non era troppo in contrasto con la tradizione locale che in genere, come ho già ricordato, veniva lasciata in vigore: ad es. gli elementi teocratici del governo di Gerusalemme sono stati affiancati da organismi romani, ma non distrutti prima delle grandi rivolte giudaiche.

Ora bisogna tener presente che prima di Augusto Roma non era affatto la città più grande e fastosa situata nel Mediterraneo; anzi talora ambasciate che venivano dall'Oriente si stupivano che una città così insignificante e, per qualche verso anche povera, fosse trionfalmente impegnata nella conquista degli imperi orientali; ma ciò che distingueva Roma da queste città era appunto la gestione interna, il coinvolgimento dei cittadini; in genere le città orientali erano affidate alla guida di funzionari che godevano della fiducia del sovrano; non c'era nessun coinvolgimento del popolo, spesso, al contrario, disprezzato. Ovvero il significato di Roma non deriva dalla sua grandezza, ma dalle istituzioni partecipate che ha saputo darsi. In questo senso la Yourcenar arriva a dire che Roma sarà l'ultima città a morire: non si tratta di una profezia storica, ma della constatazione che l'ultima città del mondo presenterà proprio i caratteri della città romana, in cui i cittadini saranno partecipi al massimo grado del loro destino, cercheranno una via di salvezza e, probabilmente, affideranno le loro sorti a persone competenti o presunte tali; è per questo che Roma, piaccia o non piaccia ai leghisti, sarà veramente l'ultima città a morire. Una componente rilevante della democrazia romana era il cursus honorum, ovvero una progressione nella carriera politica, passando da cariche meno importanti o più specifiche ad altre più complesse e gravose; nei tempi migliori della repubblica si arrivava al consolato in età matura, e dopo essere passati attraverso le funzioni di edile, di questore, di pretore etc.; questo consentiva una conoscenza ad ampio raggio delle esigenze della città; insomma al governo di Roma non arrivavano improvvisatori od avventurieri ma persone già sperimentate e anche capaci di ponderare i problemi, in grado di non farsi travolgere dalle difficoltà.

E queste cariche, a differenza dei senatori, che erano membri a vita, erano tutte a scadenza, e tutte condivise: in genere duravano un anno, e gli eletti erano sempre a coppia: a due, a quattro, e così via: erano ulteriori modi per evitare che chi fosse arrivato alle cariche supreme della città ambisse a diventarne pure il padrone. Il cursus honorum cominciava molto presto: giù a 17 anni si ricoprivano le prime cariche pubbliche; ed è un segno dell'intelligenza dei romani antichi che i ragazzi di quell'età venissero destinati alle attività connesse alla monetazione [10]: la prima cosa che gli aspiranti politici romani imparavano era il valore del denaro. Questa pratica di governo era diffusa in tutte le altre città, che così si modellavano sulla concezione romana: il senato romano veniva sostituito dalle curie cittadine, che erano del pari organi permanenti, i cui membri erano tratti pressoché interamente dall'aristocrazia fondiaria o finanziaria della città; li potremo paragonare agli attuali consigli comunali.

Invece le cariche di governo effettive erano elettive e presentavano le stesse caratteristiche che abbiamo trovato a Roma: una durata limitata nel tempo e la compartecipazione alle cariche. Questo aveva un vantaggio di immediata evidenza: un governatore o un funzionario romano che si trovava a trattare con un governo cittadino si confrontava con la sua stessa logica mentale; per cui non presentava difficoltà particolari discutere con una curia dell'Asia o con una della Germania. Anche questo era uno degli elementi unificanti dell'impero. Ma c'è un altro dato importante nell'imperialismo romano, che voglio sottolineare in contrasto con i caratteri dell'imperialismo dei grandi stati europei nello scorso secolo. Una consolidata tradizione vede il governo romano in una logica di sfruttamento dei sudditi: era certo un dato reale, e non contestabile, ma le città che la romanità ha diffuso nel Mediterraneo presentano tutte le stesse caratteristiche; entrare a far parte dell'impero non significava solo essere sfruttate, ma anche svilupparsi: gli acquedotti, le fognature, la sicurezza, le sedi delle amministrazioni pubbliche, la monumentalità degli edifici, gli stessi luoghi di incontro e di divertimento venivano garantiti alle altre città come a Roma; non c'era una capitale che sfruttava in un quadro di squallore spaventoso; era inconcepibile, perché il romano che si muoveva, voleva muoversi nel suo mondo, ritrovare gli stessi ambienti; ma anche lo straniero era consapevole che solo essere parte dell'impero garantiva questo sviluppo. Come si ricreava altrove un governo che imitasse Roma, così si ricreava altrove una città che la imitasse nei servizi e nella bellezza [11].

Questa mi sembra una finalità che l'imperialismo europeo del secolo scorso è stato ben lungi dal proporsi: esso era finalizzato al puro e semplice sfruttamento, e tutto veniva posposto a questo obiettivo. Come fosse vissuto questo rapporto con la civitas romana lo dimostra un episodio che troviamo nella vita di Paolo: quando fu arrestato a Gerusalemme, quale conseguenza di un tumulto suscitato contro di lui dai farisei radicali, che lo ricordavano come loro esponente ed ora se lo ritrovano seguace di una fede che essi consideravano una deviazione dal giudaismo, Paolo disse ai legionari romani che lo arrestavano e lo sottraevano all'ira dei correligionari soltanto tre parole: non si professò seguace di Cristo, nunzio della verità e del vangelo, disse soltanto: Cives romanus sum [12].

Lo scopo era evidente: chiedeva le garanzie giuridiche che ad un romano venivano riconosciute, e ad un giudeo no; proclamando la sua cittadinanza romana Paolo evitava, ad esempio, il supplizio della croce e si garantiva un processo più attento alle sue ragioni. Ma certamente Paolo non avrebbe detto quelle parole se avesse disprezzato la sua condizione di cittadino romano; e questo lo diceva un giudeo, per cui l'occupazione romana era anche profanazione di luoghi santi, dunque il meno interessato, il meno coinvolto per vantare questa sua condizione. Il fatto che anche Paolo lo dica, e poi leggeremo le sue parole sul potere che, vi premetto, sono sorprendenti, dimostra quanto fosse penetrato nelle menti, direi anche nelle viscere, questo orgoglio di appartenenza all'impero. E questa non è l'ultima ragione che ne spiega la sua durata, ed il senso di smarrimento che seguì alla sua rovina; non c'era un'altra Roma. Parafrasando le parole della Yourcenar potremmo dire che Roma era l'unico modello di città degli uomini.

 

 

Il rapporto dei cristiani con l'impero

 

In questa seconda parte vedremo attraverso letture di testi cristiani quale sia stato e come sia mutato il rapporto dei cristiani stessi con l'impero romano; seguiremo un criterio cronologico e cominceremo proprio da Paolo, che parla dei rapporti con il potere politico in un passo celebre, discusso e controverso, proprio nella lettera ai romani: Ogni persona sia sottomessa ai poteri superiori, perché non c'è potere se non da Dio e i poteri che esistono sono istituiti da Dio. Sicché, chi si oppone al potere si oppone all'ordine stabilito da Dio e quelli che vi fanno opposizione si attirano addosso la condanna ... Vuoi tu non avere da temere il potere? Fa' quel che è bene e ne riceverai lode. Esso infatti è per te ministro di Dio per il tuo bene, ma se fai il male temi, perché esso non porta la spada invano ma ... deve punire chi fa il male. Perciò conviene star soggetti, non soltanto per timore dell'ira, ma anche per motivo di coscienza, poiché è anche per questa ragione che voi pagate i tributi, perché sono ministri di Dio addetti proprio a tale ufficio. Rendete a ognuno quello che gli è dovuto, a chi il tributo il tributo, a chi l'imposta l'imposta, a chi il timore il timore, a chi l'onore l'onore. Rm. 13, 1-7 Questa lettera secondo la critica neotestamentaria è anteriore al 60 d.C., dunque precede la persecuzione di Nerone; questo aiuta a spiegare il suo linguaggio sorprendente, potremmo dire servile, verso il potere politico.

Su questa parte della lettera sono stati versati fiumi di inchiostro, e si è discusso molto se essa riporti effettivamente il pensiero di Paolo; ma tutto questo non ci interessa, perché a noi preme sottolineare che queste parole sono state accolte dalle comunità cristiane come parole di Paolo, dunque come regola di comportamento e di giudizio: e questo è l'elemento più importante. Le frasi di Paolo sono molto pesanti: il potere politico è una emanazione della volontà di Dio, ogni ribellione è empia, contro Dio; e questo lo dice pur sapendo benissimo che l'impero romano è dichiaratamente politeista. Per quanto riguarda la giustizia egli riconosce all'impero il diritto della spada, dunque dell'esecuzione capitale; i termini di bene e male non sono ben chiari, forse volutamente, ma si può escludere che si limitino ai casi di ribellione politica; Paolo dà loro un carattere più generale. Affronta anche un argomento molto spinoso, quello dei tributi, ed invita ad essere buoni contribuenti; anche questo invito non ha una pregnanza da poco; gli ebrei versavano già il loro tributo al Tempio; perché anche ad un governo straniero, visto come oppressore? Eppure su questa materia Paolo è chiarissimo: anche il tributo entra nell'ordinamento di Dio.

Nessun governo romano si sarebbe potuto aspettare parole più compiacenti. Non possiamo ignorare la situazione esistente il momento in cui Paolo scriveva queste parole: c'erano già stati casi di denuncia, atti di intimidazione e repressioni violente contro le prime comunità; queste erano venute soprattutto dai giudei, ma qualche volta anche da pagani: Paolo ne aveva avuto esperienza diretta ad Efeso [13].

Attraverso queste affermazioni vuole garantire del lealismo, della correttezza assoluta dei cristiani verso lo Stato, vuole stornare da loro il rischio di persecuzioni. Questo ci aiuta a capire ed a giustificare le parole di Paolo, ma non possiamo ignorare che avrebbe potuto garantire del lealismo dei fedeli anche con un altro linguaggio meno ossequioso. Noi traiamo da questo passo la deduzione che Paolo non ammettesse un altro stato che non fosse l'impero romano in cui viveva: se infatti questo Stato è voluto da Dio, solo Dio, con un intervento personale, lo può distruggere, non gli uomini, perché la loro ribellione autorizza lo Stato alla repressione: come vedete, l'immobilismo, in assenza dell'azione di Dio, è totale. Per Paolo non c'è altra realtà che l'impero, ed il solo rapporto con l'impero è quello di essere sudditi rispettosi. Egli non si pone il problema dell'agire dello Stato, se giusto o ingiusto: per il semplice fatto di essere espressione tutelata da Dio non è tollerabile nessun contrasto con esso, come non è tollerabile ogni conflitto con Dio; ergo, per lui l'impero è eterno quanto l'uomo. Passeremo ora ad un altro passo pure contenuto nel Nuovo Testamento; si tratta della storia del tributo; lo leggeremo nel testo di Matteo, che è il più completo e, diremo, il più istituzionale: ... i farisei ... gli mandarono i loro discepoli ... dicendo: "Maestro, sappiamo che dici il vero, insegni veracemente la via di Dio ... , dicci dunque, che te ne pare: E' lecito pagare il tributo a Cesare o no?" Ma Gesù, conosciuta la loro malizia, disse: "Perché mi tentate, ipocriti? Mostratemi la moneta del tributo". Or essi gli presentarono un denaro. Disse loro: "Di chi è questa immagine e l'iscrizione?".

Gli risposero: "Di Cesare". Allora disse loro: "Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio". Mt. 22, 15-22 Ho letto questo testo del vangelo di Matteo dopo la lettera di Paolo perché la redazione dei vangeli come oggi li leggiamo è posteriore alle epistole paoline, sono testi della generazione che viene immediatamente dopo, per l'appunto, a Pietro ed a Paolo. Qui le parole sono attribuite direttamente a Gesù, quindi il significato che la chiesa primitiva dà loro è ancora più autorevole. Notiamo subito un particolare in questa frase; manca un avverbio ed è un avverbio fondamentale: Cristo non dice "Rendete prima a Cesare e poi a Dio", ma non dice neppure "Rendete prima a Dio e poi a Cesare"; nella sua risposta non c'è nessuna affermazione di primato: ma lo Stato, rappresentato qui con Cesare, e la fede, vista nel suo significato complesso di dottrina, di culto, di convinzioni, ed espressa qui con un termine così assoluto come Dio, sono autonome e vincolanti allo stesso modo; non si trova nessuna parola che possa essere interpretata come primato dello Stato - quello che invece avevamo letto in Paolo -, ma neppure nessuna parola che possa giustificare la teocrazia, ovvero il governo dell'autorità ecclesiastica. Sono poste sullo stesso piano, nel loro ambito sono entrambe sovrane e distinte. Viene prima lo Stato o viene prima la Chiesa?

Cristo in queste parole che gli vengono attribuite non si pronuncia. E' una indicazione di grandissimo significato, ma si tratta anche dell'affermazione più spesso tradita ed ignorata nel corso della storia. Il IV secolo dopo Cristo assiste già a questo scontro che accompagna tutto il Medioevo ed anche parte dell'Età moderna: nell'età di Costantino, i primi decenni del IV sec., è il sovrano ad imporsi sulla Chiesa fino a determinare le scelte di carattere teologico; ma nell'età di Ambrogio, alla fine dello stesso secolo, la situazione è già del tutto mutata: è il vescovo che rivendica la sua autorità sull'imperatore e che ne condiziona le scelte. Eppure le parole di Cristo in materia sono chiarissime. Mi permetterò una digressione che ha uno stretto rapporto con i miei studi sul cristianesimo antico.

Una risposta come questa dovrebbe essere costantemente citata nel dibattito sul ruolo dello Stato e della Chiesa nel corso del IV sec.; ebbene uno studioso tedesco, lo storico K. M. Girardet [14], ha constatato che questa frase compare con tutto il suo peso e la sua chiarezza soltanto una volta nel periodo dei Costantinidi - durante il regno di Costantino e della sua famiglia, dunque fino al 363 -, per di più in un documento dubbio, ed inoltre attribuito ad un vescovo morto in odore di eresia. Ho potuto verificare che non è propriamente così: la frase compare un'altra volta, ed in un vescovo ortodosso come Ilario di Poitiers [15].

E' comunque sorprendente quanto essa sia stata poco utilizzata da entrambi i contendenti, e la ragione è una sola: non dava vantaggi a nessuna delle due parti, anzi le limitava entrambe. Ed il vescovo che l'ha utilizzata nel modo più netto e consapevole, in chiara contrapposizione al comportamento dell'imperatore, è Ossio di Cordova. Questo nome non vi dirà nulla, eppure ogni volta che vi recate a messa dovete fare i conti, volenti o nolenti, con quest'uomo: perché il credo che recitate in tutte le messe gli deve molto del suo testo. Il documento che noi leggiamo è stato composto durante il concilio di Nicea nel 325 ed ulteriormente definito in quello di Costantinopoli del 381; per questo si chiama simbolo niceno-costantinopolitano [16]

E' un documento intorno al quale si sono combattute per decenni feroci battaglie armi in pugno, e talora non in senso metaforico. Ebbene Ossio, questo sconosciuto, è stato forse il presidente del concilio di Nicea, sicuramente il primo firmatario di quel Credo, certamente ha contribuito alla sua prima stesura. Come mai una così perfetta congiura del silenzio intorno ad un personaggio tanto importante nella storia ecclesiastica? Ebbene Ossio paga il prezzo di aver sottoscritto un documento di fede pensato per sostituire il Credo niceno, che viene considerato il testo più filo-ariano uscito da quella controversia che lacerò la chiesa per quasi l'intero IV secolo. Ma esaminiamo i fatti più da vicino: questo documento è del 357; noi sappiamo che Ossio già agli inizi del 300 era vescovo della chiesa di Cordova. I conti sono presto fatti: nel 357 Ossio aveva alle spalle quasi 60 anni di episcopato, e siccome non si diventava vescovi a 10 anni, ma l'età consigliata era dopo i 30, nel 357 Ossio era un uomo più che novantenne; io credo che ad un uomo di questa età, oltretutto costretto a recarsi da Cordova a Sirmio, dunque dalla Spagna alla ex Jugoslavia, si dovrebbe usare umana indulgenza; qualche volta la Chiesa non è così spietata. Non vorrei, ma ho questo dubbio, che Ossio abbia pagato non solo l'errore del 357, ma anche la chiarezza con cui ha interpretato questa frase evangelica nel suo contrasto con l'imperatore. Certo è singolare, e sospetto, l'oblio caduto su di lui; e la frase di Cristo, che abbiamo letto in Matteo, era troppo chiara e vincolante per le ambizioni di entrambi i contendenti.

Così è stata accompagnata nell'oblio insieme a chi ne era stato l'interprete più scrupoloso. Questa lettera di Ossio a Costanzo, il figlio di Costantino, la troverete citata sempre nei manuali che trattano dei rapporti tra Stato e Chiesa, proprio per la sua chiarezza [17]; ma insieme, nella massa di altri documenti, smarrisce la sua esemplarità evangelica, ed anche l'autore diventa una figura eterea, indefinita.

  APPROFONDIMENTO

      Lettera a Diogneto

 

Dopo questa divagazione torniamo ai documenti cristiani; in questi altri casi non sono più testi evangelici, dunque perdono il loro carattere vincolante per la comunità cristiana; sono però la rappresentazione dei sentimenti verso lo Stato di alcune di queste comunità. Citerò un documento poco noto, l'Epistola a Diogneto; in essa troverete dei sentimenti che spesso abbiamo sentito esposti come caratteristica del cristiano, purtroppo tacendo pressoché sempre la loro provenienza [18].

Tenete presente che Diogneto è un funzionario romano, cui questo ignoto scrittore indirizza la sua petizione: I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per il paese, né per la lingua, né per il vestire. Non abitano città proprie, non usano qualche linguaggio sconosciuto né hanno una vita singolare. ... Si dividono tra città greche e barbare (si intendono le città non greche) ... ; si conformano agli usi locali ... . Abitano ciascuno nella propria patria, ma come stranieri; adempiono i loro doveri di cittadini e ne sopportano i pesi come stranieri. Ogni terra straniera è la loro patria, ed ogni patria una terra straniera. Si sposano come tutti, generano figli come tutti, ma non li abbandonano. Dividono la tavola comune, ma non lo stesso letto.

Sono di carne, ma non vivono secondo la carne. Trascorrono la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Ubbidiscono alle leggi stabilite, ma le loro vite personali sono più perfette di queste. Amano tutti e sono perseguitati da tutti. Sono disconosciuti, e vengono condannati; sono uccisi, e tramite la morte guadagnano la vita. Sono poveri, ed arricchiscono molti; sono privi di tutti, ed abbondano di ogni cosa. Sono disprezzati, e traggono gloria da questo disprezzo; vengono calunniati, eppure sono giusti. Sono insultati, eppure benedicono; oltraggiati, eppure onorano. Fanno del bene, e sono puniti come malvagi; e per quanto puniti sono felici, come giungessero a una nuova vita. (ep. a Diogneto V, 1-2; 4-16). Questo testo, che ci è pervenuto per un insieme di circostanze che hanno dell'incredibile (le pagine su cui era scritto erano destinate ad avvolgere il pesce venduto al mercato), è stato redatto probabilmente in Asia Minore ed intorno alla metà del II sec. d.C. Dunque l'autore ha avuto sentore della persecuzione di Nerone e di quella un po' controversa d Domiziano; le repressioni dell'età di Traiano, di cui ci parla il governatore romano Plinio il giovane [19], ci sono già state. E l'opera dimostra che i cristiani sentono l'esigenza di difendersi dalle accuse del mondo pagano, forse per stornare una minaccia di persecuzione già in atto oppure temuta. Il linguaggio è molto semplice, anche se questa contrapposizione tra loro e gli altri dimostra che l'autore non era del tutto digiuno di retorica.

Qui il cristiano presenta la sua condizione di vita disprezzata, sempre costretta a fare i conti con la paura; eppure ricorda che loro rispettano le leggi, e la loro moralità personale è di gran lunga superiore a quella dei pagani tra cui vivono; ma non c'è nessun tono rivendicativo, e non c'è nessuna forma di alterigia nei confronti degli altri. Sono cittadini come tutti, soltanto consapevoli che la loro esperienza terrena non esaurisce la loro condizione; come cittadini accettano e subiscono anche i soprusi dello Stato, di cui sono consapevoli e di cui soffrono, ma senza porsi contro di esso in una condizione di rivalsa, di ostilità. Il testo che leggeremo ora, tratto dal De corona di Tertulliano [20], fa un ulteriore passo avanti: Tertulliano di questo contrasto con il mondo pagano è consapevole, e proprio su di esso si esprime con parole precise; tenete presente che l'argomento su cui si pronuncia è la possibilità per un cristiano di svolgere il servizio militare: Sarà mai lecito fare della spada il proprio mestiere, quando il Signore dichiara che perirà di spada chi di spada si sarà servito? E prenderà forse parte agli scontri armati il figlio della pace, per il quale già la semplice lite sarà sconveniente?... E farà i turni di guardia per altri piuttosto che per il Cristo, e magari di domenica, quando non lo si fa neppure per il Cristo? ... Porterà inoltre il vessillo rivale di quello del Cristo?... Lo stesso passare dagli accampamenti della luce a quelli delle tenebre rientra nella sfera del peccato. ... In nessun luogo il cristiano cessa di essere tale, il vangelo è uno solo e sempre il medesimo. Gesù rinnegherà chiunque lo avrà rinnegato e riconoscerà chiunque lo avrà riconosciuto ... La condizione della fede non ammette casi di necessità. ... tu pure sei dunque soldato e servo di un altro padrone; se poi lo sei di due allo stesso tempo, vale a dire di Dio e di Cesare, allora di certo non lo sei di Cesare, visto che ora devi rendere te stesso a Dio; e Dio, a parer mio, va preferito, anche nelle attività ordinarie comuni a tutti. (Tertull., De corona, XI, 2-XII, 5 passim).

L'opera, secondo la maggior parte degli studiosi, è stata scritta a Cartagine, intorno al 211 d.C. E' opportuno dare qualche indicazione sull'esperienza cristiana di Tertulliano, che era un personaggio impetuoso ed intransigente. Egli era un convertito dal paganesimo e fece parte di quella che potremmo definire la Chiesa ufficiale; poi, ritenendola troppo tiepida, passò ad un gruppo più intransigente, i c.d. "montanisti", ovvero i seguaci del predicatore Montano, che si caratterizzava per il suo rigore e l'attesa imminente dell'arrivo del Regno di Dio; il De corona appartiene a questo secondo periodo. Successivamente, siccome anche i montanisti erano troppo tiepidi per i suoi gusti, fondò una piccola Chiesa personale, che sopravvisse poco tempo alla sua morte. Nonostante la sua rovente proclamazione di cristianesimo, e sebbene l'Africa allora abbia conosciuto forme di persecuzione, e l'opera stessa allude all'esecuzione di un soldato che si era professato cristiano, Tertulliano non soffrì durante la sua vita, abbastanza lunga, di un solo giorno di prigione. Qui è evidente che ci troviamo in uno stadio successivo, e siamo di fronte ad una risposta diversa: è possibile per un cristiano conservare il rapporto con Dio, ed insieme con Cesare? Abbiamo visto che la risposta di Matteo lo consentiva, Tertulliano non più: la scelta del cristiano è assoluta e rigorosamente esclusiva; nel caso di un conflitto con lo Stato non esiste nessun dubbio sulla scelta: il cristiano si atterrà innanzitutto alla sua condizione di fedele.

I termini del rapporto con l'impero stanno diventando conflittuali. E questo non riguarda soltanto la condizione militare, che si presta facilmente al rifiuto per i suoi aspetti di violenza e di omicidio, ma anche, come sottolinea nell'ultima frase del pezzo citato, nelle "attività comuni"; prima cristiano dunque, poi cittadino. Ma c'è un piccolo elemento che dimostra come anche per una persona così intransigente, così rigorosa la presenza della tradizione di Roma non riusciva ad essere completamente estirpata; nella traduzione Tertulliano dice, "a parer mio", ma nel testo originario latino c'è una parola molto più forte: è scritto "credo"; dunque Tertulliano crede nella validità della sua proposta, ma è cosciente che si tratta di una posizione personale, che non esclude affatto altre posizioni ed altri orientamenti e soprattutto - questo per me è importante - non li svaluta o li disprezza preventivamente. Lo Stato, questo Stato che Tertulliano assimila alle "tenebre", resta un valore, sicuramente per la comunità cristiana cartaginese, cui questo scritto è indirizzato perché troppo tiepida nella sua fede, ma anche per lui stesso; il suo tono, altero e sicuro, si chiude su un cenno di dubbio. Anche se lui ha introdotto la consapevolezza della frattura tra Stato e cristianesimo non giunge a prefigurarne un conflitto, una impossibilità di dialogo, per quanto il cristiano non sia più cristiano soltanto nella sua coscienza, ma anche nella sua vita civile. Va da sé che se avessimo letto il Tertulliano appartenente alla chiesa cristiana ufficiale di Cartagine avremmo letto un autore diverso, molto più aperto all'interazione con l'impero; ed in questo caso avrebbe espresso quella che era la posizione ufficiale della Chiesa cartaginese. In questo nostro viaggio siamo arrivati all'ultimo approdo; leggeremo parte di un documento riguardante i martiri di Lione del 177 d. C.

Conosciamo molto bene questa vicenda ancora una volta per un insieme di circostanze che potremmo definire prodigiose. I cristiani di Lione si erano costituiti probabilmente intorno ad un gruppo che proveniva dall'Asia Minore; nel 177 subirono un pogrom da parte della popolazione pagana ostile; l'autorità locale intervenne, furono istituiti processi-farsa, ed i cristiani arrestati furono prima torturati in mille modi e poi martirizzati con efferatezza: alcuni arsi vivi, altri gettati in pasto ai leoni. Si tratta di una delle pagine più vergognose dell'impero romano, e di una delle più luminose del cristianesimo antico. I sopravvissuti scrissero una lettera alle chiese d'Asia, da cui provenivano, per informarle dei fatti; questo documento, probabilmente trascritto per altre comunità, giunse a Cesarea, in Palestina, dove fu conservato nella biblioteca episcopale. Quando un illustre vescovo di questa città, Eusebio, anche lui morto in odore di eresia, scrisse la Storia della Chiesa dalle origini fino ai suoi giorni, riportò in essa questo documento e - questo è un altro fatto sorprendente - lo riportò, si presume, integralmente, a differenza di quanto era solito fare; in genere, infatti, preferiva sintetizzare; così, grazie a lui, conosciamo questa vicenda, di cui costituisce l'unica testimonianza [21].

Ne leggeremo un pezzo breve e significativo: Quanto a Santo (si tratta di un nome proprio), anch'egli sopportò coraggiosamente tutte le brutalità ... che gli furono inflitte. ... Qualsiasi cosa gli fosse chiesta rispondeva, in lingua latina: "Sono cristiano". Questo, e soltanto questo, egli invariabilmente dichiarava quale nome, cittadinanza, stirpe, tutto: altro accento non udirono da lui i gentili. Con ciò si attirò l'accanito spirito di rivalsa sia del governatore, sia degli aguzzini, sicché ... applicarono alle sue parti più delicate lamine di bronzo incandescenti. (Eus., Historia Ecclesiastica V, 1, 20-21). Come avete sentito, non bastava la tortura: si voleva arrivare lì, ai simboli del sesso, come ulteriore prova di umiliazione e di disprezzo.

Ma non è questo che mi interessa; in questo breve pezzo, infatti, si evidenziano alcuni comportamenti cristiani ed insieme, per contrasto, emergono le ragioni della persecuzione pagana. Ad ogni domanda che l'autorità giudiziaria gli rivolge Santo si presenta facendo riferimento alla sua fede: non è altro, ed altro non gli interessa al di fuori di questo. Avrà un nome, un'attività, uno stato giuridico: egli non lo dice, è soltanto un "cristiano". E' passato poco più di un secolo dall'arresto di Paolo e dalla sua lettera ai Romani, forse un secolo dal vangelo di Matteo; ebbene ci rendiamo conto di trovarci veramente in un altro mondo.

Per pensare a figure moderne altrettanto radicali davanti all'autorità giudiziaria dovremmo pensare ai terroristi quando, negli anni 70-80, proclamavano esclusivamente, senza rispondere a nessun altra domanda, di essere "prigionieri politici". Santo con il suo comportamento non si limita a contrapporsi allo Stato, lo disconosce; l'essere cristiano per lui è l'unico valore che conta, il resto è insignificante. Ora abbiamo visto che il comportamento di Paolo era stato del tutto diverso: egli aveva proclamato subito la sua cittadinanza romana. Se Santo avesse dichiarato di essere un cittadino romano avrebbe invalidato tutti gli atti del processo ed avrebbe evitato tutte le umilianti torture; è molto probabile che lui non lo fosse, ma l'elemento più rilevante che emerge è che a lui questo non interessava affatto. Ci troviamo di fronte ad uno scontro dichiarato ed implacabile; non c'è dialogo, non c'è possibilità di intesa; lo Stato e le sue istituzioni sono nientificate nella logica di Santo; possiamo presumere che un loro annientamento non gli interessa e non lo preoccupa affatto.

Questo comportamento di Santo ci consente anche di capire le ragioni delle persecuzioni anti-cristiane: si trattava di un culto nuovo, ad un Dio sconosciuto, che isolava le comunità cristiane dalle pratiche celebrative cultuali o anche soltanto civili in cui era implicato il culto degli dei o dell'imperatore, quest'ultimo anche come simbolo dell'unità dell'impero. Essi erano naturalmente oggetto di diffidenza e di ostilità, che diventano più violente in epoche di crisi, determinate da sconfitte militari, carestie, pestilenze: allora esplodeva l'odio, l'intolleranza contro l'altro, il diverso. E un atteggiamento come quello di Santo rinfocolava la sensazione di trovarsi di fronte a comunità indifferenti, forse persino ostili verso le sorti dell'impero. Al fondo di queste persecuzioni - che non intendo assolutamente giustificare - c'era in fondo la difesa della tradizione e della storia, l'essere proprio dell'impero.

Non è un fatto privo di addentellati anche con la realtà attuale: la condizione di insicurezza di oggi, per fortuna solo economica, genera ostilità ed intolleranza proprio come allora. Ma questo comportamento ci pone anche un altro problema: se si trattasse della scelta della maggior parte dei cristiani oppure di una scelta minoritaria. Posso affermare con assolutezza certezza che si trattava di una scelta largamente minoritaria, ridotta ai gruppi più radicali; la grande Chiesa come istituzione, in genere, l'ha avversata. C'è un documento molto interessante, anche se di epoca posteriore, che chiarisce molto bene l'atteggiamento della Chiesa: in un concilio tenuto ad Elvira, in Spagna, agli inizi del IV sec. - cui probabilmente partecipò l'Ossio di Cordova che ho già ricordato -, una deliberazione presa da quel sinodo, poco noto perché raccoglieva vescovi locali, stabiliva che coloro i quali cercavano il martirio deliberatamente, in modo provocatorio, non dovevano essere considerati martiri della fede [22]; tenete presente che in qualche circostanza i cristiani si facevano notare per atti di ribellione, stracciando editti pubblici, schernendo magistrati mentre svolgevano le loro funzioni. Ebbene la disposizione di questo sinodo chiarisce che non è questo l'atteggiamento da tenere di fronte alle autorità: bisogna confessare la propria fede se si è indagati o minacciati, ma non cercare deliberatamente il martirio.

Anzi , ove si può evitare, è bene cercare di farlo. Vi sono tra il 250 ed il 350 d.C. alcuni libretti che si intitolano De fuga in persecutione; ebbene non sono scritti contro la fuga, ma per giustificarla. Il che testimonia ulteriormente come la radicalità dei comportamenti venisse sconsigliata, ed evitata, nei rapporti con lo Stato. C'è una riflessione di un grande storico tedesco, Eduard Schwartz, sull'eroismo e l'elevata statura etica di simili comunità cristiane: egli sostiene, e condivido totalmente il suo parere, che si resta ammirati davanti a tanto coraggio ed a tanta fede; ma si può affermare con altrettanta sicurezza che se questo cristianesimo eroico fosse prevalso esso sarebbe rimasto la fede di una ristretta minoranza, ma poco proponibile alla massa dei fedeli [23]; in sostanza questo cristianesimo non avrebbe conquistato il mondo. Bisogna tener conto della debolezza degli uomini, anche della loro legittima volontà di vivere, di conservare il loro lavoro, la loro famiglia, i rapporti umani. Le persecuzioni, a differenza di quanto afferma Tertulliano, che sostiene che "i martiri sono il seme di nuovi cristiani", riducevano l'afflusso dei credenti [24], e la prova ne è che dopo di esse si poneva sempre il problema di come trattare i molti lapsi, ovvero coloro che avevano abiurato alla loro fede; il che è un ulteriore indice che in epoca di persecuzione si cercava soprattutto di salvare la vita.

Questo viaggio tra i vari modi di porsi dei cristiani di fronte all'impero romano è finito; si potrebbero aggiungere altri documenti, si potrebbe parlare dell'apocalittica, che ho deliberatamente ignorato. Tenete presente che in questo viaggio entro il cristianesimo si sono toccate un po' tutte le zone dell'impero: l'Epistola a Diogneto è un documento dell'Asia, Tertulliano uno scrittore africano, i martiri di Lione sono occidentali; è molto probabile che queste diverse posizioni siano intercambiabili, ovvero che la moderazione dell'A Diogneto si possa trovare in Occidente, così come il radicalismo dei martiri di Lione in Oriente.

Quel che mi preme sottolineare in una premessa alla Città di Dio è che queste posizioni sono davanti ad Agostino, ma non perché lui abbia materialmente i testi davanti a sé ed abbia operato una cernita: certo conosceva bene il Nuovo Testamento, come pure le opere di Tertulliano; non sappiamo degli altri testi, visto che non li cita; tuttavia ciò non ci interessa; quello che conta è che queste posizioni profondamente diverse, talora incompatibili, erano nell'interiorità di Agostino, erano possibili letture del cristianesimo che gli appartenevano ed entro le quali doveva cercare una risposta cristiana alla crisi dell'impero, una risposta che consentisse ai cristiani di sopravvivere alla sua eventuale rovina e di non provare sgomento. E questo, come ho già detto, era una prova difficile perché ritengo che anche per lui la concezione di un'altra istituzione oltre l'impero romano era difficilmente configurabile: i caratteri extra-storici, diciamo escatologici, della Città di Dio lo dimostrano.

 

 

La teologia della vittoria

 

Siamo arrivati all'ultima parte del nostro incontro. Cosa si intende con la definizione di Teologia della vittoria, un termine utilizzato soprattutto a partire dal secolo scorso e proprio con riferimento a quest'età? Molto semplicemente l'intervento diretto di Dio nella storia a favore di uno dei due contendenti. Non si tratta di un concetto nuovo: nel mondo romano era fondamentale per la prosperità dello Stato la concordia tra lo stesso Stato e gli dei; nel mondo giudaico questo concetto era stato ulteriormente accentuato: Dio faceva la storia, non soltanto nei grandi eventi - come la Creazione, la sua rivelazione etc. - ma anche nelle piccole vicende del popolo di Israele, quasi negli affari personali. Ora questo concetto presenta nel IV sec. una successione di fatti che vanno sorprendentemente tutti nello stesso senso e da cui il cristianesimo trae uno straordinario giovamento: in meno di un secolo passa dalla condizione di religione perseguitata a quella di unica religione ufficiale dello Stato: quale prova più evidente, pensarono legittimamente i cristiani di allora, che Dio è con noi. Ebbene alla svolta del secolo i destini mutano: Roma viene invasa e devastata; con gli antichi dei non era accaduto da secoli; con questo nuovo Dio succede dopo 30 anni.

E' naturale da parte cristiana il turbamento e da parte pagana l'accusa che proprio la perdita del favore degli antichi dei spiega il sacco di Roma. Chi protegge ora lo Stato? Chi garantisce la vittoria? È la domanda drammatica cui Agostino cerca una risposta in condizioni completamente mutate rispetto a quelle dei suoi predecessori, anche dello stesso Ambrogio, che era stato la sua guida ed il suo battezzatore, e che in una evenienza simile a quella di Agostino - ovvero di un Dio che sembrava dimentico dell'impero -, dette una risposta sconcertante, giustificabile solo nel clima di accesa contesa teologica di quegli anni.

Farò una breve sintesi degli eventi di quel secolo da cui emerge come si cerchi di far parlare Dio in tutti i modi e per tutte le circostanze; la forzatura vi parrà evidente. Costantino è il simbolo del favore divino concesso ad un sovrano; di tutti gli aspiranti alla guida dell'impero partiva dalla condizione più difficile; era infatti un figlio illegittimo; ma nel 312, con la vittoria su Massenzio al Ponte Milvio, unifica l'impero d'Occidente sotto la sua guida; l'anno dopo spartisce il regno con Licinio nel celebre incontro di Milano, da cui la tradizione ha dedotto l'editto di Milano - ovvero il diritto alla libertà di culto per i cristiani -, un documento che la ricerca storiografica ha dimostrato inesistente già alla fine del 1800. Nel 324 giunge alla riunificazione dell'impero con la sconfitta e l'eliminazione fisica di Licinio. Avrà anche la fortuna di morire nel proprio letto, di morte naturale, nel 337, il che, in quei tempi, era un fatto insolito. Alla figura di Costantino è legata una manifestazione del divino che è molto nota: l'apparizione, prima dello scontro decisivo con Massenzio, di un simbolo che ricorda la croce.

Questo sovrano ha conservato sempre durante il suo lungo regno, oltre 30 anni, una politica nettamente favorevole ai cristiani in ambito religioso, giuridico, amministrativo, fiscale ed edilizio - comincia in quest'epoca la costruzione delle grandi basiliche cristiane. La sua scelta sarà coerente, diversamente da Licinio, che in una prima fase appare a sua volta incline al monoteismo - e per questo riceverà, a sua volta, la visita di un angelo, che gli suggerisce una preghiera ad un Dio unico -, ma successivamente tornerà ai tradizionali culti politeisti. Anche per questo il conflitto con Licinio viene visto come una guerra religiosa, che conferma la forza e l'azione diretta ed operante del Dio cristiano. Non si tratta dell'unico caso nella famiglia di Costantino: il figlio Costanzo, molto meno noto perché di tendenze filo-ariane, pertanto considerato eretico, godrà anche lui del favore divino: sarà l'unico dei figli di Costantino a morire nel proprio letto di malattia; come il padre riuscirà a riunificare l'impero; nelle campagne militari sarà a sua volta abbastanza fortunato, ed in occasione dello scontro con un usurpatore, godrà anche lui dell'apparizione di un simbolo a suo favore: pure in questo caso una specie di croce che sarebbe apparsa nel cielo di Gerusalemme, e questo mentre durante la battaglia decisiva si sarebbe ritirato a pregare in una chiesa.

L'intervento divino sarà visto anche nella vicenda di Giuliano, l'ultimo esponente della famiglia di Costantino, noto nella tradizione cristiana con l'attributo di Apostata; costui aveva favorito un ritorno agli antichi culti, aveva tollerato una politica di violenze contro i cristiani ed aveva favorito una legislazione che fosse loro ostile; il suo regno durò soltanto 20 mesi; lui morì in giovane età, poco più che trentenne. In questo destino crudele il cristianesimo vide una ulteriore conferma della pronuncia di Dio a favore dei cristiani. L'ultimo imperatore che sembrò godere in modo nettissimo di questo favore divino fu Teodosio; anche lui salì alla guida dell'impero partendo da una condizione avversa - era figlio di un generale condannato a morte per alto tradimento -, eppure fu l'ultimo imperatore romano a guidare un impero unificato; l'evidenza della protezione divina si sarebbe dimostrata nella battaglia del fiume Frigido, in Friuli, in cui venne a capo dell'avversario quasi senza combattere, sfruttando sorprendenti opportunità meteorologiche; il diretto concorrente alla corona era un bizzarro personaggio, il filosofo Eugenio, che si era fatto interprete del paganesimo pur senza esserne un seguace. Con la sconfitta del Frigido nel 394, quindi alla fine del IV sec., il discorso di interpretazione sulle pronunce del divino non lascia più adito a dubbi: Dio si è espresso chiaramente, il cristianesimo è diventato proprio grazie a Teodosio nel 380 l'unica religione riconosciuta e favorita dallo Stato [25], il paganesimo è in rotta dovunque: i templi sono in rovina, i seguaci lo stanno abbandonando, praticarlo non è più opportuno per chi ha obiettivi di carriera, perché le cariche più alte sono ormai precluse ai pagani. Questa serie di disfatte militari e politiche così ininterrotte e non equivocabili ha il suo peso nella perdita di attrazione della tradizione; mentre i cristiani passano da un trionfo all'altro, nel paganesimo c'è un senso di smarrimento, di abbandono religioso - perché gli dei sembrano inerti -, e concettuale. Il fatto singolare è che questo secolo pare pervaso dal senso dell'intervento di Dio anche in vicende più particolari, potremmo dire persino minute.

Ad esempio nel 378 l'esercito romano viene sconfitto disastrosamente dai Goti ad Adrianopoli; dopo la sconfitta non fu neppure trovato il cadavere dell'imperatore romano Valente - il nome non ha attinenza con le qualità dell'uomo -, e si temette persino una grave perdita territoriale. Valente era cristiano, e dunque ci sarebbero state ragioni per dubitare della pronuncia così perentoria di Dio; ebbene Ambrogio trasse comunque da questa sconfitta un altro elemento a prova del favore divino, perché Valente era di fede ariana. Dunque Dio non si pronunciava più solo nel confronto tra paganesimo e cristianesimo, ma entrava persino nelle beghe teologiche dei cristiani stessi. Purtroppo anche in queste terreno le certezze sono fragili e temporanee: uno storico ariano, Filostorgio, scrivendo qualche anno dopo la Città di Dio una sua Storia della Chiesa attribuirà le rovine evidenti dell'impero al fatto che lo stesso ha abbandonato la fede nell'accezione ariana [26].

Il che sembra confermare che costringere Dio ad intervenire direttamente nella storia è quanto meno aleatorio e compromettente. Non ci si limita soltanto a questo; si scende a quisquilie ancora maggiori: nella sua contesa con Ambrogio il pagano Simmaco considererà elemento a favore degli dei tradizionali il fatto che l'abbandono del loro culto ha determinato una carestia; quanto rilievo venisse dato a questo fatto è attestato dalla replica di Ambrogio, che metterà in rilievo che l'anno successivo fu al contrario un anno di raccolto abbondante [27].

Un altro evento dimostra questo continuo gioco dell'implicazione divina: nel 391 ad Alessandria verrà distrutto un complesso di edifici sacri, il Serapeo, che costituiva uno dei templi maggiori del mondo antico; i pagani ne trassero cattivi auspici per la piena del Nilo, fondamentale per i raccolti in Egitto, ma anche i cristiani attesero la piena con grande inquietudine: una eventuale tracimazione insufficiente avrebbe dimostrato l'ira degli antichi dei per il sacrilegio commesso; fu quindi con un grande respiro di sollievo che i cristiani salutarono la consueta piena del Nilo, e fu motivo non piccolo di smarrimento per i pagani dover constatare l'inerzia della loro divinità. Un fatto è chiaro: Dio non si pronuncia, sono gli uomini che lo interpretano.

Ma il fatto di attribuire eventi storici all'azione di Dio ha effetti drammatici e pericolosi: esso rende più attuabili e giustificabili comportamenti criminali: perché, se Dio è con me, che cosa dovrò temere? Una vittoria politica o militare attribuita al proprio talento o alla fortuna tiene a freno, in un certo senso, la prepotenza del vincitore; ma se attribuisco il successo a Dio tutto è giustificato. La storia è piena di affermazione come "Dio lo vuole" che ha riempito le fosse di morti. Persino nella Germania nazista i soldati portavano la scritta "Gott mit uns", e penso che fino alla fine del 1942 questa affermazione era difficilmente contestabile; se pensiamo ai crimini del nazismo proviamo un senso di orrore per questo abuso di Dio.

Ma anche in epoche molto più vicine a noi è successo lo stesso fenomeno: il presidente degli Stati Uniti ha tirato in ballo Dio per la guerra in Iraq, quando le motivazioni di fondo erano molto più economiche e molto più pelose. Il Medioevo, ma anche l'inizio dell'Età moderna è stato interamente percorso nelle sue guerre, nella repressione degli eretici, nelle varie crociate da questa giustificazione; eppure sarebbe bastato leggere i vangeli, in quella pagina tragica, nell'imminenza della fine, in cui Cristo raccomanda di riporre la spada; perché quella, e solo quella, in questo caso specifico, è la sua parola; egli non vuole neppure essere difeso. E la sua parola non è equivoca. Vorrei chiudere questo lungo excursus notando un particolare che mi preme citare, ma che non posso approfondire: la Città di Dio si inserisce nel quadro di un dibattito quanto mai vivace e polifonico; purtroppo non ci è possibile seguire tutte le testimonianze, perché alcune, come succede spesso per i testi antichi, sono state interamente perse, ed altre ci sono giunte a frammenti. Mi limiterò ad un piccolo elenco per dare almeno l'idea di questa vivacità di dibattito: abbiamo già parlato di Ambrogio, di Simmaco, di Filostorgio.

Non sono i soli: all'inizio del V sec. il cristiano Rufino termina la sua Storia della Chiesa con la vittoria del Frigido [28]: è una esplicita affermazione del trionfo del cristianesimo, solo che l'opera è stata completata dopo la discesa in Italia di Alarico, che Rufino volutamente ignora; quasi negli stessi anni Eunapio, che possiamo leggere soltanto nei frammenti rimastici, difende a spada tratta il paganesimo alla luce della debolezza che l'impero sta dimostrando di fronte ai barbari [29]; si tratta, è evidente, di una risposta indiretta ai cristiani, che non dovrebbero vantarsi dello Stato di cui costituiscono il ceto dirigente; tuttavia un altro storico pagano, Olimpiodoro di Tebe, la città egiziana, la cui opera viene divulgata in contemporanea alla Città di Dio, non aderirà a questa interpretazione [30]: per lui la rovina è data dalle invasioni dei barbari, cui lo Stato romano non sa opporre una politica di integrazione, come aveva saputo fare nei secoli precedenti; un'altro storico cristiano, Sozomeno, qualche decennio più tardi, sottolinea che la condizione comatosa dello Stato non può essere rimproverata ai cristiani [31]

Dopo il sacco di Roma circolarono libelli anonimi contro i cristiani, che attribuivano al prevalere delle loro pratiche contro gli antichi culti pagani la rovina dell'impero; l'opera Historia adversus paganos di Orosio, è una replica indiretta a questi libelli. Come vedete è un quadro estremamente mosso, frazionato, di reciproche accuse e difese, che attesta quanto la rovina dell'impero sia stata percepita nelle coscienze e nella cultura dell'epoca, quando ci sia dilaniati per interpretarla. In questo senso Agostino supera gli angusti limiti del dibattito: egli esclude il successo mondano come interpretazione dell'azione divina. Dio è altrove, al di sopra ed al di fuori. Una interpretazione, la sua, molto moderna; peccato che sia rimasta una parola molto letta, ma non operante, nei secoli successivi.

 

Conferenza tenuta a Cassago il 1.09.2010 nell'ambito della Settimana agostiniana; il testo è stato completamente rivisto - la relazione, ovviamente, era molto più breve -, e sono state aggiunte le note.

 

 

 

Note

 

(1) - Per il carattere discorsivo e generico della relazione non indico i manuali cui ho fatto riferimento; mi limito a precisazioni concernenti i testi antichi che ho utilizzato, ad autori moderni esplicitamente citati, ad argomenti che mi sono parsi significativi. Per quanto riguarda i dati su autori cristiani mi sono basato su M. Simonetti, La letteratura cristiana antica greca e latina, Firenze-Milano 1969. Per i passi biblici hi riportato le traduzioni da La Bibbia concordata, Milano 1968. Si è cercato di far riferimento a testi critici e, per quanto possibile, in italiano; se, tuttavia, le edizioni straniere citate sono così numerose ciò deriva dal fatto doloroso che non esistono edizioni affidabili nella nostra lingua. Le traduzioni, dove il traduttore non è espressamente citato, sono a cura del relatore

(2) - Augustinus, De civitate dei, edd. B. Dombart - A. Kalb, Teubner, Stutgardiae 1981

(3) - Augustinus, Contra Faustum Manichaeum, è stata redatta in 33 libri, nel periodo 397-400; id., De Trinitate, in 15 libri, nel lungo arco di tempo tra il 399 ed il 419

(4) - Orosio, Le storie contro i pagani (a cura di A. Lippold), voll. I-II, Fondazione Valla, Milano 1976

(5) - E. Gibbon, History of the decline and the fall of the Roman Empire, voll. I-IV, 1776-88. Traduz. ital: Storia della decadenza e caduta dell'impero romano, voll. I-III, Torino 1967. Si tratta di uno dei capolavori storiografici dell'Illuminismo; la partigianeria è a suo merito, non a suo detrimento.

(6) - Celso, Contro i cristiani, Milano 1989. La polemica è sviluppata soprattutto nel libro VIII. Si tenga presente che il testo di Celso è stato ricostruito dalla confutazione che ne fece il cristiano Origine, Contra Celsum, Sources chrétiennes 132, 136, 147, 150, 227, Paris

(7) - Rutilio Namaziano, De reditu suo (a cura di E. Castorina), Firenze 1967. L'opera viene datata tra il 415 ed il 417

(8) - Salvien, Du gouvernement de Dieu (ed. G. Lagarrigue), Sourc. Chrét. 220, Paris 1975

(9) - M. Yourcenar, Mémoires d'Hadrien, Paris 1974; la citaz. a pg. 125

(10) - Si tratta dei triumviri monetales, detti anche auro, argento, aere flando, feriundo

(11) - Questa materia è stata oggetto di un libro specifico: C. Ando, Imperial ideology and provincial loyalty in the Roman empire, Berkeley 2000. Poiché ne sono venuto a conoscenza successivamente ed inoltre conferma, naturalmente argomentandole molto meglio, le mie conclusioni non ho modificato il testo della relazione

(12) - Atti degli Apostoli, 22, 23-30

(13) - Atti degli Apostoli 19, 25-40

(14) - K. M. Girardet, Kaiser Constantius II als "Episcopus episcoporum" und das Herrscherbild des kirchlichen Widerstandes (Ossius von Corduba und Lucifer von Calaris), Historia 26, 1977, pg. 95-128. L'indicazione a pg. 109

(15) - Hilarius Pictaviensis, Collectanea Antiariana Parisina (Fragmenta Historica), ed. A. Feder, CSEL 65, Vindobonae 1916; la frase a pg. 101

(16) - I testi dei due Credi, in originale e traduzione, in Il Cristo. Testi teologici e spirituali in lingua greca dal IV al VII secolo, vol. II, a cura di M. Simonetti, Fondazione Valla, Milano, 1986, rispettivamente a pg. 100-01; 304-5

(17) - La lettera di Ossio è trasmessa solo in Athanasius, Historia Arianorum 44. Traduz. e commento in H. Rahner, Chiesa e struttura politica nel cristianesimo primitivo, Milano 1990, a pg. 103-5

(18) - A Diognète (ed. H.-I. Marrou), Sources chrétiennes 33 bis, Paris 1996 (2)

(19) - Plinio il Giovane, Carteggio con Traiano, Milano 1994; si tratta delle famose lettere n. 96 e 97 a pg. 886-99

(20) - Tertulliano, De corona (a cura di F. Ruggero), Milano 1992

(21) - La vicenda in Atti e passioni dei martiri, Fondazione Valla, Milano 1987, pg. 62-95, traduz. di Silvia Ronchey. In Eusebio, Historia Ecclesiastica V 1, 3 - V 2, 8

(22) - Si tratta del canone 60, su cui Dictionnaire d'histoire et de géographie ecclésiastiques, vol. XV, 1963, colonna 336

(23) - E. Schwartz, Kaiser Konstantin und die christliche Kirche, Leipzig und Berlin 19362, pg. 42

(24) - Tertulliano, Apologetico, Milano 1984, L 13

(25) - Si tratta dell'editto contenuto nel Codex Theodosianus XVI, 1, 2 del 27.2.380, ed. T. Mommsen - P.M. Meyer, Berlin 1905

(26) - Philostorgius, Historia Ecclesiastica (ed. J. Bidez - F. Winkelmann), Berlin 19722; la sua opera è posteriore al 425, l'ultimo anno cui giunge il racconto

(27) - Gli scambi epistolari in Simmaco - Ambrogio, L'altare della Vittoria, Palermo 1991. La contesa si verificò nel 384

(28) - Rufinus, Historia Ecclesiastica, appendix ad Eusebius Caesariensis, Historia Ecclesiastica (ed. E. Schwartz), Berlin 1909

(29) - Fragmenta Historicorum Graecorum (ed. C. e O. Muller - V. Langlois), voll. 5, Parisiis 1861-83; i suoi frammenti nel vol. IV, pg. 11 sg.. A lui ha largamente attinto uno scrittore che ci è pervenuto quasi integralmente : Zosimo, Storia Nuova (a cura di F. Conca), Milano 2007

(30) - Vd. i Fragmenta Hist. graec. di nt. 28, vol. IV, pg. 58 sg

(31) - Sozomenus, Historia Ecclesiastica (ed. J. Bidez - G. C. Hansen), Berlin 1995