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LA PASTORALE DI SANT' AGOSTINO SULLA FAMIGLIA E IL MATRIMONIO

Immagine di sant'Agostino allo scrittoio di Sandro Botticelli nella chiesa di Ognissanti e Firenze

sant'Agostino allo scrittoio di Sandro Botticelli

 

 

 

SULLA DIGNITA' DEL MATRIMONIO

LA PASTORALE DI SANT'AGOSTINO SULLA FAMIGLIA E IL MATRIMONIO

di Giuseppe Redaelli

(c) 2012 Giuseppe Redaelli - Associazione Storico-culturale Sant'Agostino, Cassago Brianza (LC)

 

 

 

INTRODUZIONE

 

L'eresia di Gioviniano, che equiparava il merito acquisito dalle sante vergini alla castità matrimoniale, si affermò a tal punto nella città di Roma che si diceva avesse indotto alle nozze anche alcune religiose, sulla cui pudicizia non era stato avanzato in precedenza alcun dubbio. Esercitava su di loro tale pressione argomentando soprattutto in questo modo: " Sei dunque migliore di Sara, migliore di Susanna o di Anna? ".

E ricordava tutte le altre donne maggiormente portate ad esempio dalla Scrittura alle quali esse non avrebbero potuto pretendere di essere superiori od anche eguali. In questo modo, ricordando e paragonando i padri coniugati, distruggeva anche la sacralità del celibato di uomini autenticamente santi. La Santa Chiesa del luogo fece opposizione a questa mostruosità con grande forza e fedeltà. Queste sue argomentazioni, che nessuno osava proporre pubblicamente, sopravvissero tuttavia in certe discussioni appena sussurrate. Ho dovuto allora, con l'aiuto che il Signore mi concedeva, porre rimedio a tali veleni e alla loro occulta diffusione. E a maggior ragione ho dovuto farlo in quanto si pretendeva che a Gioviniano fosse possibile opporsi non lodando, ma solo condannando il matrimonio. Per tali ragioni ho scritto un libro intitolato: La dignità del matrimonio. In esso però, visto che il tema dell'opera sembra riguardare l'unione di corpi mortali, non ho affrontato, rimandandolo ad altra occasione, il problema relativo alla propagazione della prole prima che gli uomini meritassero la morte col peccato. Trattasi di una questione importante, ma penso di averne sufficientemente trattato in libri successivi. [1]

In un passo ho detto: Ciò che è il cibo per la conservazione del corpo, lo è l'unione sessuale per la conservazione del genere umano. In entrambi i casi interviene un piacere carnale, ma esso, ridotto entro i suoi limiti e indirizzato, grazie al freno della temperanza, verso il suo uso naturale, non può essere passione. [2]

S'è detto questo perché non è passione il buono e corretto uso della passione. Come è male un cattivo uso dei beni, così è bene un buon uso dei mali. Di questo argomento ho trattato più approfonditamente altrove, [3] soprattutto in polemica con i nuovi eretici seguaci di Pelagio.

Agostino, Ritrattazioni, 22, 1-2.

 

Verso la fine della sua vita, ritornando con il pensiero alle opere scritte in quarant' anni di attività intellettuale, Agostino volle legare in modo esplicito il suo scritto sul significato del matrimonio, il De bono coniugali, al contesto storico entro cui si inseriva e da cui era originato. Questa breve nota dimostra quale sia la natura profonda dell' opera agostiniana: il filosofo di Ippona è stato detto, più e più volte, il filosofo del dialogo - non solo perché egli scelse, a imitazione di Cicerone e, forse, di Platone, proprio la forma del dialogo per dare inizio alla sua attività filosofica; ma anche e soprattutto perché il suo pensiero si sviluppa sempre nell' incontro e nel dialogo con i grandi dibattiti teologici, filosofici, religiosi dell'epoca in cui egli vive. Ogni opera di Agostino, così, intreccia un dialogo diretto o indiretto con quella di un altro pensatore, religioso, teologo a lui contemporaneo, e i suoi punti sono messi in moto dall' argomentare dell'interlocutore - anzi, spesso quest'ultimo è direttamente citato nel testo, o le sue parole vi compaiono, seguite subito dalla risposta del vescovo d'Ippona [4]. Autonoma, l'opera dice comunque molto, ma acquista il suo senso più pieno e profondo se inserita prima nel suo contesto. Anzi, a volte, presa in modo singolo, l' opera sembra tronca, incompleta, eccessiva in una direzione a scapito delle molte altre dimensioni della questione che affronta. Se, però, la si prende nella sua relazione con il contesto immediato, l' opera acquista una maggiore profondità, un più intenso significato - e le sue affermazioni possono allora apparire come risposte all'interno di un dialogo in cui, nel continuo movimento del domandare e del rispondere, prende forma e vita la verità. Nel caso del trattato Sulla dignità del matrimonio, il discorso di Agostino si pone all'interno del dibattito generato dalle affermazioni del monaco Gioviniano, che a Roma, nel centro dell' Impero, promuove, con la sua predicazione, una forma di cristianesimo più lineare, priva di quelle distinzioni gerarchiche relative ai diversi livelli della vita ascetica. Pur se condannato nel cuore stesso della Chiesa e dell' Impero - a Milano da Ambrogio e a Roma dal papa Siricio - Gioviniano riceve una risposta anche dai confini esterni del mondo romano: da Girolamo, che vive un' esistenza ritirata a Betlemme, e Agostino, vescovo d'Ippona.

Accanto al dialogo - anzi una dimensione più profonda del dialogo è la continua conversazione che Agostino intrattiene con se stesso. Nei Soliloqui, scritto composto durante l' otium Cassiciaco, Agostino, interrogato dalla Ragione, afferma: "Desidero avere scienza di Dio e dell'anima" [5]. Tutta la filosofia di Agostino, ogni sua riflessione, si presenta come un continuo interrogarsi su Dio e sull'anima - ma questo interrogarsi è rivolto prima di tutto all'uomo Agostino, alla sua storia, alla sua esperienza, al suo vissuto; e poi alle sue incertezze, ai suoi dubbi, alle sue aspirazioni e ai suoi sogni. Quando si interroga su un problema, su una questione teologica o filosofica, Agostino sembra voler per prima cosa trovare una risposta per se stesso, dare un senso alla sua personale esperienza. Così, quando riflette sul significato e sulla presenza di Dio nella storia, Agostino vuole certo rispondere a quanti, di fronte al sacco di Roma perpetrato dai barbari di Alarico, ne accusano i cristiani; ma prima ancora si sente, in quello scritto, l' esigenza del romano e del cristiano, che vuole rendere ragione a se stesso del senso della scomparsa di un mondo, della cui cultura è stato per lungo tempo rappresentante eminente. E quando riflette sulla natura della Trinità, certo Agostino vuole insegnare ai suoi fedeli la via giusta per avvicinarsi al mistero di Dio, e insieme vuole offrire la sua risposta al dibattito in corso sulla questione trinitaria; ma prima ancora si avverte lo sforzo di una riflessione che si spinge fino al limite estremo della ragione, alla ricerca di un senso da attribuire a Dio - alla ricerca della comprensione profonda, per quanto solo analogica, del mistero della Trinità. Così, anche nel trattato Sulla dignità del matrimonio si avverte, accanto alla risposta all'eresia di Gioviniano, la riflessione di un uomo che cerca di dare un senso alla sua esperienza personale - un'esperienza, come quella del concubinaggio e del morso della concupiscenza, che a più riprese sarà possibile avvertire tra le pieghe del trattato.

 

Il contesto biblico: verginità e matrimonio tra Antico e Nuovo Testamento.

Il tema dell'unione tra uomo e donna è affrontato fin dal primo libro dell'Antico Testamento attraverso due racconti che, secondo linee e tradizioni narrative differenti, illustrano il senso della coppia umana all'interno dell' opera di creazione. Nel primo racconto (Gen 1:26-31), la coppia umana è creata a coronamento dell'opera dei sei giorni: Dio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra".

 

E Dio creò l'uomo a sua immagine;

a immagine di Dio lo creò:

maschio e femmina li creò.

Dio li benedisse e Dio disse loro:

"Siate fecondi e moltiplicatevi,

riempite la terra e soggiogatela,

dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo

e su ogni essere vivente che striscia sulla terra".

 

Dio disse: "Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutti gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde". E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno.

 

Il brano, divisibile in tre chiare sezioni, lega subito l' essere umano a una serie di proprietà, di caratteristiche che lo definiscono nel momento stesso in cui si affaccia, per la prima volta, sul mondo.

Nella prima sezione l'uomo viene creato a "immagine" e "somiglianza" di Dio - e questa affermazione, di per sé problematica, originerà, come si dirà in seguito, una serie di interessanti riflessioni presso i Padri della Chiesa. Gli viene, inoltre, associato il dominio sugli altri esseri viventi, secondo un' enumerazione per coppie di opposti (i pesci del mare e gli uccelli del cielo; il bestiame [addomesticato] e gli animali selvatici) che viene poi chiusa dall' elemento singolo dei "rettili che strisciano", quasi una prefigurazione dell'avversario che i progenitori incontreranno presto nella narrazione. La natura coordinata delle parti dell' affermazione divina, rinvenibile anche nel testo ebraico [6], sembra legare l'immagine e la somiglianza al dominio - quasi che "essere a immagine di Dio" e "assomigliare a Dio" implichi l'assumere una traccia, un riflesso della sua maestà e potenza.

La sezione successiva, per mezzo di una serie di anadiplosi e giochi di ripetizione, mostra come l'essere umano sia, fin da subito, la coppia umana, a cui Dio rivolge il comandamento della fecondità: "Siate fecondi e moltiplicatevi" .

La fecondità diventa, allora, il senso dell'unione sessuale della coppia umana. A questo segue l'ordine di esercitare il dominio sul resto del creato - nella versione greca dei Settanta, tale dominio è prerogativa di entrambi gli esseri umani, maschio e femmina.

Il brano si conclude con il giudizio divino su quanto creato: "era cosa molto buona". Nel testo biblico, la coppia umana, nella sua fisicità, nella sua fecondità, condivide la bontà del resto della creazione.

Il secondo racconto della creazione dell'uomo si trova al capitolo secondo della Genesi:

E il Signore Dio disse: "Non è bene che l'uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda". Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l'uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse:

"Questa volta

è osso dalle mie ossa,

carne dalla mia carne.

La si chiamerà donna,

perché dall'uomo è stata tolta".

Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un'unica carne. [7]

In questo racconto Dio esprime in modo chiaro la propria intenzione: in un creato che è, in quanto opera di Dio, bene, la solitudine dell' uomo manca di tale qualità. In questo senso, dunque, non il singolo isolato, ma la coppia umana, come unità composta di due elementi, è bene, è cosa buona. L' uomo necessita di aiuto, e questo suo bisogno, questa sua mancanza lo definisce incompleto. Nella compagna che Dio crea per lui e da lui, Adamo può trovare la propria completezza. Per trovare questa completezza, tuttavia, è prima necessario sperimentare la solitudine: ecco allora che l' uomo abbandona i genitori per ritrovare l'unità con la donna a lui complementare - sua moglie. L'uso della parola moglie inserisce questa asserzione ontologica nella sfera del matrimonio; l' unione sessuale, che uomo e donna vi sperimentano, è una forma di ritrovata completezza, un ricolmare e annullare l'assenza.

Che il corpo umano giochi, in questi primi capitoli della Genesi, un ruolo fondamentale, si nota dal versetto 25: "Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, e non provavano vergogna" . L'unione, di cui qui si parla, è anche unione fisica, unione sessuale; la fisicità dei progenitori, ma anche l'assenza di barriere e di nascondimento, la completa apertura verso l' altro, verso il mondo e verso Dio, non sono per loro causa di vergogna. Questa apparirà, invece, dopo il peccato di disubbidienza: "Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture" [8]. La punizione divina per il peccato porta con sé la disarmonia con il mondo naturale, le fatiche del lavoro, il dolore del parto e la schiavitù nei confronti del desiderio: Dio, infatti, alla donna disse:

"Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà". All'uomo disse: "Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato: "Non devi mangiarne", maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!" [9].

Nonostante la Caduta, nonostante il nuovo stato in cui gli esseri umani si trovano proiettati, la fecondità resta per loro fonte di profonda, incontenibile gioia: quando partorisce per la prima volta, Eva esclama: " Ho acquistato un uomo grazie al Signore" [10]; e, dopo il lutto per la perdita dei due figli, alla nascita di Set Adamo gioisce: "Perché Dio mi ha concesso un'altra discendenza al posto di Abele, poiché Caino l'ha ucciso" [11]. Allo stesso modo, la fecondità resta uno dei temi dominanti del libro della Genesi, che può essere letto come la storia di una famiglia di famiglie, e della sua fecondità: la ricerca della discendenza, la ricerca della sposa; il tradimento, lo stupro e la vendetta; la seduzione e il rifiuto della ricerca del solo piacere, nella negazione della fecondità; e la grande narrazione degli anni di abbondanza e di carestia [12], verso la conclusione del testo, può essere emblematica di tutte le vicende che vi sono descritte. Giuseppe, che da schiavo aveva rifiutato l' unione sterile con la sposa del suo padrone, ora, a capo di tutto l'Egitto, dalla legittima sposa ottiene due figli - e chiama il secondo Efraim "perché - disse - Dio mi ha reso fecondo nella terra della mia afflizione" [13].

Dopo la caduta, tuttavia, il matrimonio non aderisce più perfettamente alla forma in cui Dio l'ha creato nei progenitori. Il desiderio di avere una grande discendenza, che sia continuatrice del nome e del sangue del capostipite della stirpe, è preoccupazione continua dei personaggi biblici - e si avverte anche nell'insistenza con cui, nel corso della narrazione, si annotano le genealogie, le discendenze, e la disperazione di chi, come Abramo e Sara, o come Lot e le sue figlie, non riesce a generare un erede. Questo assillo porta con sé costumi sessuali e usi matrimoniali più morbidi di quelli che poi saranno in vigore all' epoca della predicazione di Gesù: concubinato, cessione della serva perché generi al posto della padrona, incesto, poligamia percorrono di continuo la narrazione delle vicende di Abramo e della sua discendenza.

La legge dell'alleanza, che Dio dona a Mosè sul Sinai, ammette il divorzio: "Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa" [14]. Nonostante un'evoluzione verso un ideale più rigido, che escluda il divorzio, il giudaismo contemporaneo del Nuovo Testamento ammetterà ancora la possibilità del divorzio e i dottori discuteranno sulle cause che lo possono legittimare (cfr. Mt 19, 3) [15].

La stessa legge punisce severamente l'adulterio: se infatti il matrimonio cementa e ordina la società, e insieme garantisce una discendenza di nome e di sangue all' individuo, l'adulterio mette in dubbio la certezza della paternità e minaccia di sgretolare una struttura già fragile. Così l'adulterio può essere punito solo con la morte, che allontana il male da Israele - allontana cioè proprio il rischio della disgregazione sociale e quello di veder negata la promessa di immortalità insita nella propria prole. Recita allora il Deuteronomia: " Quando un uomo verrà trovato a giacere con una donna maritata, tutti e due dovranno morire: l'uomo che è giaciuto con la donna e la donna" [16]; e rincalza il Levitico: "Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l'adultero e l'adultera dovranno esser messi a morte" [17]. Un esempio dell'attuazione letterale di questa norma, che si fa risalire, nella pratica, agli stessi Patriarchi, si ha nel libro della Genesi, all'interno del racconto dell'astuzia di Tamar: "Circa tre mesi dopo, fu portata a Giuda questa notizia: "Tamar, tua nuora, si è prostituita e anzi è incinta a causa delle sue prostituzioni". Giuda disse: "Conducetela fuori e sia bruciata!"" [18].

La stessa vicenda di Tamar, tuttavia, dimostra anche come la legge che puniva gli adulteri fosse rivolta soprattutto a tutelare la discendenza patrilineare: nella pratica, come dimostra l'esempio di Giuda, l'uomo ha sempre il diritto di unirsi a donne libere o a prostitute. Questa prassi è però denunciata dai profeti [19], come Ezechiele, che tuona:

se uno ha generato un figlio violento e sanguinario che commette azioni inique, mentre egli non le commette, e questo figlio mangia sui monti, disonora la donna del prossimo, opprime il povero e l'indigente, commette rapine, non restituisce il pegno, volge gli occhi agli idoli, compie azioni abominevoli, presta a usura ed esige gli interessi, questo figlio non vivrà; poiché ha commesso azioni abominevoli, costui morirà e dovrà a se stesso la propria morte. [20]

Neppure i re sono immuni dalla denuncia: il profeta Natan, per esempio, affronta il re Davide e apertamente lo accusa:

Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Uria l'Ittita, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti. Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Uria l'Ittita". Così dice il Signore: "Ecco, io sto per suscitare contro di te il male dalla tua stessa casa; prenderò le tue mogli sotto i tuoi occhi per darle a un altro, che giacerà con loro alla luce di questo sole. Poiché tu l'hai fatto in segreto, ma io farò questo davanti a tutto Israele e alla luce del sole. [21]

La letteratura sapienziale, da parte sua, ammonisce i giovani che stiano lontani dalle lusinghe della "straniera":

le labbra di una straniera stillano miele,

e più viscida dell'olio è la sua bocca;

ma alla fine ella è amara come assenzio,

pungente come spada a doppio taglio.

I suoi piedi scendono verso la morte,

i suoi passi conducono al regno dei morti,

perché ella non bada alla via della vita,

i suoi sentieri si smarriscono e non se ne rende conto [22].

[...]

Mentre dalla finestra della mia casa

stavo osservando dietro le inferriate,

ecco, io vidi dei giovani inesperti,

e tra loro scorsi un adolescente dissennato.

Passava per la piazza, rasente all'angolo,

e s'incamminava verso la casa di lei,

all'imbrunire, al declinare del giorno,

all'apparire della notte e del buio.

Ed ecco, gli si fa incontro una donna

in vesti di prostituta, che intende sedurlo.

Ella è irrequieta e insolente,

non sa tenere i piedi in casa sua.

Ora è per la strada, ora per le piazze,

ad ogni angolo sta in agguato.

Lo afferra, lo bacia

e con sfacciataggine gli dice:

"Dovevo offrire sacrifici di comunione:

oggi ho sciolto i miei voti;

per questo sono uscita incontro a te

desiderosa di vederti, e ti ho trovato.

Ho messo coperte soffici sul mio letto,

lenzuola ricamate di lino d'Egitto;

ho profumato il mio giaciglio di mirra,

di àloe e di cinnamòmo.

Vieni, inebriamoci d'amore fino al mattino,

godiamoci insieme amorosi piaceri,

poiché mio marito non è in casa,

è partito per un lungo viaggio,

ha portato con sé il sacchetto del denaro,

tornerà a casa il giorno del plenilunio".

Lo lusinga con tante moine,

lo seduce con labbra allettanti;

egli incauto la segue,

come un bue condotto al macello,

come cervo adescato con un laccio,

finché una freccia non gli trafigge il fegato,

come un uccello che si precipita nella rete

e non sa che la sua vita è in pericolo.

Ora, figli, ascoltatemi

e fate attenzione alle parole della mia bocca.

Il tuo cuore non si volga verso le sue vie,

non vagare per i suoi sentieri,

perché molti ne ha fatti cadere trafitti

ed erano vigorose tutte le sue vittime.

Strada del regno dei morti è la sua casa,

che scende nelle dimore della morte [23].

 

Il rifiuto delle nozze o l'astensione volontaria e perpetua da attività sessuali (la ricerca di castità e verginità) erano pratiche inconsuete nel giudaismo antico. Ricorda il biblista Daniel Harrington che:

Alcuni pronunciamenti rabbinici sono molto forti al riguardo: "Rabbi Eliezer ha detto: ‘Un Giudeo che non ha una moglie non è un uomo' (bYebam. 63°). Ma nel primo secolo gli Esseni e i Terapeuti, appartenenti a sette giudaiche che conducevano una vita "monastica" , praticavano il celibato. Analogamente, non risulta che Giovanni Battista, Gesù e Paolo fossero sposati. L'enfasi rabbinica sul dovere del matrimonio non deve essere vista retrospettivamente valida per tutte le forme di giudaismo del primo secolo [24].

Centrale nell'Antico Testamento, il tema del matrimonio si ripresenta poi, in forma insieme tradizionale e originale, nel Nuovo Testamento. Due dei quattro vangeli canonici inseriscono infatti, all'inizio della loro narrazione, una drammatica dinamica familiare. Matteo, focalizzando la vicenda sulla figura di Giuseppe, mostra il suo personaggio alle prese con la difficile scelta di seguire le leggi matrimoniali del suo popolo, o agire in base al sentimento di tenerezza che prova per la futura sposa; è poi la manifestazione di Dio, nella forma dell'angelo, che in sogno lo guida verso una scelta che stravolge la prospettiva ebraica veterotestamentaria [25]. Luca, invece, tratteggia le incertezze della futura sposa, ancora vergine, alle prese con la rivelazione della sua futura gravidanza illegittima. Anche in questo caso, la risposta di Maria rappresenta l'accettazione assoluta della volontà divina, di contro alle usanze e alle meschinità umane [26]. In questo modo, fin dai suoi inizi, il testo evangelico indica la nuova direzione entro cui verranno ripensati il matrimonio, la sessualità e la fecondità della coppia.

Lo stesso Gesù è emblema di questo ripensamento: benché poco si sappia della sua vita in famiglia, i brevi episodi del vangelo secondo Luca [27] fanno intravedere una famiglia regolare, radicata nel rispetto delle usanze di Israele. D'altro canto, tutta la predicazione di Gesù insiste sul suo spezzare i vincoli e le forme della famiglia tradizionale, fino a promuovere una forma di sessualità (negata) addirittura superiore al matrimonio: " Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre" [28]. Di entrambe queste linee si farà portavoce la tradizione successiva.

La legge mosaica è al centro della riscrittura, da parte di Gesù, della norma matrimoniale:

Terminati questi discorsi, Gesù lasciò la Galilea e andò nella regione della Giudea, al di là del Giordano. Molta gente lo seguì e là egli li guarì. Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: "È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?". Egli rispose: "Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina e disse: Per questo l'uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne? Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l'uomo non divida quello che Dio ha congiunto". Gli domandarono: "Perché allora Mosè ha ordinato di darle l'atto di ripudio e di ripudiarla?". Rispose loro: "Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all'inizio però non fu così. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un'altra, commette adulterio" [29].

La disposizione dell'episodio, che segue a una guarigione collettiva, è pregna di significato: così come ha guarito il male che affligge il suo popolo, così ora Gesù si appresta a guarire, perfezionandola, la legge. Altrettanto significativo è che siano i farisei a interpellarlo - gli antagonisti, che, nel ritratto che ne danno i vangeli, seguono i dettami della Torah alla lettera, dimenticandone lo spirito. Anche il modo in cui qui interrogano Gesù li rivela nel loro ruolo: il loro domandare non è spinto da genuina sete di sapere, ma dal desiderio di mettere alla prova - non cercano la comprensione della legge, ma la sconfitta dell'avversario. La stessa domanda rivela l'intenzione dell'interlocutore: il qualsiasi motivo la proietta infatti al di fuori della norma della legge matrimoniale e della pratica interpretativa farisaica, che si costruisce intorno a specifiche particolarità nel cercare il senso della norma. A questo proposito, Daniel Harrington, collegando il passo al suo omologo in Mc 10, 2, commenta che aggiungendo questa domanda [...] Matteo porta la questione sollevata dai farisei da una domanda sulla legalità del divorzio a una domanda circa i motivi che giustificano il divorzio [...] e riservando la possibilità di un' eccezione in 19, 9 ("se non in caso di unione illegittima") Matteo ha coinvolto anche Gesù nel dibattito del primo secolo sulla legittimità del divorzio [...] Il problema sorge a riguardo del motivo del divorzio (" perché egli ha trovato in lei qualcosa di vergognoso") [che gli studenti del]la scuola di Shammai [...] interpretavano come condotta sessualmente riprovevole [...] L'insegnamento di Gesù sul divorzio è ancora più stretto di quello di Shammai (nessun genere di divorzio) , forse in linea con gli Esseni di Qumran ([...] ma l'interpretazione di questi testi è controversa) [30].

La risposta di Gesù richiama i due racconti della creazione nei primi due capitoli della Genesi, unendoli e dandone un'interpretazione unitaria. Il comando successivo emerge proprio da questa interpretazione, ma finisce per stravolgere la legge mosaica: il divieto assoluto del divorzio, infatti, si pone direttamente contro la casistica discussa nella legge. Quest' ultima viene ricondotta alla durezza del cuore dell'interlocutore e, per estensione, dell'umanità fallibile e peccatrice che questi rappresenta. Quello che qui si ha, però, è un rovesciamento di prospettiva: mentre per i farisei il passo di Deuteronomio 24, 1 costituisce una mitzvah, una norma di legge vincolante, per Gesù è solo una deroga concessa alla loro incapacità di comprendere e sentire [31]. Come tale, la deroga contravviene, secondo Gesù, all'usanza dei tempi antichi.

La reazione dei discepoli, se da un lato rende conto della durezza della norma evangelica, permette soprattutto di indicare una norma nuova, che, reinterpretando una pratica diffusa ai tempi di Cristo e radicandola nella visione escatologica di Matteo, ne definisce la superiorità:

Gli dissero i suoi discepoli: "Se questa è la situazione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi". Egli rispose loro: "Non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Infatti vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca" [32].

Si tratta del tanto dibattuto detto degli eunuchi: nella sua risposta all'osservazione, a dir la verità un poco insulsa e pavida, dei discepoli, Gesù delinea tre categorie di "eunuchi": alcuni, che sono tali dalla nascita - e il riferimento al grembo materno attribuisce la castità, in certo qual modo, al loro stesso essere; altri lo sono per la violenza degli esseri umani; ma il terzo gruppo presenta la giusta motivazione per il celibato: questi individui rinunciano alle nozze e scelgono la castità " per il regno dei cieli". La formula con cui il detto si conclude ne sottolinea l'enigmaticità: la verginità è una chiamata, un destino ricevuto da pochi; e solo pochi possono comprenderne il senso di dedizione assoluta, Attesa e apertura al regno dei cieli.

Nel prescrivere l'astensione dalla sessualità nell'ossequio alla legge, Gesù ridefinisce anche il significato della fecondità. Allorché "una donna dalla folla alzò la voce e gli disse: "Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!", Gesù le risponde: "Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!"" [33]. Gesù non nega che Maria sia felicissima - beata - per la sua maternità; ma la vera felicità sta piuttosto nell'ascoltare la parola di Dio e nell'osservarla - cioè nel metterla in pratica, così che porti frutto. In questo si trova anche il senso della parabola del seminatore [34], in cui, trovando un terreno favorevole, pronto ad accoglierlo, il seme della parola può germogliare e portare frutto. Proprio qui si trova, allora, il nuovo senso della fecondità: essere fecondi nell'ascolto e nella pratica della parola, secondo il progetto e l'insegnamento del profeta Gesù.

A Nazareth, quando la famiglia va a cercarlo, intimorita dalla sua predicazione, Gesù sembra disconoscere il legame di sangue: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?". Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: "Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre"" [35]. Mentre parla, Gesù tende la mano verso i suoi discepoli: con il gesto indica chi lo segue, e insieme lo chiama, lo invita a seguirlo. Così si sposta il significato di maternità, che non appartiene tanto a chi dà la vita fisica, quando a chi, seguendo il Cristo, accogliendo il suo messaggio e la sua predicazione, abbandonandosi a Dio, diventa madre di Cristo, portatore del Cristo nel mondo.

Dopo aver ricondotto l'unione tra uomo e donna alle sue radici profonde, quasi dimenticate dopo il peccato e la caduta, Gesù le dà anche un fondamento nuovo, che conferisce alle nozze il loro significato religioso nel regno di Dio [36]. Tale novità è documentata soprattutto a partire dagli scritti paolini. Come la Chiesa, infatti, è divenuta sposa di Cristo, così i cristiani devono seguirne l'esempio nelle loro nozze umane:

Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell'acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l'uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Così anche voi: ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito [37].

Il passo è pregno di significati e indicazioni, che verranno poi approfonditi dalla tradizione patristica successiva. Le nozze mistiche tra Cristo e la Chiesa diventano, qui, il modello per ogni unione umana. In questo modo si sancisce la sacralità del matrimonio che, da semplice istituto umano, seppur fissato da Dio, diventa immagine dell'unione di Dio con il suo popolo, nella promessa della risurrezione e della vita eterna. I ruoli dei coniugi sono differenziati. Caratteristica della moglie è la sottomissione, l'abbandonarsi docile alla guida del marito; e ruolo dell'uomo diventa non tanto la guida forte, come la premessa lascerebbe intendere, ma piuttosto il sacrificio estremo nell'amore. La corporeità diventa qui il termine di paragone dell'amore: il marito deve amare la moglie non come un individuo a lui esterno, ma come una parte di sé. Il corpo è la forma dell'esistenza dell'essere umano nel mondo [38] - ma allora amare la moglie come il proprio corpo significa amarla come la propria possibilità di esistere, di agire, di essere. Se, nella teologia paolina del corpo, " il corpo [...] esprime la persona" [39], allora la donna va amata come la propria persona, e quindi come se stesso. Nel richiamo all'interpretazione che, nei sinottici, Gesù darà dei comandamenti fondamentali della legge, Paolo sembra indicare nella donna il prossimo per eccellenza. Così alla fine il matrimonio conduce all'unione mistica tra uomo e donna, immagine dell'unione di Cristo con la Chiesa.

In questo rinnovamento del significato profondo, mistico del matrimonio, anche la sessualità dei coniugi risulta trasformata:

Riguardo a ciò che mi avete scritto, è cosa buona per l'uomo non toccare donna, ma, a motivo dei casi di immoralità, ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto; ugualmente anche la moglie al marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie. Non rifiutatevi l'un l'altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate insieme, perché Satana non vi tenti mediante la vostra incontinenza. Questo lo dico per condiscendenza, non per comando [40].

Se, da un lato, Paolo consiglia le nozze come soluzione a pratiche immorali, e non come istituto assolutamente necessario, al loro interno l'esercizio della sessualità non è solo lecito, ma dovuto. In questo passo, Paolo riprende il tema della sottomissione e del sacrificio, visto nell'epistola agli Efesini, e lo estende in modo identico a entrambi i coniugi. Ciascuno di essi ha, infatti, completo dominio sul corpo dell'altro, e la scelta delle nozze diventa la scelta di un dono di sé.

Se le nozze offrono una protezione dall'immoralità, la scelta migliore per un cristiano resta però, secondo Paolo, la verginità:

Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io [...] Riguardo alle vergini, non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia. Penso dunque che sia bene per l'uomo, a causa delle presenti difficoltà, rimanere così com'è. Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti. Sei libero da donna? Non andare a cercarla. Però se ti sposi non fai peccato; e se la giovane prende marito, non fa peccato. Tuttavia costoro avranno tribolazioni nella loro vita, e io vorrei risparmiarvele [41].

Il matrimonio non è dunque peccato - ma la scelta della verginità, per chi vi si senta chiamato, è migliore: risparmia infatti dalle tribolazioni che le nozze recano con sé. Come nel vangelo [42] la scelta di essere eunuchi era giustificata in vista " del regno dei cieli", così qui la verginità è consigliata "a causa delle presenti difficoltà".

Tra gli scritti paolini e i vangeli, di contro al comandamento biblico dell'unione di uomo e donna, appare un nuovo ideale di vita: la scelta della verginità. In attesa della parusia, che vedrà l'abolizione del matrimonio, al cristiano si aprono due possibili strutture esistenziali in vista del suo inserimento nella società: la verginità e il unione sponsale. Quest' ultimo, come si è visto, viene trasfigurato e colmato di senso attraverso il suo essere immagine delle nozze mistiche di Cristo e della Chiesa; la scelta della verginità, invece, rappresenta il compimento della grazia battesimale. Se, infatti, nel battesimo si diventa partecipi della morte e risurrezione di Cristo [43], così nella vita virginale ci si può pienamente abbandonare alla volontà di Dio:

Io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni [44].

Per concludere, "la frase di Cristo in Mt 19, 12 ("per il regno dei cieli") conferisce alla verginità la sua vera dimensione escatologica. Paolo ritiene che lo stato di verginità convenga " a motivo delle angustie presenti" (1 Cor 7, 26) e del tempo che diventa breve (7, 29). La condizione del matrimonio è legata al tempo presente, ma la figura di questo mondo passa (7, 31). Coloro che rimangono vergini sono distaccati da questo secolo. Come nella parabola (Mt 25, 1.6), essi attendono lo sposo e il regno dei cieli. Rivelazione costante della verginità della Chiesa, la loro vita è anche testimonianza della non appartenenza dei cristiani a questo mondo, un " segno" permanente della tensione escatologica della Chiesa, un'anticipazione dello stato di risurrezione in cui coloro che saranno stati giudicati degni di partecipare al mondo futuro saranno simili agli angeli, ai figli di Dio (Lc 20, 34 ss)" [45].

 

Agostino: l'esperienza del matrimonio e della sessualità

Nel matrimonio dei suoi genitori, Agostino legge i segni della corruzione dei rapporti umani provocata dal peccato, e insieme un esempio di come le nozze vadano - e non vadano - vissute. Monica, che incarna il modello della perfetta sposa cristiana, è serva volontaria del marito; per descrivere la madre nel suo ruolo di moglie, il vescovo di Ippona fa proprie le parole di Paolo nella prima Lettera a Timoteo: è stata " moglie di un solo marito, aveva ricambiato fedelmente i suoi genitori, aveva governato piamente la sua casa, possedeva la sua testimonianza nelle opere buone. Aveva nutrito i figli" [46]. Portatrice di pace nella sua casa, Monica si riappacifica con la suocera dopo che le chiacchiere della servitù hanno minato i loro rapporti [47] e, di fronte alle lamentele delle amiche nei confronti dei rispettivi mariti, le incoraggia ad attenersi ad uno stile più consono a una sposa. Patrizio, invece, è infedele alla moglie; uomo affettuoso ma iracondo, costituisce l'esempio dell'individuo dopo la caduta: naturalmente buono, ma vittima e artefice del disordine interiore del peccato [48].

Quando, giunto a Cartagine e libero dal controllo della famiglia, inizia a guadagnarsi di che vivere, Agostino si abbandona a una relazione con una donna. Non si tratta di un matrimonio, ma di una relazione monogama con una concubina, abbastanza comune tra i giovani romani dell'epoca:

Ancora in quegli anni tenevo con me una donna, non posseduta in nozze, come si dicono, legittime, ma scovata nel vagolare della mia passione dissennata; una sola, comunque, e a cui prestavo per di più la fedeltà di un marito. Sperimentai tuttavia di persona in questa unione l'enorme divario esistente fra l'assetto di un patto coniugale stabilito in vista della procreazione, e l'intesa di un amore libidinoso, ove pure la prole nasce, ma contro il desiderio dei genitori, sebbene imponga di amarla dopo nata [49].

La relazione intessuta dal giovane agostino è dunque rappresentata come il capovolgimento del matrimonio: se il fine di quest' ultimo, come si dirà più ampiamente in seguito, è la procreazione, nel concubinato egli si unisce solo per dare uno sfogo al desiderio, e i figli risultano solo un prodotto secondario, non intenzionale. L'unione non è sancita dalle nozze legittime, ma dal possesso ("tenevo con me"), per cui la compagna appare più come una proprietà che come una persona che volontariamente scelga e accetti l'unione, secondo il modello offerto dal matrimonio di Monica. Rievocando la propria gioventù, nelle Confessioni Agostino ricorda la forte presenza dell'amore, innato nell'essere umano: nella sua relazione giovanile, si sente mosso dall'amore per l'amore stesso, una spinta a cercare l'altro che egli avverte però in modo oscuro: " Non amavo ancora, ma amavo di amare [...] Amoroso d'amore, cercavo un oggetto da amare" [50]. Nel disordine che il peccato reca con sé, e che del peccato è conseguenza, amore e odio appaiono mescolati in una malattia dolorosa; e l'amore è mescolato e confuso con l'unione dei corpi nell'atto sessuale: "Amare ed essere amato mi riusciva più dolce se anche del corpo della persona amata potevo godere" [51].

Nelle Confessioni, questa confusione è avvertita come inquinamento: la fonte chiara dell'amicizia, che, in una vita arida, dovrebbe offrire la possibilità di placare la sete, è inquinata - è resa torbida dal disordine della concupiscenza, così che confonda e non permetta alla limpidezza dello sguardo di cogliere il fondo della relazione; e, impura (inquinata), l'acqua che dovrebbe dare la vita diventa veleno. La libido e la concupiscenza macchiano, offuscano il candore dell'amicizia. Il desiderio sessuale disordinato è rappresentato come una tenebra contrapposta al bianco immacolato e luminoso dell'amicizia disinteressata, del legame di anime che prescinde dal possesso del corpo dell'altro. Così il desiderio sessuale è inserito in una contrapposizione polare - ma tale polarità è mitigata dal contesto del pensiero agostiniano, con la sua condanna non del desiderio in sé, ma del disordine con cui, dopo la caduta, il desiderio si manifesta e si accompagna. A causa di questo disordine la relazione amorosa e sessuale è ricordata come una prigionia dolorosa ("vincolo" [52]), che priva l'individuo della libertà e lo getta nell'abiezione.

A seguito anche dell'approfondimento della meditazione sul libro della Genesi, più volte ripresa nel corso della vita del vescovo d'Ippona, nella grande sistemazione che il pensiero agostiniano riceve ne La città di Dio, queste esperienze si ampliano e raggiungono nuove profondità di senso, già implicite nel testo delle Confessioni. Del senso e del significato del matrimonio Agostino si occupa soprattutto nel libro quattordicesimo, in cui discute dei costumi degli esseri umani dopo il peccato e la caduta.

Il matrimonio, scrive Agostino, è un vincolo "con cui l'uno e l'altro sesso sono in intimo rapporto" e un dono istituito da Dio "dal principio, prima del peccato dell'uomo, creando il maschio e la femmina" con il fine della procreazione dei figli [53]. Secondo il modello paradisiaco, tra gli sposi dovrebbe vigere" un reciproco rapporto di fedeltà proveniente da un amore onesto, la concorde applicazione della mente e del corpo e l'osservanza senza difficoltà del comandamento" [54]. Ciò che regola il matrimonio ideale, quello possibile prima della caduta e che resta ora quale modello lontano di perfezione per i coniugi, è l'amore perfetto e ordinato. Ogni elemento riporta a esso e all'ordine: la concordia è, infatti, l'unione ordinata dei cuori, tesi insieme verso la stessa meta; l'osservanza del comandamento, senza impedimenti, è possibile all'interno dell'ordine del creato prima della caduta, in cui i progenitori si sottomettono ordinatamente alla volontà divina; e l'onestà è, nella sincera adesione della vita al volere divino e all'ordine creato, la virtù che rende libero l'individuo [55].

Con il peccato, tuttavia, si dissolve l'ordine che in precedenza aveva regolato l'esistenza armoniosa dei progenitori: se l'obbedienza al comando divino è il segno di una vita ordinata e finalizzata al Creatore, con la disobbedienza e il peccato i progenitori spezzano quell'ordine e si condannano alla morte spirituale e fisica, che segue a una vita sotto il giogo della concupiscenza [56]. Anche ora, però, l'unione tra i coniugi resta finalizzata alla procreazione:

La specie umana innocente, perduto dopo il peccato il controllo a cui obbediva tutto il corpo, la sperimentò, la controllò, se ne vergognò, la coprì. La benedizione, impartita alla coppia, che gli sposi prolificassero, aumentassero di numero e riempissero la terra, sebbene sia rimasta anche dopo che trasgredirono, fu data prima che trasgredissero affinché fosse noto che la procreazione dei figli spetta all'onore del connubio, non al castigo del peccato [57].

 

Il contesto storico e culturale

Nell'anno 303 d.C., l'imperatore romano Diocleziano, all'interno del suo più vasto programma di riforme politiche, promuove una violenta persecuzione contro i cristiani. In quel frangente disperato, alcuni vescovi, presi dal timore, consegnano nelle mani dei funzionari di Diocleziano i libri della Sacra Scrittura. Dal verbo latino trado, che significa appunto " consegnare", questi vescovi vengono perciò ricordati con il nome di traditores. All'epoca, alcuni cristiani intransigenti sostengono che, con le loro azioni, i traditores si sono privati di ogni potere spirituale.

Nel 311, l'imperatore Galerio, comprendendo che la resistenza dei cristiani non può essere vinta, emana un editto di tolleranza, che permette ai cristiani di riprendere le loro riunioni, purché siano rispettosi delle leggi dell'impero e dell'autorità dell'imperatore. A questo primo riconoscimento segue, nel 313, l'editto di Milano, promulgato congiuntamente da Costantino e Licinio, che sancisce libertà di culto per i cristiani e fa del cristianesimo una religione legale a tutti gli effetti all'interno dei confini dell'Impero Romano. Questo atto segna l'inizio dell'interesse attivo, da parte dell'autorità politica imperiale, per la stabilità e l'organizzazione interna della Chiesa Cattolica.

Già nel 311, alla fine delle persecuzioni avviate da Diocleziano, si era tuttavia manifestata una divisione in seno alla Chiesa dell'Africa settentrionale. Un'ottantina di vescovi, infatti, aveva rifiutato di riconoscere a Ceciliano il titolo episcopale di Cartagine, perché ordinato da un episcopus traditor. I ribelli avevano chiamato, al suo posto, il ribelle Donato, da cui questa scissione aveva poi preso il nome.

Forte del sostegno dell'imperatore Costantino, che nel 314 aveva convocato un concilio ad Arles per dirimere la questione, Ceciliano si era opposto ai vescovi donatisti e ai loro sostenitori; con l'appoggio armato dell'autorità civile, Ceciliano era sembrato di fatto emergere vincitore. Durante il regno dell'imperatore Giuliano, detto dagli storici cristiani "l'Apostata", con la perdita, da parte della Chiesa cattolica, del favore imperiale, il Donatismo aveva acquistato nuova forza, e ben presto la pars Donati si era trovata al potere in buona parte aveva ottenuto la preminenza in Numidia [58].

Lungi dall'essere una questione solo interna all'istituzione ecclesiastica, lo scisma donatista ha anche radici etniche e politiche. Ceciliano, e la Chiesa cattolica ufficiale insieme a lui, gode del sostegno del potere imperiale; i Donatisti sono invece molto radicati sul territorio, e le loro azioni rappresentano, sul piano religioso, i sentimenti particolaristici, etnici e antiromani vivi presso i Numidi e i Berberi.

All'epoca di Agostino, lo scisma donatista ancora lacera in due le regioni dell'Africa settentrionale, contrapponendo tra loro due vescovi, due cleri, due raggruppamenti di fedeli. Lungi dall'essere fondata solo sulla discussione politica, o teologica, la contrapposizione si fa spesso molto violenta: i circoncellioni, fanatici religiosi di origine contadina e di parte donatista, terrorizzano la regione e provocano tumulti e violenze, " fino alle mutilazioni e alle uccisioni"[59] . L'azione dei Donatisti e dei circoncellioni, scompaginando l'unità della Chiesa africana, mina l'unità della società fin nella sua base, la famiglia. Peter Brown ricorda, per esempio, le parole di un giovane alla madre: "Passerò nella setta di Donato e berrò il tuo sangue" [60].

La coesione della società civile romana sembra ad Agostino, vescovo d'Ippona, l'unica soluzione contro il caos che minaccia la Chiesa africana. Egli si auspica, dunque, un inserimento della Chiesa cattolica nelle strutture dell'impero e una compenetrazione di vita cristiana e di vita civile [61]. Perché questo sia possibile, però, è necessario rivisitare il ruolo e il valore del matrimonio e della famiglia - e, di conseguenza, della sessualità - rispetto alle dottrine di molti Padri della Chiesa, a lui contemporanei o precedenti, sulle stesse questioni. Il sesso, il matrimonio e la famiglia sono, per costoro, la conseguenza del peccato dei progenitori. La disobbedienza precipita Adamo ed Eva dallo stato angelico alla materia, con il suo carico di corruzione e di mortalità. La società e il matrimonio, così come la sessualità, erano invece estranei alla condizione originaria dell'uomo.

Nel De paradiso Ambrogio, vescovo di Milano, riprendendo un'esegesi già sviluppata da Filone d'Alessandria, legge i personaggi del dramma della caduta in modo simbolico: Adamo ed Eva rappresentano, rispettivamente, la mente e il senso; il serpente rappresenta il piacere, mentre la terra simboleggia il corpo.

Trasponendo poi il simbolismo dal piano metafisico al piano dei ruoli reali di uomo e donna, in riferimento alla sequenza degli avvenimenti narrati in Gen 2, 7-22, Ambrogio scrive: " Così l'uomo, sebbene sia stato creato al di fuori del paradiso, ossia in un luogo inferiore, si ritrova ad essere migliore, e colei che è stata creata in un luogo migliore, ossia nel paradiso, si ritrova inferiore. La donna infatti per prima fu tratta in inganno, e a sua volta trasse in inganno l'uomo" [62].

Il vescovo di Milano riprende qui, quasi alla lettera, un passo della prima lettera a Timoteo, in cui si legge che " non Adamo fu ingannato, ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna, che si lasciò sedurre. Ora lei sarà salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con saggezza" [63]. In questo passo, Paolo lega la salvezza della donna alla procreazione, al suo essere madre e al suo dovere di realizzare una maternità intrisa delle virtù cristiane. Commenta allora Ambrogio:

A motivo dunque della nascita delle generazioni umane fu necessario che la donna fosse posta accanto all'uomo. Ciò manifestano invero le stesse parole di Dio che dice non essere bene che l'uomo sia solo. Infatti, anche se la donna avrebbe poi peccato per prima, tuttavia, per il motivo che essa avrebbe generato il proprio redentore, non doveva essere esclusa dalla partecipazione al divino operare. Infatti, benché non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione - tuttavia, dice la Scrittura, potrà essere salvata solo partorendo figli, tra i quali generò anche Cristo [64].

Le opere di Ambrogio dedicate alla verginità offrono però una nuova prospettiva sull'identità e sui ruoli della donna e quindi, indirettamente, della coppia umana e della sessualità. Adamo ed Eva sono accomunati nell'essere entrambi creati a immagine e somiglianza di Dio:

E che cosa c'è di più prezioso di ciò che è a immagine e somiglianza di Dio? Ma a immagine è l'uomo interiore, non questo esteriore: quello che è valutato con la facoltà intellettiva, che non si raggiunge con gli occhi. Perciò quello dobbiamo desiderare fortemente, che richiede una lunga ricerca. Per questa ragione Dio non ritenne di dover lodare la struttura esteriore dell'uomo perché la sua parte più importante lo è per la virtù. Il suo aspetto è certamente ragguardevole e sorpassa quello degli altri esseri viventi, ma gli esseri irrazionali sono valutati secondo l'apparenza del corpo, quelli invece che sono informati di razionalità devono essere destinatari di una lode comune [65].

È dunque nell'interiorità, nell'anima e nell'intelletto che l'individuo può ritrovare il vero se stesso, a prescindere dal suo genere:

Dunque sia l'uomo che la donna debbono conoscere se stessi, che cioè sono fatti ad immagine e somiglianza di Dio, perché perseguano la bellezza dell'anima, non del corpo. Infatti in che consistiamo? Nella sostanza dell'anima e nel vigore della mente. Questa è l'intera nostra porzione. Infatti Davide dice: "Spererò in Dio, non temerò quello che mi farà la carne". Perciò non siamo carne, ma spirito. E dei Giudei è stato detto: " Non resterà su di essi il mio spirito, perché sono carne". Non siamo oro, non denaro, non abbondanza di ricchezze: tali cose infatti sono nostre. E perciò Mosè ti dice: " Bada a te stesso", cioè all'anima tua, perché non perisca, perché tu non diventi carnale. "Bada a te stesso", cioè all'immagine che hai ricevuto da Cristo, alla somiglianza secondo la quale sei stato creato. Conserva quell'immagine che Cristo ha dipinto in te con le sue opere, come egli stesso ha detto rivolgendosi a Gerusalemme, cioè all'anima pacifica: "Ecco io, o Gerusalemme, ho dipinto le tue mura" [66].

Il corpo umano, afferma Ambrogio, è corrotto dalla concupiscenza, e in questo contrasta con il corpo immacolato di Cristo. In Eden, tuttavia, al momento della creazione, Eva e Adamo sono vergini. Si consideri il seguente passo, tratto da L'educazione della vergine:

Quanto al termine mulier, perché ci preoccupiamo? Si riferisce al sesso; non è una parola che indica la corruttela, ma il sesso. Infatti fin da principio la verginità ebbe questo nome: quando Dio prese una costola di Adamo e mise della carne al suo posto, la Scrittura dice: "Ne fece una donna [mulier]" . Certamente non aveva ancora conosciuto uomo e già era chiamata mulier. La Scrittura ha anche chiarito la ragione di questo termine quando dice: "Adamo disse: ‘Costei sarà chiamata donna [mulier], perché è stata presa dal suo uomo". Perché è stata presa dal suo uomo - dice - non perché abbia sperimentato l'uomo. Perciò finché fu in paradiso fu chiamata mulier, benché non fosse stata conosciuta da uomo; ma quando fu cacciata dal paradiso, allora si legge che Adamo conobbe la sua donna, Eva, e allora concepì e partorì un figlio [67]. Ambrogio sta qui discutendo delle possibili obiezioni alla verginità di Maria. Rivolgendosi alla madre, Cristo, nella Vulgata, le chiede: "Quid mihi et tibi est, mulier?" [68]: Maria è chiamata mulier, parola che in latino si riferisce proprio a una donna sposata, non più vergine. L'argomento linguistico, di valore oggi relativo nel suo legame con una traduzione del testo sacro, diventa tanto più importante in quanto ricorda come anche Eva, all'atto della creazione e prima della caduta, sia detta mulier [69]; Adamo, con le sue parole, lo conferma. La sessualità, dunque, appartiene alla vita corrotta (corruptela), successiva alla caduta. La parola scelta da Ambrogio è significativa, nel suo significare tanto corruzione quanto il corruttore: dopo la caduta, la vita è corrotta e corrompe, corrode l'anima e il corpo con gli allettamenti del piacere e dei sensi.

Per questo motivo, commenta Ambrogio, in Eden i progenitori, nudi, erano senza vergogna: lo stato virginale è senza vergogna, ma i coniugi provano vergogna persino nell'unione lecita.

Date a lui, mostrategli quell'Adamo che fu prima del peccato, quell'Eva che fu prima di assumere il pericoloso veleno del serpente, prima di essere sopraffatti dalle insidie, quando non avevano di che vergognarsi. Infatti al presente, anche se il matrimonio è una cosa buona, tuttavia gli stessi coniugi hanno motivo di arrossire fra loro. Siate dunque, o figli, quali furono Adamo ed Eva nel paradiso, dei quali sta scritto che dopo che Adamo fu cacciato dal paradiso, conobbe Eva, sua moglie, ed ella concepì e partorì un figlio che chiamò Caino; poi concepì e partorì un altro figlio, che chiamò Abele. E così il secondo fu migliore del primo, perché questi fu senza macchia, il primo invece fu colpevole. Questi era unito a Dio e totalmente dipendente dal Signore, quello era possesso mondano e terreno. Pertanto in Abele è annunciata la redenzione del mondo, Caino invece porta la rovina. In Abele è preannunciato il sacrificio di Cristo, in Caino si manifesta il parricidio diabolico. Dunque, o figli, non abbiate nulla in comune con il possesso del mondo [...] [70]

Nell'esegesi di Gen 4, 1-2, Ambrogio utilizza implicitamente l'interpretazione dei nomi della progenie di Adamo, da lui data nello scritto Su Caino e Abele: " L'interpretazione dei nomi lo spiega in modo più completo. Caino, infatti, è detto acquisizione, poiché tutto acquista a sé; devoto Abele, che, per la pia attenzione della mente, riferisce tutto a Dio, senza arrogare nulla a sé come il fratello maggiore, ma attribuendo al Creatore tutto ciò che ha ricevuto da lui" [71]. Abele, unito a Dio e totalmente dipendente dal Creatore, preannuncia il sacrificio di Cristo e, nel commento di Ambrogio, simboleggia la scelta della verginità. Caino, invece, porta la rovina, e simboleggia quanti restano prigionieri nel mondo del possesso e delle passioni smodate. La verginità, come totale dedicarsi a Dio, è impegno a non avere nulla in comune con il mondo e a lasciare il mondo dietro e sotto di sé. Chi si vota a tale scelta trova poi la libertà che lo porta ad ascendere verso le sublimi altezze celesti. Il volo dell'anima è qui evocato con un linguaggio riminiscente del Fedro platonico:

Infatti l'anima ha i suoi voli. E perciò è detto: "Chi sono costoro che volano come le nuvole e come le colombe insieme ai loro piccoli?" Dunque quelli dell'anima sono voli spirituali, lei che in un istante può attraversare il mondo (infatti i pensieri dei saggi sono liberi: quanto più si innalzano alle altezze divine, essendo ombra di realtà celesti, tanto più si muovono senza alcun impedimento del loro peso terreno). E così aderendo a Dio e avendo in sé l'impronta dell'immagine divina, appena abbia regolato la sua corsa, frenando l'impeto dei cavalli, trasportata in quel luogo etereo e puro con il battito delle ali spirituali, disprezza tutto ciò che sta in questo mondo e, fissando le potenze eterne, se ne va al di sopra del mondo. Infatti al di sopra del mondo sta la giustizia, al di sopra del mondo la castità, al di sopra del mondo la bontà, al di sopra del mondo la sapienza - anche se è presente in questo mondo, tuttavia si trova al di sopra del mondo [72].

La riflessione di Ambrogio, vescovo di Milano, poneva dunque i diversi ruoli della vita cristiana all'interno di una scala gerarchica, che vedeva alla proprio sommità la scelta della verginità consacrata. Non tutti i cristiani dell'epoca, tuttavia, si riconoscevano in tale ordine. Ricorda Peter Brown:

Il fonte battesimale ricordava ad Ambrogio l'idea dell'"ascesa", e per lui senza dubbio la vetta più alta raggiungibile in questa vita era la verginità. Dalle medesime acque lustrali Gioviniano, un serio asceta romano, trasse conclusioni totalmente diverse: per lui, tutti i cristiani che uscivano dal battesimale erano uguali perché ugualmente santificati dal perdono e dal possesso dello Spirito Santo. All'interno della congregazione cattolica non c'era affatto bisogno di stabilire differenze di "grazia e favore". Fra il clero debitamente ordinato e la massa dei laici non c' era posto per un ambiguo gruppo intermedio di fedeli astinenti. Per Gioviniano i cristiani battezzati, tutti santi alla stessa maniera, formavano insieme il popolo di Dio liberato dai peccati in grazia del battesimo. Le solenni cerimonie di " consacrazione" che mettevano le vergini su un piedistallo erano dunque da prendersi con molta cautela: anzi, erano riti ben lontani dal valore perpetuo e irrevocabile del battesimo [73].

Una volta che gli scritti di Gioviniano iniziarono a circolare, il suo pensiero fece presto scalpore e ottenne un certo seguito [74] anche tra i pagani, che guardavano con sospetto e interesse alle donazioni di denaro alla Chiesa che dilapidavano le fortune familiari in occasione dei voti di castità [75]. Tanto il papa Siricio quanto Ambrogio compresero che la posizione di Gioviniano toglievano validità alla funzione sacramentale del clero cattolico nella sua opera di consacrazione dei laici ad una più alta vita religiosa. Il rifiuto della gerarchia cristiana privava di valore gli scritto e l'operato sociale del vescovo di Milano [76]. Girolamo riporta, inoltre, come cristiani più tiepidi nella loro fede aderissero al gruppo dei seguaci di Gioviniano, trovandovi requisiti di pratica e ascesi più rilassati. Così Agostino ricorda l'eresia di Gioviniano:

Nell'autore citato ho trovato anche i GIOVINIANISTI, che io già conoscevo. Questa eresia ha avuto origine nel nostro tempo, allorché eravamo giovani, per opera di un certo Gioviniano monaco, Costui, come i filosofi stoici, diceva che tutti i peccati sono uguali, che l'uomo, dopo che ha ricevuto il lavacro della rigenerazione, non può peccare, che né i digiuni, né l'astinenza da alcuni cibi avranno qualche merito. Annullava la verginità di Maria, affermando la perdita dell'integrità nel parto. Metteva, inoltre, la verginità delle donne consacrate a Dio e la continenza maschile, professata dai devoti che scelgono la vita del celibato, sullo stesso livello di meriti, che ha il matrimonio vissuto castamente e fedelmente. Di qui è accaduto, come è risaputo, che nella città di Roma, dove costui insegnava, alcune vergini consacrate, già inoltrate negli anni, sono passate a nozze, dopo averlo sentito parlare. Tuttavia, costui né aveva moglie, né voleva averla, e si metteva a sostenere che questa sua scelta non era fatta per avere un qualche maggior merito davanti a Dio, valevole nel regno della vita eterna, ma a causa dei condizionamenti imposti alla vita presente, cioè per non sottostare alle molestie causate dal matrimonio. Codesta eresia è stata, però, prontamente soffocata e distrutta, e non poté neppure giungere ad ingannare alcun sacerdote [77].

Nella sua reazione a questo movimento religioso, tuttavia, Girolamo si spinse fino a un'esaltazione della scelta virginale tanto forte, da ricordare le vecchie posizioni manichee sulla malvagità della sessualità e del matrimonio [78]. Proprio in questa polemica si inserisce l'opera di Agostino Sulla dignità del matrimonio. Per portare a compimento il suo progetto di fusione dello spirito e della vita cristiani con la struttura sociale dell'impero, il vescovo d'Ippona doveva dunque, per prima cosa, ridare valore all'unione terrena di uomo e donna; doveva restituire dignità al matrimonio e portare i cristiani suoi contemporanei a vederlo, attraverso gli occhi della religione e non più a parte rispetto alla religione, come un bene. Questa rinnovata concezione della vita sociale e coniugale, però, doveva inserirsi all'interno della gerarchia della vita cristiana sancita, solo un ventennio prima, da Ambrogio di Milano - una gerarchia che, sulla base di una lettura attenta dei testi scritturali, vedeva alla propria sommità la scelta virginale.

 

Il trattato Sulla dignità del matrimonio

Composto tra il 399 e il 401, il trattato Sulla dignità del matrimonio si inserisce all'interno di un periodo di fervida attività intellettuale: Agostino sta lavorando insieme al De Trinitate e al De Genesi ad litteram [79]. Agostino Trapè, nella sua edizione, lo divide in due parti, ciascuna suddivisa in due sezioni. Queste sarebbero dedicate, per la prima parte, allo studio del perché il matrimonio sia un bene, distinguendo i beni del matrimonio (sezione prima) e la virtù dei patriarchi (sezione seconda); per la seconda parte, alla risposta a Gioviniano, distinguendo una discussione sulla virtù (sezione prima) e una discussione sul rapporto tra la virtù e l'individuo che la possiede e l'esercita [80]. In questo articolo, per esigenze di chiarezza, si seguirà in parte tale suddivisione.

La disamina di Agostino si rivolge in primo luogo all'essenza del matrimonio. Secondo un procedimento tipicamente agostiniano, questa si rinviene al contempo in due luoghi: nella ragione umana, che ritrova l' essenza universale all'interno della definizione; e nella Scrittura, che, nei paragrafi che si riferiscono alla creazione dei progenitori, rivela quale fosse l'essere umano nel progetto divino originario, prima del peccato, della caduta e del disordine della concupiscenza che questi hanno portato con sé. Si incontrano così storia - in questo caso la storia prima della storia della creazione - e interiorità dell'uomo, come i due luoghi in cui si manifesta la presenza di Dio alla coscienza che lo cerca; e insieme si incontrano ragione e scrittura in quel duplice movimento della ricerca agostiniana che vuole comprendere per credere, ma sa quanto la fede sia necessaria per poter comprendere davvero. Agostino apre il suo discorso considerando i motivi per cui il matrimonio debba essere considerato un bene. Che il matrimonio sia un bene è qui dato per inteso - è presentato come un dato di fatto. La ricerca inizia invece con la definizione di uomo, che riprende e ricalca la definizione classica, platonica e aristotelica, secondo la quale la natura dell'uomo è politica, cioè socievole [81]:

Ciascun uomo è parte del genere umano; la sua natura è qualcosa di sociale e anche la forza dell'amicizia è un grande bene che egli possiede come innato. Per questa ragione Dio volle dare origine a tutti gli uomini da un unico individuo, in modo che nella loro società fossero stretti non solo dall'appartenenza al medesimo genere, ma anche dal vincolo della parentela. Pertanto il primo naturale legame della società umana è quello fra uomo e donna. E Dio non produsse neppure ciascuno dei due separatamente, congiungendoli poi come stranieri, ma creò l'una dall'altro, e il fianco dell'uomo, da cui la donna fu estratta e formata, sta ad indicare la forza della loro congiunzione. A fianco a fianco, infatti, si uniscono coloro che camminano insieme e che insieme guardano alla stessa meta. Conseguenza è che la società si continua nei figli che sono l'unico frutto onesto non del legame tra l'uomo e la donna, ma della relazione sessuale. Infatti anche senza un simile rapporto vi sarebbe potuta essere nei due sessi una forma di amichevole e fraterna congiunzione, fungendo l'uomo da guida e la donna da compagna [82].

"Ciascuno", inizia Agostino, così che la proposizione, pur con valore universale, considera ogni essere umano individualmente: ogni individuo è dunque parte del genere umano, di un insieme più vasto che comprende tutti gli esseri umani, in ogni tempo e in ogni luogo. Così il singolo è, per definizione, già inserito in un tutto più vasto, di cui è soltanto un frammento. Fuori da questa totalità, la persona è incompleta, perché la sua natura, la sua essenza è sociale (sociale quiddam est humana natura).

La parola "sociale" è però, nell'argomentazione agostiniana, legata al concetto di amicizia. È questo un tema molto caro ad Agostino. In un'epistola famosa, per esempio, il vescovo d' Ippona lega l'amicizia al conforto che se ne può trarre nelle difficoltà e al sollievo che ne deriva nel pellegrinaggio della vita:

Ma anche in questa vita i buoni arrecano, a quanto pare, non piccoli conforti. Se infatti ci angustiasse la povertà, se ci addolorasse il lutto, ci rendesse inquieti un malanno fisico, ci rattristasse l'esilio, ci tormentasse qualche altra calamità, ma ci fossero vicine delle persone buone che sapessero non solo godere con quelli che godono, ma anche piangere con quelli che piangono, che sapessero rivolgere parole di sollievo e conversare amabilmente, allora verrebbero lenite in grandissima parte le amarezze, alleviati gli affanni, superate le avversità. Ma questo effetto è prodotto in essi e per mezzo di essi da Colui che li rese buoni col suo Spirito [...] in tutte le cose umane nulla è caro all'uomo senza un amico. Ma quanti se ne trovano di così fedeli, da poterci fidare con sicurezza riguardo all'animo e alla condotta in questa vita? Nessuno conosce un altro come conosce sé stesso: eppure nessuno è tanto noto nemmeno a sé stesso da poter essere sicuro della propria condotta del giorno dopo [83].

L'amicizia è, alla lettera, unione di anime e unione di cuori [84], ciò che, secondo Agostino, rende godibile l'esistenza umana. In questo senso, come si legge in un discorso Sul Natale dei martiri Scillitani, tenuto forse entro il 413, [85]

Dei beni di questo mondo alcuni sono superflui, altri necessari. Da questo momento prestatemi attenzione così che ci sia concesso parlare un poco e distinguere, se possibile, quali dei beni di questo mondo siano superflui e quali necessari, in modo che possiate rendervi conto che non si deve rinnegare Cristo a motivo delle cose superflue e neppure delle cose necessarie. Chi riesce a enumerare le cose superflue di questo mondo? A volerle rievocare, indugeremo a lungo. Possiamo quindi citare quelle necessarie, ogni altra cosa esistente sarà compresa nel superfluo. In questo mondo solo due cose sono necessarie: la salute e l'amico; queste le cose di grande importanza, quelle che non dobbiamo disprezzare. La salute e l'amico sono beni propri della natura umana. Dio ha creato l'uomo per l'esistenza e la vita: ecco la salute; ma, perché non fosse solo, ecco l'esigenza dell'amicizia. L'amicizia, quindi, ha il suo principio nel coniuge e nei figli e si apre agli altri uomini. Ma considerando che noi abbiamo avuto soltanto un padre ed una madre, chi sarà l'altro uomo? Ogni uomo è prossimo ad ogni uomo. Rivolgiti alla natura. È uno sconosciuto? è un uomo. È un avversario? è un uomo. È un nemico? è un uomo. È un amico? resti amico. È un avversario? diventi amico [86].

L'amicizia è, per Agostino, un bene tanto necessario, un'esigenza, che egli spinge i suoi fedeli a cercarla, a nutrirla, a coltivarla, sulla base della comune natura e dell'appartenenza al medesimo genere che unisce tutti gli uomini. Come nel Discorso citato, così anche nel trattato De bono coniugali, il matrimonio è visto come la prima forma di amicizia. L'amicizia stessa, però, vi è vista come una forza (vis), un grande bene connaturato ad ogni essere umano. Da questo deriva che anche il matrimonio, in quanto forma di amicizia, è un bene.

Dalla definizione di essere umano di stampo platonico-aristotelico, Agostino passa poi a esaminare le sacre scritture. Tutti gli uomini, egli rammenta, nascono da Adamo (ex uno). Si traccia, così, secondo un modo di procedere caro al vescovo d' Ippona, un movimento dall'unità al molteplice, alla molteplicità del tutto. In direzione inversa, l'infinita varietà del molteplice ritrova l'unità risalendo alla propria origine. L'unità tra gli uomini è poi definita parentela. Qui Agostino usa il termine latino cognatio, che indica la parentela per nascita, la consanguineità - a mostrare come tutti gli esseri umani siano uniti nel discendere dal sangue dei progenitori. Si tratta di un legame, dunque, che si trova a monte delle costruzioni e delle strutture umane, un vincolo che ha origine alla nascita di ogni individuo, radicato nell'essenza dell'uomo, e che trova il suo momento aurorale nella creazione di Adamo ed Eva nel sesto giorno della genesi. Su questa relazione profonda si costruisce la coppia umana, che si rivela dunque essere antecedente alla caduta, creata insieme all'uomo.

Il primo naturale legame, su cui potrà poi costruirsi la società umana, è dunque quello tra uomo e donna. La loro unione, però, non è quella di due estranei: Dio crea l'una dall'altro. Scavando nel testo biblico, Agostino ne ritrova la qualità. Egli inserisce infatti la storia dei progenitori nella grande metafora dell'esistenza umana intesa come pellegrinaggio, e dell'essere umano come viandante proteso verso una meta lontana. Il fianco, da cui Eva è tratta, è qui inteso quale simbolo del procedere insieme. Il testo originale ha un valore pregnante per quello che la struttura della frase aggiunge al significato letterale: lateribus enim sibi iuguntur qui pariter ambulant pariter quo ambulant intuentur. L'anafora del termine pariter (sopra tradotto con "insieme") rivela come la coppia umana condivida tanto il cammino, quanto la meta. La parola pariter, però, ha molteplici significati, afferenti ad aree semantiche diverse; vuol dire, infatti, anche "in ugual modo" , "in compagnia di", "nel medesimo tempo". I due sposi, dunque, non solo procedono insieme nel cammino, nel pellegrinaggio della vita, ma procedono al passo, nel medesimo tempo, e uguali nelle loro differenze. I due verbi legati dall'anafora, però, hanno qualità distinte: l'uno, ambulare, significa camminare con passo naturale, disinvolto [87]; intueor, invece, ha il valore di "guardare attentamente", "fissare", "aver sempre sotto gli occhi" la propria meta. Da queste parole sembra di cogliere il senso profondo della coppia umana: i due coniugi si sostengono l'un l'altra nel percorrere il loro cammino, e anche di fronte a una meta distante, nascosta dalle mille distrazioni del mondo, entrambi, insieme, si danno forza l'un l'altra nel fissare pariter tutta la loro attenzione su quel punto lontano. Il loro incedere pariter è proprio di ogni momento della loro esistenza, nello svago e nel fine, nello scopo, nel tendere alla loro destinazione. La società risulta unita nei figli, che sono il solo frutto onesto non dell'unione di marito e moglie, ma dell'accoppiamento. Da un lato, si sancisce così che l'unione fra i coniugi è altra cosa rispetto al rapporto sessuale: l'accoppiamento, l'unione sessuale è distinta dall'unione tra marito e moglie e dall'affetto che li lega e diventa anzi un'aggiunta a una relazione " amichevole e fraterna" già piena in se stessa, in cui l'uomo guida e la donna segue.

D'altro canto Agostino distingue "tra matrimonio e uso del matrimonio: i figli, nei quali continua la società dei genitori, sono frutto" [88] onesto dell'uso corretto del matrimonio.

Nel primo paragrafo del trattato, quindi, l'unione tra uomo e donna nel matrimonio è radicata nella loro essenza, nella definizione stessa di essere umano. Se però l'uomo, creato da Dio, è "cosa molto buona" [89], allora il matrimonio, creato con l'uomo, intimo componente della sua essenza, è un bene. Due citazioni dal Nuovo Testamento, Mt 19, 9 e Gv 2, 2 ne giustificano la bontà in forma negativa.

Dagli esempi si traggono due motivazioni positive della bontà del matrimonio: la procreazione dei figli e il fatto che il matrimonio stringe una società naturale tra i due sessi, per cui l'unione tra i coniugi dura oltre l'attrattiva esercitata dalla bellezza dei corpi; in questo senso, anzi, Agostino consiglia agli sposi di scegliere la castità nel matrimonio sin da giovani, così da dominare subito il desiderio disordinato che, in quanto esseri umani, li anima: in età avanzata, quando il corpo è simile a un cadavere, rimarrà il profondo affetto reciproco, che del matrimonio è la componente più importante. In questa prospettiva l'unione sessuale nel matrimonio è un male rivolto al bene: se, da un lato, l'uomo e la donna sono spinti a cercare l'unione dal disordine della concupiscenza, da cui sono dominati; dall'altro, conseguenza del loro desiderio disordinato è la fecondità, che risponde al comando di Dio. Come sempre, è necessario anche qui ricordare che il peccato è, nell'opera agostiniana, un'azione disordinata rispetto al suo uso dei mezzi e dei fini. Così, se fine dell'unione sessuale è la procreazione, non sarà l'accoppiamento ad essere male, ma quell'accoppiamento che è volto a soddisfare i desideri disordinati, senza mirare alla procreazione; e sarà invece bene l'unione sessuale rivolta alla procreazione. Senza l'intenzione della fedeltà e l'accettazione del compito di procreare - e di ciò che, in questo senso, giunge all' interno del matrimonio quale frutto dell'unione tra gli sposi - non vi può essere vero matrimonio.

Anche nel desiderio, i coniugi sono tenuti alla fedeltà reciproca [90]. Questa virtù è così assoluta da essere associata all'idea della potestà: citando la prima lettera ai Corinzi, Agostino fa notare come, nel matrimonio, il marito ceda alla moglie il proprio potere sul proprio corpo, e la moglie ceda al marito il potere sul proprio corpo. A questo è ricondotto l'essere fedeli - ma se la fedeltà è potere sull'altro, è necessario accettarlo e sottomettervisi. Insieme all'intenzione di procreare, la fedeltà è elemento fondante del matrimonio: poiché però entrambe sono fondate su un precetto divino, è per prima cosa necessario sottomettersi all'azione del Creatore, che rivolge il male in bene e sottomette la concupiscenza sregolata all'ordine provvidenziale. Anzi, "il bene della fedeltà è tanto grande, da dare quasi la natura e il nome di matrimonio a un'unione libera, purché la fedeltà sia mantenuta fino alla morte di uno dei due coniugi e non sia escluso il bene della prole. Questo passo risuona dell'esperienza personale dello stesso Agostino:

In effetti, se un uomo si unisce temporaneamente con una compagna, finché non ne trovi da sposare un'altra all'altezza della sua condizione sociale ed economica, nell'intenzione è un adultero, e non con quella che intende trovare, ma con questa con la quale vive maritalmente, pur non essendo unito a lei da matrimonio. Perciò anche la donna che conosce ed accetta questa situazione mantiene un rapporto senz'altro impudico con colui al quale non è congiunta dal patto coniugale. Certo, se ella si mantiene fedele, e dopo che l'uomo si è sposato regolarmente non pensa a sposarsi a sua volta, ma da parte sua si prepara a rinunciare del tutto alla vita coniugale, non oserei chiamarla adultera alla leggera; però nessuno potrà sostenere che non pecca, quando risulta unita a un uomo di cui non è la moglie [91].

Il passo non può non richiamare un episodio che segnò profondamente la vita di Agostino: appena giunto a Cartagine, egli si era infatti unito a una donna, da cui aveva avuto presto il figlio Adeodato; ed era rimasto poi unito in fedele concubinaggio alla sua compagna per i tredici anni successivi, fino a quando, nella prospettiva delle nozze organizzate dalla madre Monica con una giovanissima, ma ricca ereditiera, la donna era stata allontanata. Nelle Confessioni Agostino ricorda il momento straziante del distacco e, nel riflettere sul comportamento proprio e della sua compagna, loda la fedeltà di lei, mentre biasima la propria debolezza:

quando mi fu strappata dal fianco, quale ostacolo alle nozze, la donna con cui ero solito coricarmi, il mio cuore, a cui era attaccata, ne fu profondamente lacerato e sanguinò a lungo. Essa partì per l'Africa, facendoti voto di non conoscere nessun altro uomo e lasciando con me il figlio naturale avuto da lei. Ma io, sciagurato, incapace d'imitare una femmina e di pazientare quei due anni di attesa finché avrei avuto in casa la sposa già richiesta, meno vago delle nozze di quanto fossi servo della libidine, mi procurai un'altra donna, non certo moglie, quale alimento, quasi, che prolungasse, intatta o ancora più vigorosa, la malattia della mia anima, vegliata da una consuetudine che doveva durare fino al regno della sposa. Non guariva per questo la ferita prodotta in me dall'amputazione della compagna precedente; però, dopo il bruciore e lo strazio più aspro, imputridiva, e la sofferenza, perché più gelida, era anche più disperata [92].

Agostino deve avere pensato proprio all'antica compagna quando, nel suo scritto Sulla dignità del matrimonio, riflette che una concubina, unita ad un uomo per il desiderio di avere figli, e che resti casta nel cuore, deve essere migliore di una donna sposata, che si abbandoni invece a un desiderio smodato [93]. Inizia qui un movimento progressivo verso l'interiorità della virtù, vista, di contro all'adesione esterna a un'istituzione o a un comportamento, come vero fondamento della bontà di un'azione umana. Tale tesi sarà sviluppata più avanti nel testo.

Accanto alla fedeltà e alla procreazione dei figli, caratteristica fondante del matrimonio è il suo essere un sacramento indissolubile. L'atto sacramentale diventa allora il sigillo che lega i due sposi oltre ogni mutevolezza umana - di sfuggire all'unione adulterina, di cercare un' unione più conveniente o che doni una discendenza. Qui si trova l'unicità del matrimonio cristiano, rispetto a quello regolato dal diritto romano: neppure il divorzio, ricorda Agostino, può sciogliere il vincolo delle nozze [94]. Nell'enunciare la differenza tra legge umana e divina, Agostino si riferisce indirettamente a quella dicotomia che troverà poi pieno sviluppo ne La città di Dio: nella città di Dio si ha un matrimonio indissolubile, nella città dell'uomo, dominata e definita dalle sue leggi limitate e disordinate - imperfette - si ha la possibilità del divorzio. Stante la definizione di matrimonio emersa dal primo paragrafo di questo testo, Agostino indica qui come la città dell' uomo stravolga l'essere umano in quell'essenza che dovrebbe regolarne la struttura esistenziale.

Stabilite quali siano le caratteristiche che rendono il matrimonio un bene - procreazione, fedeltà e sacramentalità, Agostino passa a discutere in quale modo il matrimonio sia un bene. Il matrimonio, egli scrive, non è un male minore rispetto alla lussuria e alla sregolatezza del comportamento sessuale, ma è un bene come la continenza, che però gli è superiore [95]. Con un procedimento dicotomico, si riconoscono due tipi di beni: gli uni necessari per se stessi; gli altri necessari per altro scopo - e tra questi ultimi si situa, secondo Agostino, il matrimonio [96]. Così, benché sia bene superiore la continenza, il matrimonio è necessario per chi non sia capace di controllare la propria concupiscenza: gli eccessi della concupiscenza diventano anzi peccati solo veniali, se confinati all'interno dell'unione coniugale [97]. Se destinata a procreare, cioè ordinata alla ragione divina, principio di ogni ordine, l'unione carnale è lecita. Anche i coniugati sono santi nel corpo, se osservano la fedeltà reciproca all'interno della norma divina [98]. A differenza del pensiero di molti Padri a lui precedenti, Agostino enuncia la possibilità di una santità nel matrimonio, non al di fuori di esso. In linea di principio, tuttavia, la santità delle persone non sposate è maggiore, perché, secondo le parole di Paolo, possono dedicarsi a Dio con tutte se stesse, senza alcuna distrazione; per le persone sposate, una simile dedizione è più difficile, ma comunque possibile [99].

Nella seconda sezione della prima parte, l'argomentazione agostiniana muove dalla definizione di uomo e matrimonio, e dalla discussione del tempo mitico della creazione, al tempo storico delle origini del popolo eletto. Dopo aver compreso che cosa comporti, per il matrimonio, l'essenza universale dell'essere umano; e dopo aver studiato i racconti della creazione dell'uomo, alla ricerca del progetto originario di Dio, Agostino si volge ora alla lettura delle storie dei patriarchi di Israele, per scoprire in quale modo essi vivessero castità, continenza e matrimonio. Si istituisce così un paragone tra il matrimonio dei Padri dell' Antico Testamento e il matrimonio e la continenza del tempo presente, all'interno di un confronto tra passato e presente in cui si rivela un duplice percorso di decadenza e perfezione.

Il concetto chiave di questa porzione del testo è l'obbedienza, intesa come adesione integrale alla volontà e al disegno del Creatore. Il Santo, che ha raggiunto un alto livello spirituale prima delle nozze, sa vincere la concupiscenza e contrae matrimonio per pietas, per rispetto del volere divino:

Ma a quei tempi, quando il mistero della nostra salvezza era ancora velato dai simboli profetici, anche quelli che avevano raggiunto questo livello spirituale prima delle nozze stringevano matrimonio per il dovere di generare, spinti dalla pietà e non vinti dalla libidine. Ma se essi avessero avuto questa possibilità di scelta che è stata data con la rivelazione del Nuovo Testamento, quando il Signore dice: Chi può comprendere comprenda, l'avrebbero accolta con gioia; e non ne dubita certo chi legge con la necessaria attenzione come essi si comportassero nel matrimonio. Anche se era permesso a ciascuno di loro di avere più mogli, però le trattavano più castamente di quanto qualsiasi marito di oggi tratti l'unica che ha; infatti vediamo dove arriva l'indulgenza dell'Apostolo con costoro. Essi si sposavano per il compito della generazione, non per l'infermità del desiderio, come le genti che ignorano Dio[100] .

Le parole chiave, che descrivono l'atteggiamento dei patriarchi verso il matrimonio e la sessualità, sono dovere, compito e pietà. Queste parole inseriscono il matrimonio e la sessualità dei Padri dell'Antico Testamento nell'area semantica dell'obbedienza: Abramo, Isacco e Giacobbe ricevono da Dio il compito di moltiplicare il popolo dell'Alleanza. Le loro nozze sono asservite a questo compito, cui ciascuno di loro si sottomette pienamente, senza riserve. Il sacrificio di Isacco, scrive Agostino, dimostra l'obbedienza assoluta dei patriarchi [101] di fronte al disegno imperscrutabile di Dio. Il trattamento che essi riservano alle loro spose testimonia il loro distacco dalla concupiscenza, la loro perfetta capacità di continentia, di controllo sui propri impulsi - e insieme si offre quale modello implicito allo sguardo del marito e pater familias cristiano. Anche la poligamia nei patriarchi si rivela in armonia con il disegno divino: laddove essi vorrebbero una sola sposa, secondo il comandamento ricevuto al momento della creazione, devono unirsi a più donne per la necessità di propagare la loro prole - stante che, dopo il peccato, si procrea attraverso l'atto sessuale.

I tempi, però, sono cambiati: all'epoca dei patriarchi un uomo perfettamente continente era spinto a prendere più di una moglie in obbedienza all'ordine e alla promessa divini. Oggi, invece, " l'uomo sapiente e giusto non desidera altro che dissolversi ed essere con Cristo" [102], e questo desiderio è meglio favorito da una vita condotta in completa castità, al di fuori da ogni obbligo mondano e vincolo coniugale. In questo il cristiano che oggi sceglie una vita di continenza può essere paragonato ai patriarchi che, pur continenti, sceglievano le nozze per il dovere della procreazione. Infatti, scrive Agostino, come il cristiano oggi si ciba non per il piacere che ne deriva, ma per la necessità di sostentare il corpo nel cammino verso Dio, così i patriarchi si univano con le loro spose non per il piacere inerente all'atto, ma per continuare la specie - e l'unione sessuale è per la continuità della specie ciò che il cibo è per il sostentamento dell'individuo [103]. La metafora del cibo indica la naturalità e l'intrinseca bontà dell'atto sessuale; la differenza è posta nel fine per cui l'atto è compiuto. In entrambe le immagini, vengono contrapposti un uso egoistico, un movimento che ritorna su chi si muove, e un atto in cui l'agente va oltre se stesso, e annulla quasi se stesso nell'atto: così chi mangia per il piacere ha un ritorno immediato della propria azione su se stesso; ma chi si nutre per avere le forze lungo il cammino, è già proiettato oltre se stesso, verso la propria meta ultima; e chi compie l'atto sessuale per il dovere di procreare, non cerca il ritorno immediato del piacere, ma annulla se stesso proiettandosi verso il futuro. Continua Agostino:

Ma questo piacere regolato e disciplinato dalla temperanza secondo l'uso della natura, non può essere libidine. Ciò che è nel sostentare la vita un cibo illecito, questo è nella ricerca della prole un rapporto di fornicazione o di adulterio. E ciò che è un cibo non permesso nella ghiottoneria, questo è un rapporto illecito nella libidine senza la ricerca della prole. E all'avidità eccessiva che alcuni hanno per un cibo consentito, corrisponde nel matrimonio il rapporto non gravemente colpevole. Come dunque è meglio morire di fame, che cibarsi di cibi sacrificali; così è meglio morire senza figli, che cercare discendenza da un'unione illecita [104].

Nella prima sezione della prima parte, definendo le tre caratteristiche che il matrimonio deve avere per essere un bene, Agostino aveva delineato l'immagine della Trinità; così ora, riprendendo e approfondendo quel discorso, definisce tre caratteristiche opposte e speculari a quelle: di contro alla fedeltà, l'adulterio e la fornicazione; contro la ricerca della prole, la ricerca sterile di un piacere sessuale fine a se stesso; e all'opposto del sacramento del matrimonio, l'unione illecita. Se dunque nel matrimonio giusto si manifesta un'immagine della Trinità, nella colpa umana che perverte il matrimonio si ha una distorsione della Trinità, così da rivelare la natura del peccato come il disordine che corrompe l'ordine razionale creato da Dio.

Pur potendoli confrontare tra loro, Agostino ammette che il matrimonio dei patriarchi è superiore alla continenza di oggi. Di fronte all'obiezione che, per quanto virtuosi, i patriarchi non fossero continenti, mentre molti cristiani di oggi lo sono - e la continenza è una virtù - Agostino risponde: "Essi si sposavano per il compito della generazione, non per l'infermità del desiderio, come le genti che ignorano Dio. E questa è una virtù così grande, che oggi è più facile a molti astenersi per tutta la vita da ogni relazione carnale, piuttosto che osservare, dopo le nozze, la regola di non unirsi se non per la procreazione" [105].

Proprio con la definizione di virtù ha inizio la prima sezione della parte seconda del trattato. La continenza è virtù dell'animo - e Agostino definisce la virtù come un abito. Distinguendo tra visibilità ed esistenza, Agostino afferma che " La virtù non comincia a esistere nel momento di metterla in pratica, ma solo a farsi conoscere" [106]. E continua: "Infatti la disposizione abituale è quella con cui si compie un'azione, quando è necessaria; quando l'azione non si compie, è possibile compierla, ma non è necessario" [107]. A sostegno di questa affermazione, Agostino ricorda due episodi della scrittura - la vicenda di Giobbe e un passo di una lettera paolina [108] - riferiti alle due virtù della pazienza e della temperanza. Si tratta di virtù necessarie all'interno del discorso agostiniano sul matrimonio: la pazienza è la virtù che aiuta a sopportare le richieste eccessive di un coniuge intemperante e insieme a resistere alla prepotenza della concupiscenza; e la temperanza è la virtù richiesta per vivere un matrimonio votato alla procreazione, alla fedeltà e alla castità tra i coniugi. I due personaggi biblici citati, Timoteo e Giobbe, possiedono la virtù come abito, e ne rivelano l'esistenza nelle loro azioni. L'esistenza della virtù in abito, infatti, precede l'azione virtuosa come una potenza di manifestarsi, ed è insieme perfezione dell'animo. Così prima di agire con continenza, è necessario possedere nell'animo una disposizione alla continenza: e "la virtù della continenza deve sempre essere nella disposizione abituale dell'animo e manifestarsi in pratica secondo i casi e i momenti opportuni" [109].

Legata a tale abito vi è la libertà di poter fare uso dei beni che si possiede:

Così gli animi giunti a perfezione fecero uso dei beni terreni necessari ad altro scopo conservando la continenza come disposizione abituale; grazie a questa virtù non rimanevano vincolati ad essi, ma potevano anche non usarne, se non ve n'era necessità. E usa correttamente questi beni solo chi può anche fare a meno di usarli [110]. Commenta padre Agostino Trapè che la virtù può anzi essere maggiore in chi la possiede senza esercitarla che in chi la esercita, ma ne ha un grado minore [111]. Tutto ciò vale della continenza perfetta. I patriarchi e le grandi donne del Vecchio Testamento la possedevano nelle disposizioni interiori, i celibi e le vergini cristiane la posseggono anche esteriormente. Perciò è perfettamente inutile rivolgere a questi e a queste la domanda che rivolgeva Gioviniano [112].

Costui, infatti, forte del suo pensiero, nel confrontarsi con chi aveva fatto scelta di verginità, richiamava il ricordo dei Padri dell'Antico Testamento e delle loro spose, che, pur essendo esempi di altissima virtù, avevano costruito famiglie numerose, spesso con più di una sposa: "Sei forse tu migliore di Sara, migliore di Susanna o di Anna?" . Continua qui padre Agostino Trapè, riassumendo il discorso del vescovo d'Ippona:

La risposta è chiara e sicura: certamente, ognuno dice, io non sono migliore di Abramo e di Sara; ma non perché il matrimonio sia superiore alla continenza perfetta, bensì perché essi - Abramo e Sara - ebbero questa virtù nell'animo, e la ebbero in grado eminente, anche se, per ubbidire al volere divino che li destinava a propagare il popolo di Dio, non la esercitarono di fatto [113].

La scelta di utilizzare o meno un bene che si possiede dipende, in ultima analisi, dalla necessità e dal compito che si è ricevuto, non dalla capacità. Ad un livello più profondo, scrive Agostino d'Ippona, bisogna distinguere i diversi beni dalle persone che li possiedono: se, infatti, "paragoniamo le cose in sé, in nessun modo bisogna dubitare che la castità della continenza è migliore della castità nuziale, benché entrambe siano un bene" [114]. Diventa così possibile recuperare la riflessione della patristica a lui immediatamente precedente, per integrarla nella nuova visione di una società cristianizzata nelle sue strutture profonde. Continua infatti Agostino: " ma se paragoniamo tra loro gli uomini, è migliore quello che possiede un determinato bene in grado maggiore di un altro individuo" [115].

Tenendo presente tutto quanto ha discusso fino ad ora, il vescovo d'Ippona nota che per confrontare tra loro degli individui, bisogna considerare tanto i beni che possiedono, che la quantità in cui li possiedono. " Può avvenire, infatti, che uno non abbia il bene che ha un altro, ma ne possieda uno diverso che è da stimarsi di più" [116]. Tra tutte le virtù la più alta è l'obbedienza, cioè la piena sottomissione al volere di Dio. Essa è madre di tutte le virtù e consiste nel rinunciare a sé per seguire Dio. Per questo essa supera anche il bene della continenza, che è risultato dell'obbedienza al comando e all'insegnamento divino. Nel loro rinunciare a una continenza che possiedono in quantità eminente come disposizione dell'animo, nell'ottemperare al comandamento divino nel matrimonio, i patriarchi mostrano di superare i contemporanei per la virtù dell'obbedienza. In questo valorizzare l'obbedienza a scapito della continenza, Agostino apre una via alla santità anche a chi è sposato - ma che può, nel rispetto del precetto divino, perfezionare la propria obbedienza. Anzi, la vergine in paragone con la maritata è di tanto inferiore nel bene dell'obbedienza quanto superiore nel bene della castità; quale delle due vinca il confronto lo si può giudicare paragonando prima direttamente la castità con l'obbedienza: allora si vedrà che l'obbedienza è madre di tutte le virtù. Per questo vi può essere l'obbedienza senza la verginità, perché la verginità proviene da un consiglio, non da un precetto. Ma per obbedienza io intendo naturalmente la sottomissione ai precetti divini; quindi l'obbedienza ai precetti si potrà trovare senza la verginità, ma non senza la castità. Alla castità infatti appartiene di non fornicare, non commettere adulterio, non macchiarsi di nessuna relazione illecita [...] Perciò non solo si deve preferire la donna obbediente alla disobbediente, ma la coniugata più obbediente alla vergine meno obbediente [117].

Dopo una conclusione tanto innovativa quanto necessaria, e che sembra mettere sullo stesso piano scelta virginale e vita cristiana nel matrimonio, Agostino dedica l' ultimo paragrafo del suo trattato ad ammonire coloro che hanno fatto scelta di restare vergini perché conservino in tutte le cose una profonda umiltà:

In particolar modo le nostre esortazioni sono rivolte ai giovani e alle fanciulle che dedicano a Dio la loro verginità; essi siano consapevoli di dover circondare il tempo della loro vita terrena di un'umiltà tanto più grande quanto più appartiene al cielo quello che hanno dedicato. Appunto è stato scritto: Quanto più sei grande, tanto più umiliati in tutte le cose (Sir 3, 20). Dunque a noi spetta parlare della loro grandezza, a loro pensare a una grande umiltà [118].

Il discorso sulla grandezza è proprio solo della polemica libellistica e della discussione teologica - ma precetto di chi si dedica alla vita virginale deve sempre essere la scelta di una profonda, radicale umiltà, nel dedicarsi totalmente a Dio.

 

Conclusione

Nel trattato Sulla dignità del matrimonio Agostino fonda la nuova società umana intorno al nucleo costituito dagli sposi. Egli definisce così una famiglia fondata su tre beni, la prole, in cui si realizza la prosecuzione della società umana iniziata e animata dalla famiglia; la fedeltà, quel movimento del donarsi totalmente al proprio coniuge, che è una forma altissima di obbedienza - la madre delle virtù - e che insieme cementa i legami sociali; e il sacramento, che comporta il fondersi dell'ordine sociale, regolato dallo Stato, con l'ordine religioso, sancito e amministrato dalla Chiesa attraverso il rito. In questo modo Agostino crea un ordine sociale nuovo e profondamente intriso di principi cristiani. Al suo cuore palpita, forte e chiara, l'immagine della Trinità, che la presenza dei tre beni tratteggia ed evoca, e che, con la sua presenza discreta ridefinisce ruoli e confini di questa innovativa forma del vivere da cristiani, ma immersi nel mondo.

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Per il testo della Sacra Scrittura si è seguito: Bibbia CEI, edizione 2008, disponibile online sul sito: www.bibbiaedu.it.

Ultimo accesso 01/09/2012.

Bibbia ebraica (testo massoretico), disponibile online sul sito: http://www.chabad.org/library/bible_cdo/aid/8165.

Ultimo accesso il 07/08/2012.

 

Fonti primarie

Agostino d'Ippona, Opera omnia, disponibile online sul sito: www.sant-agostino.it.

Ultimo accesso 01/09/2012.

Ambrogio di Milano, Opera omnia di sant' Ambrogio, vol. 14/II: "Opere morali. Verginità e vedovanza", Città Nuova Editrice e Biblioteca Ambrosiana, Roma-Milano: 1989.

 

Fonti secondarie

P. Brown, Il corpo e la società, Einaudi, Torino: 1992.

Id., Agostino d'Ippona, Einaudi: Torino, 1976.

D. J. Harrington, Il vangelo di Matteo, Elledici, Torino: 2005.

X. Leon-Dufour (cur.), Dizionario di teologia biblica, Marietti, Torino: 1967.

 

 

Note al testo

 

(1) - Cfr. Agostino, De civitate Dei, 14, 21-22

(2) - Cfr. Id., La dignità del matrimonio, 16, 18

(3) - Questo è un punto fondamentale dell' argomentazione agostiniana, e come tale sarà preso in considerazione nel trattato Sulla dignità del matrimonio. Cfr. Id., Sulle nozze e la concupiscenza, 2, 21, 36: " Di conseguenza non condanno neppure l'onesta unione degli sposi a causa della vergognosa concupiscenza carnale. Essa infatti, se in precedenza non fosse stato commesso alcun peccato, potrebbe essere tale da non fare arrossire gli sposi; ma l'attuale è sorta dopo il peccato e i primi uomini furono costretti a velarla per la confusione. Per i posteri coniugati ne è rimasta la conseguenza di essere costretti a evitare lo sguardo umano durante l'esecuzione di una tale azione, anche quando fanno un uso buono e lecito di quel male, confessando così che è vergognosa, mentre nessuno dovrebbe vergognarsi di ciò che è buono. In tal modo ci vengono suggerite due verità: l'onestà della lodevole unione con la quale si generano i figli e la disonestà della vergognosa libidine, a causa della quale i generati devono essere rigenerati per non essere condannati. Pertanto, chi si unisce lecitamente nella vergognosa libidine fa buon uso di una cosa cattiva, chi invece si unisce illecitamente fa cattivo uso di una cosa cattiva." ; Cfr. anche Contro Giuliano, 3, 7, 16; 5, 16, 60: " sono convinto che non sempre è peccato fare uso della libidine, perché far buon uso di un male non è peccato. Allo stesso modo una cosa non è buona per il solo fatto che il buono ne fa buon uso" .

(4) - Cfr. per esempio Sulla dignità del matrimonio,22, 27, ove si riportano alcune frasi tratte dalle opere di Gioviniano (pur senza nominarne l' autore), cui poi Agostino risponde direttamente.

(5) - Id., Soliloquia, 1, 2, 7

(6) - Cfr. http://www.chabad.org/library/bible_cdo/aid/8165, disponibile online il 07/08/2012

(7) - Gen 2, 18-24

(8) - Gen 3, 7

(9) - Gen 3, 16-19

(10) - Gen 4, 1

(11) - Gen 4, 25

(12) - Cfr. Gen 41

(13) - Gen 41, 52

(14) - Dt 24, 1

(15) - Cfr. X. Leon-Dufour (cur.), Dizionario di teologia biblica, Marietti, Torino: 1967, p. 571

(16) - Dt 22, 22

(17) - Lv 20, 10

(18) - Gen 38, 24

(19) - X. Leon-Dufour (cur.), Dizionario di teologia…, loc. cit.

(20) - Ez 18, 10-13

(21) - 2Sam 12, 9-12

(22) - Prv 5, 3-6

(23) - Prv 7, 6-27

(24) - D. J . Harrington, Il vangelo di Matteo, Elledici, Torino: 2005, p. 248

(25) - Mt 1, 19-20

(26) - Lc 1, 26-38

(27) - Cfr. 2, 41-52

(28) - Mc 3, 34b-35

(29) - Mt 19, 1-9

(30) - D. J. Harrington, Il vangelo di Matteo, Elledici, Torino: 2005, pp. 245-247, passim

(31) - Cfr. Ivi, p. 246

(32) - Mt 19, 10-12

(33) - Lc 11, 27-28

(34) - Cfr. Lc 8, 4-15

(35) - Mt 12, 47-50

(36) - X. Leon-Dufour (cur.), Dizionario di teologia…, cit., p. 537

(37) - Ef 5, 22-33

(38) - X. Leon-Dufour (cur.), Dizionario di teologia…, cit., p. 179

(39) - Ibidem

(40) - 1Cor 7, 1-6

(41) - 1Cor 7, 8.25-28

(42) - Cfr. supra

(43) - Cfr. Col 2, 12

(44) - 1Cor 7, 32-35

(45) - X. Leon-Dufour (cur.), Dizionario di teologia…, cit., p. 1201

(46) - Agostino, Confessioni, 9, 9, 22

(47) - Ivi, 9, 9, 20

(48) - Ibidem

(49) - Ivi, 4, 2, 2

(50) - Agostino, Confessioni, 3, 1, 1

(51) - Ibidem

(52) - Ibidem

(53) - Id., La città di Dio 14, 21-22

(54) - Ivi, 14, 26

(55) - Id., La città di Dio 4, 3

(56) - Ivi, 14, 15, 1

(57) - Ivi, 14, 21

(58) - P. Brown, Agostino d'Ippona, Einaudi: Torino, 1976, p. 209

(59) - A. Trapé (cur.), Sant'Agostino. Il maestro interiore, Roma: 1987, p. 147

(60) - P. Brown, Il corpo e la società, Einaudi, Torino: 1992, p. 363

(61) - Ibidem

(62) - G. Sfameni Gasparro, La donna nell'esegesi patristica di Gen 1-3, in U. Mattioli (cur.), La donna nel pensiero cristiano antico, Marietti, Genova: 1992, p. 34

(63) - 1Tm 2, 14-15

(64) - Ambrogio, Sul paradiso, 10, 47, 304 ss.

(65) - Id., L'educazione della vergine, 20

(66) - Id. Esortazione alla verginità, 68

(67) - Id., L'educazione della vergine, 36

(68) - Gv 2, 3-4

(69) - Gen 2, 22: “Aedificavit eam in mulierem”

(70) - Id., Esortazione alla verginità, 36

(71) - Id., Su Caino e Abele, 1, 1, 3 (la traduzione è mia). Si veda anche Opera omnia di sant'Ambrogio, vol. 14/II: Opere morali. Verginità e vedovanza, Città Nuova Editrice e Biblioteca Ambrosiana, Roma-Milano: 1989, p. 229n.

(72) - Id., La verginità, 108

(73) - P. Brown, Il corpo…, cit., p. 324

(74) - Cfr. http://www.ccel.org/s/schaff/encyc/encyc06/htm/iii.lvii.cxxxiii.htm disponibile online il 11/08/2012

(75) - P. Brown, Il corpo…, cit., p. 325

(76) - Ibidem

(77) - Agostino, Sulle eresie, 82

(78) - Cfr. A. Trapè (cur.), Sant'Agostino. La dignità del matrimonio, Città Nuova, Roma: 1982, pp. 80-81

(79) - Ivi, p. 84

(80) - Ivi, pp. 147-149

(81) - Cfr. pseudo-Platone, Definizioni, 415a

(82) - Agostino, La dignità del matrimonio, 1, 1

(83) - Id., Lettere, 130, 2.4

(84) - Id., Regula ad servos Dei, 3.9

(85) - Cfr. http://www.sant-agostino.it/italiano/discorsi/tavola_discorsi.htm, disponibile il 06/08/2012

(86) - Agostino, Discorsi, 299/D, 1

(87) - Si può trovare, però, col valore di marciare nel linguaggio militare

(88) - A. Trapè, Sant'Agostino. Sulla dignità del matrimonio, cit., p. 90n

(89) - Gen 1, 31

(90) - Agostino, Sulla dignità del matrimonio, 4, 4.

(91) - Ivi, 5, 5

(92) - Id., Confessioni, 6, 15, 25

(93) - Id., Sulla dignità del matrimonio, 5, 5

(94) - Ivi, 7, 7 - 8

(95) - Ivi, 8, 8

(96) - Ivi, 9

(97) - Ivi, 10, 11

(98) - Ibidem

(99) - Ivi, 12, 14

(100) - Ivi, 13, 15

(101) - Ivi, 23, 31

(102) - Ivi, 15, 17

(103) - Ivi, 15, 17-16, 18

(104) - Ibidem

(105) - Ivi, 13, 15

(106) - Ivi, 21, 25

(107) - Ibidem

(108) - 1Tm 5, 23

(109) - Agostino, Sulla dignità del matrimonio, 21, 26

(110) - Ivi, 21, 25

(111) - Ivi, 22, 27

(112) - A. Trapè (cur.), Sant'Agostino. Sulla dignità del matrimonio, cit., p. 83

(113) - Ibidem

(114) - Agostino, Sulla dignità del matrimonio, 23, 28

(115) - Ibidem

(116) - Ivi, 23, 29

(117) - Ivi, 23, 30

(118) - Ivi, 26, 35