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PITTORI: Francesco Salviati

Sant'Agostino vescovo benedicente

Sant'Agostino vescovo benedicente

 

 

SALVIATI FRANCESCO

1590-1600

Carceri, abbazia di Santa Maria delle Carceri

 

Sant'Agostino vescovo benedicente

 

 

 

La sala degli Affreschi, al secondo piano del chiostro rinascimentale è uno degli ambienti di maggior pregio dell'Abbazia di Carceri. Era la Biblioteca della comunità camaldolese. Nulla sopravvive del patrimonio librario che andò disperso nel 1690, tuttavia restano in buono stato di conservazione i pregevoli affreschi che impreziosiscono le pareti della sala. Si tratta di un ciclo di dipinti realizzati sul finire del Cinquecento e gli inizi del Seicento e vengono attribuiti alla bottega di Francesco Salviati. Il ciclo è di buona qualità e particolarmente ricco di personaggi, adatto a ingentilire un luogo che fungeva da scriptorium per la realizzazione di codici.

Sulle pareti della sala si susseguono personaggi dell'Antico e del Nuovo Testamento oltre a santi legati ai camaldolesi, quali il profeta Daniele e sant'Agostino incorniciati in finte architetture. Agostino è raffigurato con i suoi attributi episcopali con la mitra in testa e il bastone pastorale nella mano sinistra. Indossa un elegante piviale color rosso con risvolto verde. Entrambe la mani portano guanti: quella destra è alzata in segno di benedizione. Il volto del santo ha un aspetto di persona matura, dallo sguardo vigile e severo. Una foltissima barba grigiastra e riccioluta gli scende fin sul petto.

Sulla parete destra sono inoltre raffigurati il re Davide, san Gregorio Magno, la Madonna Annunciata, il profeta Isaia, l'Angelo, san Girolamo e un altro personaggio probabilmente identificabile con re Salomone.

La storia di questa abbazia di santa Maria delle Carceri inizia verso l'anno 1000, quando, dopo vari secoli durante i quali la zona paludosa e malsana della bassa padovana era rimasta nell'abbandono, fu avviato un primo intervento di recupero del territorio da parte dei Canonici della collegiata di Santa Tecla di Este. Questi religiosi si insediarono a Carceri nell'antica Pieve campestre. I monaci avevano scelto di seguire la regola agostiniana, secondo le istruzioni di Pietro de Honestis della chiesa di Santa Maria Porto a Ravenna.

Grazie alle numerose donazioni e ai privilegi i monaci edificarono un monastero che divenne uno dei più importanti del Veneto.

Guidati dai priori i monaci bonificarono i territori circostanti dando lavoro ai contadini e accoglienza ai pellegrini. L'invasione delle cavallette nel 1340 e l'epidemia della peste nel 1348 tuttavia mise in crisi le attività del monastero, che subirono un ulteriore colpo per le devastazioni provocate dalla feroce guerra fra la famiglia Scaligera e quella Carrarese. Il Monastero cadde in abbandono e nell'anno 1405 il Papa Innocenzo VII lo affidò ad Angelo Sommariva di Santa Prudenziana di Napoli.

Nel 1408, su richiesta dell'abate Venier, Papa Gregorio XII affidò il monastero ai Camaldolesi, che dalla chiesa di S. Michele di Murano si trasferirono in buon numero a Carceri. Nel 1427 l'insediamento elevato al grado di Abbazia. I monaci Camaldolesi costruirono una cinta muraria, edificarono quattro chiostri ed una biblioteca, ripristinarono la foresteria per l'accoglienza di poveri e pellegrini.

Nel Seicento un enorme incendio e le necessità economiche della Repubblica di Venezia impegnata contro i Turchi indussero Papa Alessandro VIII a decretare la soppressione dell'Abbazia, che fu venduta all'asta. La acquistò la famiglia bergamasca dei Carminati, che ne fece un'azienda agricola con annessa la residenza padronale. Nel 1950 gli eredi dei Conti Carminati cedettero l'ex Abbazia alla Parrocchia di Carceri, che ne ha promosso il restauro.

Della antica struttura oltre alla chiesa restano i chiostri. Il chiostrino romanico costruito dai primi Padri Agostiniani sopravvive oggi per un solo lato. Ventiquattro sono le colonnine in marmo rosso di Verona che sostengono altrettanti capitelli e archetti, formando una struttura leggera e piacevole. Al centro era posto un lavabo, sostituito oggi da una fontana dello stesso marmo rosso delle colonne. Adiacente al chiostrino è il Chiostro Rinascimentale costruito a metà Cinquecento dai Camaldolesi. In origine questo chiostro ospitava le aule di studio e di riposo. In mezzo al chiostro si trova un pozzo con lo stemma dei Camaldolesi, che propone due colombe che si dissetano dallo stesso calice.

L'attuale chiesa nel 1686, ricostruita sui resti delle due precedenti ad opera dei Camaldolesi, venne consacrata dal Vescovo di Padova San Gregorio Barbarigo nel 1686. Sulla facciata della chiesa all'interno delle nicchie dell'ordine superiore si trovano le statue dei santi Pietro e Paolo. Alle estremità ci sono quelle di san Benedetto, fondatore dei Benedettini e san Romualdo fondatore dei Camaldolesi. L'interno presenta un soffitto a vela, mentre dall'ingresso si susseguono sulla destra tre cappelle e gli altari di sant'Isidoro, della Madonna e quello della Crocifissione. A sinistra troviamo gli altari di santa Lucia con sant'Antonio da Padova, l'altare di san Bellino Vescovo di Padova e l'altare di san Romualdo. Ai lati del presbiterio si trovano due lunette dipinte, mentre al di là del Presbiterio rimane il Coro, che ospitava pregevoli stalli, venduti dai Conti Carminati, e oggi visibili nel Duomo di Chioggia e nel Palazzo Ducale di Venezia.

 

 

Francesco de' Rossi detto il Salviati

Questo pittore è sovente indicato semplicemente come Francesco Salviati. Nacque a Firenze nel 1510 ed è stato uno dei massimi esponenti del manierismo italiano.

Amico Giorgio Vasari, che gli dedicò un capitolo ne Le vite, era figlio del tessitore di velluti Michelangelo, e fin da piccolo dimostrò un interesse precoce per l'arte. Entrò a bottega da Dionigi da Diacceto, rinomato orafo, nonostante il parere contrario del padre. Veloce nell'apprendere, nel 1524 era passato allla bottega di Giuliano Bugiardini, dove strinse amicizia con Giorgio Vasari.

La sua prima educazione pittorica prese a modelli Michelangelo, che in quegli anni lavorava a San Lorenzo, e Andrea del Sarto, tuttavia dopo un viaggio a Roma nel 1531, si avvicinò alle novità di Raffaello.

Capolavoro del secondo periodo romano dell'artista (1541-1543) è l'affrescatura della Cappella dei Margravi di Brandeburgo nella Chiesa di Santa Maria dell'Anima. Successivamente il suo stile si fa più decorativo e calligrafico, come nelle eleganti Storie di Furio Camillo nella Sala delle Udienze a Palazzo Vecchio del 1544, che risentono dell'influenza del Parmigianino. In seguito espresse una pittura elegante, e allo stesso tempo robusta, quale si rileva nella Carità degli Uffizi o nella Deposizione per il refettorio di Santa Croce. Le Tre Parche nella Galleria Palatina riflettono l'adesione ai modi di Michelangelo, a cui fu a lungo attribuita la tavola. Tra il 1548 e il 1563 lavora a Roma, lavorando a numerosi e grandiosi cicli di affreschi nell'Oratorio dei Piceni, nell'Oratorio di San Giovanni Decollato, nel Palazzo della Cancelleria e nel Palazzo Farnese. Fu lui con l'amico Giorgio Vasari a recuperare i tre pezzi del braccio del David di Michelangelo che era stato danneggiato durante i tumulti del 1527 per scacciare i Medici da Firenze. Muore nel 1563.