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opera omnia di sant'agostino:  DE MAGISTRO

Agostino e Adeodato opera del maestro Silvano Crippa

Agostino e Adeodato di Silvano Crippa

 

 

DE MAGISTRO

 

 

 

Il De Magistro è stato composto nel 389 poco dopo la conversione, al suo ritorno a Tagaste. Nasce dunque in momento in cui Agostino tenta di definire il rapporto tra fede e ragione, anticipando alcuni contenuti delle grandi opere del suo periodo più maturo.

Il De Magistro è uno degli ultimi scritti di Agostino in forma di dialogo, una delle ultime occasioni in cui viene utilizzato il metodo dialettico per la formazione della persona, che gli derivava dalla sua formazione platonica. Vengono trattati sostanzialmente due temi, strettamente connessi tra loro: da un lato il rapporto tra i segni e i significati (un tema tipico di quella che oggi chiamiamo filosofia del linguaggio) e dall'altro la natura dell'apprendere e dell'insegnare. Più esattamente viene discusso chi può insegnare, chi è il maestro, e, affrontando un tema chiaramente pedagogico, se si può apprendere da un altro.

I due temi sono abbastanza affini. In realtà unica è la questione che sta a cuore ad Agostino: egli  intende definire come e da chi l'uomo possa apprendere la verità che dà la felicità. La apprende dagli altri uomini attraverso i loro discorsi, le parole? O dalla esperienza sensibile?

La risposta segue un'altra direzione: per Agostino il vero maestro è solo quello interiore, il Cristo-Logos che è in noi: la verità non può essere appresa dal mondo esterno, fatto di parole e di segni che rimandano sempre ad altre parole e ad altri segni, ma deve essere appresa dal mondo interiore.

Tutto ciò esige un approccio diverso rispetto al mondo dei segni che utilizziamo quando entriamo in relazione con altri uomini e con le cose. I temi del De Magistro sono certamente argomenti che appartengono alla filosofia del linguaggio e alla pedagogia, ma sullo sfondo si avverte il profilo platonico e neoplatonico. Si trattano temi sul tipo qual è la vera natura dell'anima, come essa possa partecipare della verità che, in sé, non appartiene affatto al mondo in cui viviamo. La domanda che si pone Agostino è come la mente dell'uomo possa accedere alla più intima verità di se stesso, che in realtà lo trascende.

Il dialogo si svolge tra Agostino e suo figlio Adeodato ed è probabile che si basi su un dialogo effettivamente avvenuto.

La prima parte (§ 1-18) si apre con la domanda di Agostino su quali siano le funzioni del linguaggio. Nella risposta Agostino ne individua due, che sono una ripresa di tesi stoiche: insegnare e far ricordare. E tutto questo anche nel caso che si canti o si preghi. Nel canto, la bellezza della melodia non vuole certo né insegnare né far ricordare; tuttavia questa bellezza non appartiene al linguaggio in quanto tale, ma si aggiunge alle parole che usiamo. Nella preghiera, certo non vogliamo insegnare o far ricordare qualcosa a Dio, ma "le parole servono a spingere noi stessi a ricordare o a far sì che altri siano spinti a ricordare o siano istruiti per nostro mezzo".

Agostino e Adeodato discutono allora a lungo sul passaggio dal segno al significato. In un lungo passo viene analizzato il significato delle singole parole di un verso di Virgilio: Si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui (Eneide 2, 659). La questione più seria la pone la parola nihil, perché non si trova qualcosa che possa esistere e corrisponda a nihil: viene suggerita l'ipotesi che con questa parola "si indica forse la stessa disposizione della mente quando cerca qualcosa e scopre che non esiste". L'analisi delle altre parole mostra poi con chiarezza che discutendo tra loro Agostino e Adeodato non stavano affatto passando dalla parola come segno al significato delle parole, ma stanno semplicemente tentando di spiegare il significato di una parola con altre parole, sostituendo quindi parola a parola e restando sempre dentro un mondo di segni senza mai andare davvero al significato.

In questa discussione si realizza una ricerca in comune dove il gioco dialettico non è usato da Agostino soltanto per educare il figlio, ma anche come metodo di ricerca. Colui che conduce il gioco è Agostino, ma il gioco dialettico è costruito in modo che Adeodato faccia da specchio alla ricerca di Agostino.

La seconda parte del De Magistro (§ 19-31) inizia con una precisazione importante di Agostino: non stiamo facendo questa analisi dialettica per divertirci con argomenti futili, ma per una ragione precisa ed elevata: per "irrobustire le forze e lo sguardo della mente" in vista di un cammino che ci conduca "alla vita felice ed eterna", che dà la conoscenza della verità, e cioè di Dio, che è la verità stessa. Questo è dunque il vero scopo del lavoro dialettico che si sta compiendo. Riprendendo l'argomento, Agostino e Adeodato, dopo un tortuoso percorso dialettico, giungono alla conclusione che il rimando dalle parole ad altre parole, e quindi da segni a segni, non permetterebbe affatto alcun tipo di comprensione se non vi fosse ad un certo punto un rimando a ciò che i segni significano, cioè al significato.

Con l'avvio della terza e ultima parte del De Magistro (§ 32-46), viene abbandonato il metodo dialettico: ora è Agostino che conduce da solo un lungo discorso.

L'avvio è questo: è possibile insegnare senza ricorrere ai segni, ma mostrando direttamente le cose stesse. Agostino chiarisce la sua tesi: "nulla si impara mediante i segni con cui viene indicato". La parole capo per indicare la testa di un uomo mi è comprensibile come segno soltanto perché so che il suo significato è la testa di un uomo, altrimenti è per me soltanto un suono, non un segno. Quindi "è il segno ad essere imparato in seguito alla conoscenza della cosa, anziché la cosa in seguito all'osservazione del segno". Le parole quindi "non possono mostrarci le cose per farcele conoscere", possono soltanto stimolarci alla loro ricerca: quindi o a ricordare ciò che sappiamo già o a ricercare qualcosa di nuovo. La conoscenza delle parole rimane solo conoscenza di parole, nulla più. Mi insegna invece qualcosa chi presenta ai miei sensi o alla mia mente le cose che desidero conoscere. Pertanto per le cose esteriori la fonte dovranno essere i sensi; per le cose interiori (e quindi per l'intero mondo non sensibile, per ciò che riguarda il mio intelletto) la fonte non potrà che essere nella mia interiorità: quella luce interiore, parallela alla luce esteriore che permette ai miei occhi di vedere, che abita dentro di noi. Scrive Agostino riprendendo una citazione da San Paolo, che "Il Cristo, cioè l'immutabile Virtù di Dio è l'eterna Sapienza" . Il De Magistro si conclude quindi con un ammonimento contro una sapienza fatta soltanto di parole: alle parole non va attribuita "più importanza di quanta sia opportuna", perchè il solo maestro di tutti è in cielo. Ma questo maestro è anche dentro di noi. Il Maestro interiore ci mostra direttamente la verità. "Per mezzo delle parole l'uomo è soltanto spinto a imparare". La felicità diventa così il frutto della visione diretta della verità.