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luigi beretta: LA VILLA DI VERECONDO NEI DIALOGHI DI S. AGOSTINO TRA STORIA ED ARCHEOLOGIA

 Tasselli di mosaico scoperti da Fiorenzo Moreschi e Giussani Peppino nell'area dell'attuale parco storico-archeologico S. Agostino

Tasselli di mosaico provenienti dal parco archeologico

 

 

 

 

LA VILLA DI VERECONDO NEI DIALOGHI DI S. AGOSTINO TRA STORIA ED ARCHEOLOGIA

di Luigi Beretta

 

 

 

Il motivo che ha condotto a trattare questo argomento nel presente convegno risiede nella tradizionale identificazione di Cassago con il rus Cassiciacum, dove sorgeva la villa di Verecondo. Per questa ragione ampi saranno i riferimenti a questo aspetto della questione.

In ogni caso affrontare il tema proposto è certamente impegnativo a motivo sia della complessità dell'argomento sia soprattutto per la difficoltà, ormai secolare, di approdare a conclusioni che ottengano più consensi che critiche. Nonostante le ricerche di molti storici e studiosi, la dispersa raccolta di elementi su cui poter fare affidamento ha anzi paventato nel passato la possibilità stessa di una indagine positiva. La questione tuttavia è stimolante e offre l'opportunità non solo di indagini storiche ma addirittura di approfondimenti metodologici.

Concretamente essa si sviluppa su diversi piani analitici, che affrontano e intrecciano armonicamente aspetti di interesse generale con problemi più specifici e particolari. L'interesse generale è dettato senz'altro dal coinvolgimento della figura di S. Agostino, che durante il soggiorno nella villa dell'amico Verecondo maturò la definitiva conversione al cristianesimo preparandosi al battesimo, che segnerà il suo ritorno in seno alla Chiesa cattolica.

L'interesse particolare sgorga invece dal desiderio di localizzare e di conoscere oggi il luogo dove sorgeva la villa di Verecondo, una località che Agostino paragonò al paradiso. Un eccezionale ed appassionato ricordo di quel luogo ci è stato assicurato in un passo del IX libro delle Confessioni, quando testualmente Agostino scrive:

« ... Tuoi siamo, lo attestano le tue esortazioni e poi le tue consolazioni: fedele alle promesse, rendi a Verecondo, in cambio della sua campagna a Cassiciaco, ove riposammo in te dalla bufera del mondo, l'amenità in eterno verdeggiante del tuo paradiso, poiché gli hai rimesso i suoi peccati sulla terra, sulla montagna pingue, la tua montagna, la montagna ubertosa ... » (1)

La lettura di questo brano, ricco di toni delicatamente poetici e intensamente prodigo di riferimenti culturali e spirituali, è un ottimo stimolo alla ricerca, poiché testimonia l'importanza di questa località nella evoluzione spirituale di Agostino. Anche l'insieme delle opere che è noto sotto il titolo di Dialoghi lo conferma ed è una viva e fresca documentazione delle feconde esperienze spirituali e culturali vissute da Agostino e dai suoi amici africani a Cassiciaco. La riappropriazione di queste ricchezze interiori è motivo privilegiato di questo studio, che si pone tuttavia principalmente l'obiettivo più limitato di far emergere tutte quelle condizioni ambientali, che le produssero, con particolare riferimento proprio alla località, il rus Cassiciacum, e alla villa di Verecondo che ospitarono Agostino e i suoi. La relazione si sviluppa pertanto lungo tre direttrici: innanzitutto la verifica della esistenza, della storicità e della tipologia della villa di Verecondo, in secondo luogo un tentativo di localizzazione del rus Cassiciacum rivissuto alla luce della tradizione e della storia lombarde e infine una analisi delle risultanze e delle indicazioni che emergono dalle scoperte archeologiche avvenute a Cassago e in Brianza, che hanno attinenza con il nostro argomento. Non tratteremo pertanto l'evoluzione spirituale di Agostino e l'opera letteraria prodotta a Cassiciaco dato che è di maggior pertinenza della filosofia e della patristica, alla cui letteratura specifica si rimanda esplicitamente. (2)

 

Storicità della villa di Verecondo

A tutt'oggi la villa di Verecondo non è stata ancora scoperta né individuata. Questa situazione ha permesso a vari autori di sostenere la sua inesistenza e di attribuire alla campagna di Cassiciaco un significato puramente simbolico (3) o di relativa storicità (4).

Tuttavia bisogna pure ammettere che in linea di principio la mancata scoperta non significa che la villa non sia mai esistita: può significare solo che non si sa ancora dov'è o dove andarla a cercare. Può anche significare che in realtà la questione si è sviluppata solo a livello letterario e che nessuno si è mai preoccupato, come di fatto è successo, di organizzare a tal fine delle campagne di scavo in seguito a fortuiti od occasionali rinvenimenti archeologici. Altri autori perciò, e sono la stragrande maggioranza, hanno dato credito all'esistenza della villa, sia pure con varie motivazioni (5).

Nell'uno e nell'altro caso sono state utilizzate a proprio sostegno sostanzialmente testimonianze letterarie fra cui principalmente gli scritti di Agostino.

Il principio ispiratore in positivo di questo criterio letterario discende dall'ipotesi che l'esistenza della villa può essere verificata, sia pure indirettamente, dalla sua citazione in altri brani, nonché da episodi che la abbiano interessata. E l'esplorazione di testi contemporanei effettivamente garantisce nuove informazioni ed anzi apre nuove prospettive e nuovi orizzonti di ricerca. E' ancora lo stesso Agostino a ricordarla sia in altri due passi delle Confessioni 6 che nei Dialoghi, un insieme di opere giovanili, che le Retractationes (7) datano proprio all'epoca del suo soggiorno a Cassiciaco fra il 386 e il 387 d.C. La lettura dei Dialoghi è a questo proposito esemplare poiché vi è descritto spesso minuziosamente cosa accadde a Cassiciaco e quale importante ruolo assunsero la campagna e la villa di Verecondo per Agostino, per i suoi familiari e per i suoi amici e discepoli africani in quel particolare momento di grandi decisioni nello spirito. Si comprende così appieno il senso di quel fervido e dolce ricordo che scaturisce dal IX libro delle Confessioni.

Benché scritte a distanza di forse 15 anni l'intensità di quelle parole è un canto eterno alla memoria di un amico, Verecundus, e di un luogo, Cassiciaco, che seppero commuoverlo a tal punto nella ricerca di Dio da invocare a paragone il paradiso.

Questi Dialoghi sono una testimonianza diretta e spesso spontanea dove l'ambiente e il paesaggio assumono un valore di rara efficacia letteraria, di cui Agostino si compiace, per la quiete che offrono e per i numerosi spunti che si aprono alla riflessione interiore o per i dibattiti con gli amici del cenacolo africano. In questo contesto la villa di Verecondo occupa un posto di primo piano, che non si riduce a finzione letteraria nè a copione ove narrare fatti o dibattiti, ma si espande in una storicità letterariamente significativa per poter produrre un dialogo filosofico. Questa storicità della villa di Verecondo, quale la conosciamo dai Dialoghi, è implicitamente confermata dalle citazioni del IX libro delle Confessioni, dove il rapido svolgersi del pensiero di un Agostino maturo e volto a cogliere l'essenza spirituale delle sue esperienze passate, si radica profondamente nella storia da lui vissuta in una rielaborazione che non concede spazio alla sia pur minima finzione.

Che si tratti di una esperienza che fu concretamente vissuta e che non c'è dicotomia tra fatto storico e ricordo letterario non v'è dubbio, soprattutto in ragione della mentalità di Agostino e delle sue idee circa la memoria: vi sono vari passi della sua Lettera 7 del 388-391 d. C., indirizzata a Nebridio, che illustrano molto bene il suo pensiero circa questo tema. Dopo aver ricordato all'amico, che fu assistente di Verecondo a Milano grazie ai buoni uffici e all'insistenza degli amici africani e di Agostino in particolare, che "si dimostra falsa la tua opinione che l'anima possa immaginare oggetti corporei anche senza servirsi dei sensi " (8), Agostino passa ad esaminare la varietà dei ricordi, delle fantasie e delle immaginazioni. "Io vedo - sostiene Agostino - che tutte queste immaginazioni che tu, con molti, chiami fantasie, si dividono molto opportunamente in tre categorie: la prima delle quali è stata impressa (in noi) dalle cose percepite attraverso i sensi, la seconda da quelle opinate e la terza da quelle trovate razionalmente. Esempi del primo tipo si hanno quando la mia mente si raffigura il tuo volto o Cartagine o il nostro defunto amico Verecondo e qualsiasi delle altre cose che esistono ancora o sono scomparse, che però io ho visto e sentito." (9)

Verecondo dunque è realmente esistito, così come la sua campagna, la sua villa e Cassiciaco.

 

a. Verecondo

Ma chi era Verecondo? Le nostre informazioni al riguardo sono scarse e sono praticamente tutte ricavate dai testi agostiniani. Dalle Confessioni veniamo a sapere che Verecondo era un cittadino milanese che esercitava la professione di maestro di scuola o di grammatico (10). Probabilmente era un collega di Agostino con il quale intrattenne rapporti di grande intimità dettati dalla consuetudine e dalla familiare e quotidiana frequentazione.

Verecondo inoltre aveva amici comuni con Agostino, scelti fra quella cerchia di componenti della comunità africana, cui apparteneva lo stesso Agostino, che soggiornarono a Milano fra il 384 e il 387 d. C. per motivi economici o politici da mettere in stretta relazione alla presenza in questa città della corte imperiale. Da questo gruppo infatti Verecondo ricevette un indispensabile aiuto per il suo lavoro: fu Nebridio a diventare suo assistente cedendo alle insistenti sollecitazioni di Agostino e degli amici comuni. Nebridio era nativo di un paese presso Cartagine, dove il ricco padre possedeva una splendida tenuta ed era giunto a Milano al seguito di Agostino, con il quale, stretto da una amicizia di lunga data, aveva in comune un'ardente passione per la filosofia e la ricerca della verità (11).

Non fu presente a Cassiciaco a causa dell'impegno assunto con Verecondo, tuttavia intrattenne con Agostino un vivace scambio epistolare (12).

L'amicizia fra Nebridio e Verecondo era senz'altro sincera e tenace, così come quella fra Verecondo e gli altri amici africani. Racconta Agostino che "Verecondo desiderava vivamente, ce ne chiese in nome dell'amicizia, di avere dal nostro gruppo quell'aiuto fedele, di cui troppo mancava." Nebridio accettò di aiutarlo, dimostrando uno squisito senso dell'amicizia poiché, come racconta Agostino "non vi fu attratto dalla brama dei vantaggi, che, se soltanto voleva, poteva ricavare più abbondanti dalla sua cultura letteraria, bensì, da amico soavissimo ed arrendevolissimo quale era, per obbligazione di affetto non volle respingere la nostra richiesta."

Nebridio disimpegnò l'incarico con intelligenza "evitando con saggezza di farsi notare dai grandi di questo mondo, scansando così ogni inquietudine interiore che poteva venirgli da quella parte." (13) Quest'ultima osservazione di Agostino ci induce a credere che Verecondo fosse insegnante presso la scuola imperiale o comunque che intrattenesse rapporti con personaggi altolocati.

Verecondo non partecipò al ritiro di Cassiciaco, probabilmente neppure durante la pausa estiva, poiché non si sentì di condividere l'esperienza cristiana che lì si sarebbe vissuta. Narra Agostino che proprio per questo motivo "consolavamo Verecondo, rattristato, senza danno per l'amicizia, di quella nostra conversione, esortandolo all'osservanza fedele dei doveri del suo stato, ossia della vita coniugale." (14)

Agostino ritorna nuovamente a occuparsi della vita dell'amico Verecondo e delle vicissitudini occorsegli fra il 386 e il 387 d. C. in un altro passo delle Confessioni, dove tratteggia la personalità dell'amico, le sue inquietudini, i suoi desideri e ne loda la straordinaria generosità con una invocazione a Dio intensamente emotiva. Narra dunque Agostino che verso il 386 d. C. "la nostra fortuna consumava d'inquietudine Verecondo. Egli vedeva come, a causa dei vincoli tenacissimi che lo trattenevano, sarebbe rimasto escluso dalla nostra società. Non ancora cristiano, aveva una moglie credente, ma proprio costei era una catena al piede, che più di tutte le altre lo ritardava fuori dal cammino che avevamo intrapreso. D'altra parte diceva di voler rinunziare a farsi cristiano, se non poteva esserlo nel modo appunto che gli era precluso. Però si offrì molto generosamente di ospitarci per tutto il tempo che saremmo rimasti colà. Lo ricompenserai, Signore, con usura alla resurrezione dei giusti, come già lo ricompensasti concedendogli il loro stesso capitale. Noi, trasferiti ormai a Roma, eravamo assenti, quando, assalito nel corpo da una malattia, si fece cristiano e fedele, per poi migrare di questa vita. Fu da parte tua un atto di misericordia non soltanto nei suoi riguardi, ma anche nei nostri, poiché sarebbe stato un tormento intollerabile ripensare all'insigne generosità dell'amico verso di noi senza poterlo annoverare nel tuo gregge." (15)

Recentemente il contenuto del testo agostiniano è stato riletto dalla Agosti sollevando il dubbio che la villa di rus Cassiciacum non sia appartenuta a Verecondo bensì a Flavio Manlio Teodoro, importante uomo politico e prestigioso filosofo neoplatonico della seconda metà del IV secolo d. C. (16).

Come Claudiano attesta nel suo Panegyricus (17), Manlio Teodoro dopo un brillante cursus honorum, che raggiunse l'apice con la prefettura della Gallia, nel 383 d. C. decise di abbandonare la carriera politica per ritirarsi a vivere in un suo podere nella campagna milanese. Qui trascorse più di dieci anni immerso nella meditazione e nelle attività letterarie di stampo neoplatonico, di cui restano pochissime tracce, sopravvissute nel trattato De Metris (18). Agostino, che era giunto a Milano nel 384 d. C., conobbe Teodoro probabilmente frequentando un circolo di aristocratici cristiani neoplatonizzanti al quale apparteneva anche il vescovo Ambrogio (19).

Confesserà infatti Agostino nel De Beata Vita: "alfine giunsi in questa regione e qui conobbi la stella polare cui affidarmi. Avvertii infatti spesso nei discorsi del nostro vescovo e talora nei tuoi, che all'idea di Dio non si deve associare col pensiero nulla di materiale e neanche all'idea dell'anima che nel mondo è il solo essere assai vicino a Dio ... e letti pochi libri di Plotino, di cui so che tu Teodoro sei grande ammiratore ... m'infiammai talmente da voler subito levare tutte le ancore." (20)

Gli incontri con Manlio Teodoro furono certamente proficui per Agostino negli anni che vanno dal 384 al 386 d. C. e stimolarono una sincera e profonda amicizia fra i due. Agostino nutriva in quel periodo una grande ammirazione per Teodoro, che risuona efficacemente negli elogi tessuti nel De Beata Vita, uno dei Dialoghi scritti a Cassiciaco. Vir humanissime atque magne lo considera nel proemio dell'opera e più avanti lo propone interlocutore privilegiato, capace di comprendere i suoi intenti e di fornirgli l'aiuto desiderato (21).

L'introduzione del De Beata Vita con la sua dedica a Manlio Teodoro sotto forma colloquiale esprime in ogni caso che costui non fu presente a Cassiciaco. Nè del resto il contenuto degli altri Dialoghi può attestare il contrario. Nelle Confessioni Teodoro non è neppure citato. Questo aspetto della questione è rilevante poiché implicitamente contraddice l'ipotesi della Agosti (22), dato che è difficile ammettere che Manlio Teodoro, impegnato da alcuni anni in una esperienza spirituale non dissimile, non abbia accolto presso di sè l'amico Agostino, che quale discepolo, ne avrebbe condiviso la vita ascetica dedicata alla meditazione e allo studio della filosofia. Più che ospite, Manlio Teodoro può essere considerato un efficace ispiratore di questo genere di vita, che raccolse la favorevole adesione di Agostino e dei suoi amici. Si può anche supporre che Manlio Teodoro poteva essere assieme a Romaniano una di quella "decina di persone, alcune delle quali molto facoltose" (23), che nel 385 d. C. avevano deciso con Agostino di realizzare una società di uomini animati dal desiderio di vita comune, che purtroppo invece fallì sul nascere (24). Non è da escludere che fosse proprio Manlio Teodoro colui che si era offerto di dare ospitalità al gruppo in questo primo tentativo andato a vuoto.

Esperienze di questo genere erano forse comuni in quegli anni (25) e potevano avere successo quando qualche generoso ospite metteva a disposizione le sue proprietà di campagna. Così fece indubbiamente Verecondo nel 386 d. C. quando offrì ad Agostino ed agli amici africani l'uso delle sue possessioni a Cassiciaco. Che fossero proprio sue lo attesta nuovamente Agostino in un passo del De Ordine quando rivolgendosi al comune amico Zenobio testualmente scrive "il dolore di petto mi ha fatto abbandonare l'insegnamento, sebbene già, anche senza tale evenienza, stessi tentando di rifugiarmi nella filosofia. Mi condussi subito nella villa del nostro buon amico Verecondo. Dovrei dire col suo consenso? Conosci bene la sua schietta generosità verso di tutti, ma particolarmente verso di noi. Ivi discutevamo assieme gli argomenti che ritenevamo giovevoli." (26)

E' difficile stabilire la genesi dei possessi di Verecondo nella campagna di Cassiciaco. In effetti non sappiamo neppure se era un milanese autoctono oppure un immigrato del IV secolo, quando con lo stabilirsi della corte imperiale, l'inevitabile indotto commerciale, militare ed anche culturale attirò nella metropoli molteplici persone in cerca di fortuna, di un lavoro o di una sistemazione. Verecundus è comunque attestato in diverse iscrizioni nel milanese (27), a Bergamo (28) e in Umbria (29) che però non sembrano avere una diretta relazione con il nostro, poiché sono anteriori alla fine del IV secolo d. C.

Tra le iscrizioni milanesi potrebbe rivelare una significativa coincidenza la lapide recentemente scoperta in città nella chiesa di S. Simpliciano, che riporta la dedicazione "I(ovi) O(ptimo) M(aximo) DECIA VERECUNDUS DA. CUM CONIUG(e) ET FILIIS V(otum) S(olvit) L(ibens) M(erito)", dove curiosamente accanto a Verecondo compare un DECIA, che richiama un analogo DIICIA (da leggersi DECIA) riscontrato in un bollo in planta pedis di un frammento di patera scoperto in località Pieguzza a Cassago. Verecundus fu anche un fabbricante di ceramiche largamente attestato oltre che ad Aquileia anche nella Romagna, a Rimini, a Budrio e a Russi. La firma Verecundus compare in un bollo pediforme anatomico sia pure a lettura incompleta (.ERECV.) in un frammento conservato nella raccolta del Museo di Cremona, relativo a un fondo di patera (30). Nel catalogo Oxé-Comfort sono indicati col nome di Verecundus tre fabbricanti, uno attivo in pianura padana, uno nell'Italia centrale e uno in Gallia.

La scoperta più interessante relativa a un Verecundus fu comunque fatta nel 1875 a Valle Guidino. In questa frazione di Besana Brianza, una cittadina della Brianza centrale, fu estratta da un pozzo, che aveva già consegnato altre epigrafi, una lapide che si ruppe in cinque pezzi per l'incuria dei lavoranti. Sul lato centrale era tracciata a rozzi caratteri l'iscrizione

I(ovi) O(ptimo) M(aximo) VERECUNDUS (31)

Poiché l'invocazione riporta il nome del dedicante formato da un solo elemento, per il noto fenomeno della oscillazione del diacritico ossia dell'unico nome con cui un individuo era noto ai suoi contemporanei nel tardo impero, si può stabilire con relativa sicurezza che la lapide è posteriore al 300 d.C. (32). Difficile pertanto è stabilire quali fossero tutti gli elementi del suo apparato onomastico e quale era dunque il vero nome polionomico del dedicante.

La tardività dell'epigrafe e il nome tardoantico (33) non escludono che si possa riconoscere nel dedicante proprio il Verecondo agostiniano, ancora pagano nel 386-387 d.C., o qualcuno che apparteneva alla sua famiglia. La lapide di Valle Guidino era inoltre sagomata posteriormente, il che è indizio sicuro della sua riduzione a struttura di decorazione da altro uso cui fu originariamente destinata.

Nè si può escludere che si tratti di materiale di riporto da luoghi circonvicini e che provenga proprio dal rus Cassiciacum, situato a pochi chilometri di distanza.

 

b. La villa e la campagna di Cassiciaco

Nelle Confessioni, così come nei Dialoghi, Agostino per riferirsi ai possedimenti di Verecondo utilizza il termine villa: tuttavia in più di una occasione ne parla usando il vocabolo domus.

La distinzione, pur raffinata linguisticamente, è ineccepibile nei testi agostiniani: villa indica il podere, la fattoria, la casa di campagna, il complesso del possedimento rurale con l'insieme degli edifici di campagna annessi, sia ad uso agricolo che abitativo, domus invece esprime l'abitazione padronale, architettonicamente elegante e dotata dei servizi tipici della civiltà signorile romana, quali ad esempio i balnea. Agostino ribadirà questo concetto di villa anche in altre occasioni (34), il cui significato del resto si accorda con l'evoluzione linguistica che il termine subì per tutto il medioevo, quando indicò appunto le fattorie di campagna e per inferenza il villaggio di campagna o il piccolo comune rurale che ne derivò. La vitalità linguistica del termine è attestata un po' ovunque da molteplici toponimi oltreché da patronimici, di cui si è conservata traccia nel milanese (35).

Le Confessioni pur confermandoci l'esistenza della villa di Verecondo, sono piuttosto avare di notizie circa la sua architettura. Per questo argomento dobbiamo riferirci esclusivamente ai Dialoghi e in particolare alle opere del Contra Academicos e del De Ordine. In questa composizione di dati e nel tentativo di definire un quadro che offra una ricostruzione verosimile della villa di Verecondo è opportuno confrontare le notizie agostiniane con le conoscenze acquisite in secoli di scoperte e di studi archeologici. Innanzitutto è necessario rammentare che nell'Italia settentrionale e soprattutto nell'area lombarda le ville rustiche rinvenute non hanno mai evidenziato quei caratteri di fasto e di vastità, che invece hanno rivelato quelle dell'Italia centro-meridionale.

In Lombardia e nell'alto milanese le ville infatti raramente sono caratterizzate da latifundia o dalla contemporanea presenza di impianti industriali o artigianali. I resti archeologici rivelano piuttosto in questa regione un tipo di villa di limitate dimensioni a carattere rustico, ove coesistevano destinazioni agricole accanto a quelle residenziali o di villeggiatura, che attestano l'esistenza di piccoli e medi proprietari terrieri, che vivevano in campagna in fattorie isolate (36).

Questo singolare sviluppo della proprietà è del resto confermato dalla fitta rete di toponimi prediali che si riscontrano sul territorio lombardo. Nel IV secolo d.C. l'uso del territorio e lo sviluppo urbanistico subirono per di più un consistente riassetto in conseguenza dello stabilirsi in Milano di una residenza imperiale. Incominciò così a gravitare in questa regione l'entourage di corte, dell'alta burocrazia e delle milizie a questa collegate. La nuova situazione con ogni probabilità sviluppò il numero delle fattorie per sostenere le maggiori richieste alimentari, e moltiplicò le ville in tutto il territorio circostante, rinomato per la sua salubrità (37), specialmente sui colli a nord di Milano, accentuandone la destinazione suburbano-residenziale oltre a quella prevalentemente agricola dei secoli passati. E' in un contesto storico-geografico di questo tipo che ci imbattiamo nelle proprietà di Verecondo, acquisite in un entroterra civilizzato, a destinazione agricolo-residenziale e nello stesso tempo luogo di transito fra la neocapitale cisalpina e i valichi montani.

Tutti questi aspetti sono ben documentati negli scritti di Agostino sia pure senza riferimenti esaustivi. La vocazione agricola dell'insediamento di rus Cassiciacum ad esempio è spesso ricordata esplicitamente, ma non mancano episodi che di fatto la richiamano.

In più occasioni Agostino infatti ricorda di essersi occupato della sorveglianza dei lavori agricoli, che si svolgevano nei possessi di Verecondo (38): in altre si lamenta delle cure che aveva dovuto prestare al disbrigo delle faccende domestiche e alla predisposizione dei lavori agricoli (39), attività queste che lo distoglievano dall'otium che si era imposto con il cenacolo di amici e parenti.

Attorno alla villa si sviluppavano campi fertili (40) coltivati da contadini (41) e vasti prati variamente ondulati (42), dove si poteva gradevolmente passeggiare (43).

In tali circostanze si muovono in sottofondo i coloni della villa, rustici addetti ai lavori, ma nulla trapela sul loro stato e sulla loro condizione sociale per quanto Agostino si soffermi talora a conversare con loro. Rustici li definisce Agostino, con un termine che deriva da rus, «campagna», in contrapposizione a urbs, «città». Rusticus non è soltanto il contadino: è anche l'individuo «semplice» e «modesto», oppure, in senso peggiorativo, lo «zotico», il «rozzo», l'«inurbano», l'«incivile».

In questo caso la terminologia esprime in modo chiaro la realtà dei rapporti sociali. Il significato di rusticus è diverso da quello dei termini agricola e colonus, che si collegano a differenti aspetti della vita rurale e che sono connessi al verbo colo, «coltivare», come ricorda lo stesso Agostino nella Città di Dio (10, 1): "da questo verbo prendono nome sia gli agricoltori che i coloni." (44) Oltre ai rustici Agostino suggerisce la presenza di servi, che abitavano nella casa padronale, fra i quali va forse annoverato l'ignoto puer de domo, che un giorno si avvicina ad annunciare che il pranzo è pronto (45).

La formula usata in quest'ultimo caso non fuga il dubbio che si trattasse di un giovane schiavo (46) o comunque d'un servo legato alla proprietà fondiaria. In altre occasioni Agostino lascia intuire la presenza di attività agricole. Una volta ad esempio ricorda che la sua camera da letto era infestata da topi, definiti da Licenzio sia col termine di mus (47) che di sorex (48). Lo scompiglio che essi provocano una notte significativamente presuppone la presenza nelle vicinanze di provviste o più probabilmente di granai, fienili, ripostigli o stalle coloniche, la pars rustica cioè della villa. Un'altra volta Agostino, avviatosi alle terme, scorge dinanzi alla porta dei balnea due galli e si sofferma pensieroso ad osservare una zuffa che avevano ferocemente incominciato (49).

Si può dedurre che il pollaio non fosse molto lontano e non fossero lontane neppure le cucine dato che nell'antichità classica un comune pregiudizio voleva che il fumo fosse salutare al pollame, per cui, se c'era posto, di solito si locava il pollaio proprio presso le cucine. Di altri allevamenti, oltre i volatili, Agostino non fa cenno, neppure di quello dei maiali, così comune nella Liguria romana (50). A Cassiciaco forse si produceva il miele (51), mentre dagli alberi non si ottenevano raccolti di frutta (52).

I boschi erano estesi e assicuravano il legno, un materiale poco frequente nell'arredamento delle case romane, ma qui forse più usato per l'abbondanza degli alberi. La folta vegetazione era una caratteristica tipica di questa regione, il cui ricordo sopravvive in varie testimonianze coeve.

Interessante è a questo proposito una citazione di Sidonio Apollinare (430-487) che, nel resoconto di un suo viaggio attraverso la Brianza nella seconda metà del V secolo d. C., ricorda il "Lambro algoso e l'Adda cerulo ... essi avevano le rive e il letto rivestiti a tratto a tratto di selve di querce e di aceri." (53)

Anche il goto Cassiodoro nelle sue Variae (XI, 14) accenna a questa ricchezza quando descrive le sponde del lago di Como: "Più in alto frondosi vigneti vanno serpeggiando su per la costa del monte, la cui vetta ricoprono, quasi fosse di capelli arricciato, ornamento naturale, densi boschi di castagno."

Prima di lui Claudio Claudiano (De bello gotico), descrivendo sul finire del IV secolo il viaggio del generale Stilicone in Italia contro i Goti di Alarico, scrisse "subito, là dove il Lario riveste le sue rive di ombrosi ulivi e con le sue dolci acque imita i flutti del mare, solca rapido il lago su di un piccolo scafo. Di là si arrampica per monti inaccessibili nei mesi invernali .."

Sappiamo che a Cassiciaco il legno era stato usato per produrre mobili 54, ma anche i canali che garantivano l'approvvigionamento idrico della villa erano in legno.

La villa di Verecondo si trovava dunque in aperta campagna, quantunque in posizione dominante, tant'è che Agostino per esprimere il percorso che lo conduceva ai campi e in particolare a un prato, dove, sotto un albero (55), amava soffermarsi a discutere e dialogare con i suoi, usa l'espressione descendere (56). I romani in effetti per questo genere di abitazioni rurali a carattere signorile abitualmente sceglievano luoghi soleggiati e ben in vista, possibilmente ai margini di un falsopiano o sulla china d'una collina e comunque in prossimità di corsi d'acqua e di vie di comunicazione.

Anche la villa di Verecondo presentava questi requisiti: oltre alla posizione elevata, Agostino infatti ne ricorda il felice orientamento, tanto da essere facilmente raggiunta dai primi raggi del sole, che penetravano dalla finestra della sua camera (57). Quanto alla disponibilità di acqua basti rammentare che la villa aveva propri balnea o bagni, dove frequentemente il cenacolo africano si riuniva al caldo durante le fredde o piovose giornate autunnali e invernali. Agostino li chiama balneolae (58), un vezzeggiativo che ne indica affettuosamente il gradito uso quotidiano e familiare.

A Cassiciaco erano costituiti da un locale, il caldarium o stanza da bagno calda, forse appartato o separato dal resto della villa (59) quantunque prossimo alle camere da letto (60).

Sicuramente è il luogo più citato della villa in quasi tutte le opere cassiciacensi ed è anche il più noto nella struttura architettonica. Agostino nel De Ordine lo descrive con precisione di particolari inusuale, ma in sintonia con il tema delle discussioni dibattute nel libro.

Osserva che l'accesso a questo locale era assicurato da due porte, una di lato e l'altra quasi centrale, con una disposizione che contrastava il suo gusto estetico. Tre finestre inoltre, una di mezzo e due di lato, diffondevano invece simmetricamente la luce nella stanza ad intervalli regolari, tanto che l'effetto ne risultava gradevole e architettonicamente armonioso (61). Di solito questo locale non mancava mai nelle abitazioni signorili in quanto per i romani il bagno era una consuetudine irrinunciabile. Il bagno caldo era un sollievo fisico quotidiano che non era negato neppure a servi e schiavi, che avevano l'opportunità di farlo nella abitazione del padrone. Nelle ville si poneva particolare cura nella costruzione di questi balnea, cercando di riprodurre l'aspetto delle monumentali thermae pubbliche.

Non sappiamo se a Cassiciaco esisteva anche l'apodyterium o spogliatoio, il tepidarium o stanza di passaggio e il frigidarium o stanza da bagno fredda, piccola, alta, sormontata da una cupola con un'apertura in mezzo: probabilmente non vi era annessa nè una piscina nè il gymnasium ove svolgere esercizi atletici. Nondimeno, pur nella loro semplicità, i balnea della villa di Verecondo riproducevano al dire di Agostino, l'ambiente che esisteva in quelle thermae, che aveva conosciuto a Roma e a Milano e che erano divenute in epoca imperiale il maggior centro della vita mondana cittadina, dove si riversava la gente libera dalle occupazioni pomeridiane.

Anche a Cassiciaco i balnea diventarono nella decadente stagione autunnale il naturale punto di ritrovo del cenacolo africano, dove ciascuno aveva l'occasione di parlare, conversare, discutere e dibattere i problemi filosofici introdotti da Agostino.

Per poter funzionare i balnea dovevano essere costantemente approvvigionati di acqua calda, che riscaldava l'ambiente sotto forma di vapori diffusi nei locali da un ingegnoso sistema di distribuzione attraverso suspensurae e parietes tabulati.

Ciò poneva due ordini di problemi oltre ad una appropriata tecnica costruttiva, e cioè il rifornimento di legna per alimentare il forno o ipocausto e la disponibilità di acqua corrente da far circolare nell'impianto. L'una e l'altra necessità erano risolte a Cassiciaco dalla disponibilità di legna, assicurata dalle estensioni di boschi che la circondavano, e dalla ricchezza di acque sorgive che al dire di Agostino venivano convogliate verso la villa grazie a dei canali di legno (62). Dopo l'uso le acque erano scaricate in una conduttura probabilmente in pietra, che Agostino chiama canalis (63) e Licenzio angustiis canalis (64), termini questi che ravvivano l'immagine di una conduttura forzata, probabilmente predisposta dalla attività umana. Parlando del fondo su cui scorreva l'acqua Agostino scrive "aqua strepebat silicibus irruens" accenna cioè a pietre o meglio ancora a blocchi di pietra, dura e forse lavorata (65).

Questo scolo non era molto distante dalla camera da letto di Agostino e una notte fu al centro della sua attenzione e di quella di Licenzio e Trigezio che dormivano con lui, a motivo della strana intermittenza sonora che produceva, simile a quella della pioggia (66). Questo episodio riportato nel De Ordine è stato al centro di un ampio dibattito provocato da argomentazioni tuttavia alquanto discutibili, introdotte a sostegno di un tentativo di localizzazione di Cassiciaco.

Esse sono estremamente significative per una valutazione comparata di diversi approcci metodologici ad un medesimo problema. Innanzitutto si scopre che vari autori probabilmente non hanno letto i brani 1, 3, 6-7 del De Ordine o se l'hanno fatto, non ne hanno capito il contenuto o il significato attuale dei termini usati da Agostino e in particolar modo il valore del vocabolo flumen, che non va tradotto fiume o torrente, ma corso d'acqua corrente di qualsiasi dimensione. Per indicare un corso d'acqua impetuoso o stagionale Agostino usa piuttosto il termine torrens: "torrentes proprie dicuntur fluvii qui aestate deficiunt aquis autem hiemalibus inundantur et currunt " (En. Ps. 73, 17) e ancora "torrentes autem dicuntur flumina hyemalia, magno enim impetu repentinis aquis impleta currunt " (En. Ps. 125, 10). Questo errore fu comune al Rota (67) e ai suoi epigoni, al Meda (68) e allo stesso Manzoni (69). Altri autori furono più critici ed altri ancora più attenti al dettato agostiniano invitando ad una maggiore coerenza con la realtà (70) che non doveva essere sacrificata al desiderio di dimostrare che Cassiciaco corrispondeva senz'altro ad una certa località.

Questo desiderio, tipico dei sostenitori di Casciago, ma anche di altri luoghi, ha finito per far dire ad Agostino ciò che in realtà non aveva mai scritto ed ha forzato la lettura di certi passi per adattarli alle circostanze ambientali o geografiche locali, così ad esempio i montesque per altos di Licenzio sono diventati il Monte Rosa, il rus Cassiciacum una stazione climatica e un sanatorio naturale per tubercolotici, il cursus aquarum un impetuoso torrente che fa un salto di 90 m. (71).

E' comunque sufficiente la lettura dei testi originali per riportarci dal piano della fantasia a quello concreto della storia.

Nell'episodio dello scorrere irregolare delle acque, la modestia del corso d'acqua è inequivo-cabilmente confermata dalla spiegazione di Licenzio, che riscuote l'assenso di Agostino, che anzi ne loda la perspicacia. Secondo Licenzio il variare del mormorio delle acque era prodotto dalle foglie che cadevano in abbondanza in autunno. "Stipate nelle parti strette del greto - dice - sono di tanto in tanto trascinate via e quando la massa d'acqua che le spingeva è passata, di nuovo si raccolgono e ostruiscono. Può anche avvenire un altro qualsiasi fenomeno a causa della diversa fortuita posizione di foglie trasportate, che è sufficiente ora a rallentare ora ad accelerare lo scorrimento."

Agostino dal canto suo riconferma una interpretazione debole del corso d'acqua quando nel porre la domanda, cui risponderà Licenzio, dice che "non possiamo certamente pensare che qualcuno a quest'ora o passandovi sopra o lavandovi qualche cosa ne interrompa lo scorrimento."

Che fosse una specie di ruscello non v'è dubbio poiché il suo suono attira l'attenzione di Agostino nel silenzio notturno quando animadversus est solito attentius. Anzi Licenzio e Trigezio in altre notti lo avevano scambiato per uno scrocio di pioggia, com'è tipico per lo scorrere di un piccolo ruscello.

Il proseguo del dibattito notturno riconfermò del resto più volte la spiegazione di Licenzio con continui richiami alla caduta casuale delle foglie nel ruscello (72), alla loro resistenza al moto delle acque (73) e al loro volteggiare nei campi ad opera del vento, dopo essere cadute dagli alberi (74).

Anzi Agostino ritornando sull'argomento dirà apertamente che si trattava di quelle stesse acque, che erano condotte alla villa per gli usi dei suoi abitanti (75). In quella medesima notte il colloquio notturno, avviato dalla strana intermittenza sonora delle acque, proseguì sollecitato da un ulteriore strano episodio, che vide Agostino dubbioso e incerto sulla natura, solare o lunare, della luce che penetrava attraverso le opache finestre (76). La discussione con Licenzio proseguì ancora per qualche tempo fino all'alba (77). Il termine fulgor usato da Agostino per esprimere l'intensità della luce ha indotto il Perler a ritenere che quella notte vi fu una luna piena o che comunque il suo splendore fosse prossimo a questo stadio (78).

L'ipotesi del Perler ha trovato la conferma del prof. Schurer dell'Istituto Astronomico di Berna, il quale ha calcolato che il 21 novembre del 386 d.C. ci fu effettivamente una luna piena e che essa era tramontata alle 7,30 poco prima del sorgere del sole. Il giorno prima invece era tramontata alle 6.

Questo episodio, apparentemente poco significativo ad una lettura superficiale, ha invece rivelato, grazie ad una acuta rielaborazione, una ulteriore importante informazione che rende giustizia alla storicità dei Dialoghi, se mai ne fosse stata necessaria una conferma anche nei minimi particolari.

Le residue informazioni che Agostino ci assicura circa la villa riguardano infine l'esistenza delle latrine, ove Licenzio si attarda una sera cantando allegramente il salmo 79, il che provoca l'indignazione di Monica e il paterno richiamo di Agostino, che reputano sconveniente cantare quella preghiera in tale luogo (79).

Sappiamo ancora che le pareti della camera di Agostino erano dipinte, come lo erano gran parte delle case romane, ma ne ignoriamo il colore, che però non era nè chiaro nè scuro (80).

La lettura dei Dialoghi ci consegna dunque uno spaccato della villa di Verecondo di grande interesse, dal quale tuttavia non è possibile risalire alla sua struttura architettonica generale.

Certamente era una villa di campagna con una duplice funzionalità agricola e residenziale, che aveva modellato una struttura promiscua, adatta nello stesso tempo ad accogliere la servitù e sufficientemente spaziosa da dare ricettività al numeroso gruppo di amici e familiari di Agostino, dove non mancavano comodità e servizi quali i balnea. Ne emerge un quadro che rivela l'esistenza di un apprezzabile insediamento proiettato verso un ulteriore sviluppo attorno alla casa padronale, come di fatto può essere accaduto dal V secolo d.C. in poi fino alla aggregazione e costituzione del comune in epoca medioevale.

 

Alcuni criteri per localizzare il rus Cassiciacum

Le intrinseche difficoltà della questione che stiamo trattando e la speranza di arrivare un giorno alla definitiva localizzazione del rus Cassiciacum di Verecondo hanno imposto agli studiosi l'introduzione di criteri via via più raffinati e sempre più ramificati per tentare di esplorare ogni particolare della questione stessa. Sostanzialmente si possono individuare quattro tracce di lavoro o criteri di indagine. Tre di essi e cioè quelli letterari, toponomastici e storico-devozionali saranno affrontati in questo capitolo. Il quarto relativo al criterio archeologico sarà invece discusso nel capitolo conclusivo. Ciascuno di questi criteri cerca di mettere in evidenza uno specifico aspetto del problema che a sua volta deve integrarsi e complementarsi con i risultati degli altri criteri, per poter essere produttivo e discriminante. E' comunque difficile pretendere che queste fonti posseggano tutte le risposte alle questioni che ci poniamo oggi, sia perchè alle volte queste fonti risultano incomplete e altre volte sono espresse con una sensibilità diversa da quella moderna. Tuttavia è legittimo interpellarle e indagarle, ma con metodo adeguato.

In particolare il loro sviluppo temporale deve accordarsi in modo che il procedere in questa ricostruzione storica dall'oggi all'ieri sia in sintonia con il procedere dall'ieri all'oggi. E' appunto questa la procedura che adotteremo: partiremo dall'oggi risalendo a ritroso fino al tempo dei fatti narrati da Agostino (che in gran parte abbiamo già conosciuto nel capitolo precedente), cercando una conferma nei dati storici ed archeologici, che dall'ieri avanzano sino ad oggi.

Orbene se stiamo alle risultanze dell'oggi pochi sono i dubbi relativi alla localizzazione del rus Cassiciacum: due sono infatti le località che a vario titolo si contendono l'onore di aver ospitato Agostino nel 386-387 d.C. Più precisamente si tratta di Casciago nel Varesotto e di Cassago in Brianza.

Su tale contesa esiste un'ampia letteratura, che ha visto l'adesione anche di illustri firme, oltre che di appassionati talora troppo smaniosi della affermazione del proprio campanile, tanto da far scrivere allo studioso benedettino dom Morin che "questioni di questo genere, in generale, non dovrebbero essere trattate da gente dello stesso paese; la questione di campanile influisce necessariamente sulla mentalità dello scrittore." Questa lamentela per le esagerazioni del passato non deve porre però in secondo piano l'utilità che storici locali se ne occupino seriamente e senza preconcetti, poiché gli stimoli personali che posseggono nonché le conoscenze del territorio e della sua storia sono una autentica ricchezza da investire nell'approfondimento della ricerca.

Soprattutto sono in grado di apprezzare particolari per altri insignificanti e di rivelare le incongruenze di luoghi comuni, fino a indicare nuovi ambiti di ricerca. La questione fra Cassago e Casciago è comunque marginale e va da sè che troverà una propria soluzione con il progredire dell'indagine verso il passato e il suo confrontarsi con i risultati dei criteri archeologici e linguistico-toponomastici che dall'ieri vengono a incontrarsi con l'oggi.

 

a. Il criterio storico-devozionale

Questo criterio ci propone subito varie ipotesi, come ebbe già a descrivere Carlo Redaelli nel 1825: "fu da alcuni promosso il dubbio che il Rus Cassiciacum fosse Casteggio nella Lumellina, detto Clastidium dagli antichi scrittori; ma se pure un dubbio qualunque si voglia promuovere contro una costante tradizione e l'autorità de' nostri scrittori patrii, potrebbesi essere stato Casirago nella Brianza stessa, o Casciago nelle parti di Varese dal Castiglioni (1) detto Castiacum." (2)

Altri ancora, a causa di una probabile confusione linguistica dettata dalla rassomiglianza dei toponimi, hanno proposto Cassano d'Adda (3).

La costante tradizione e l'autorità de' nostri scrittori patrii, cui si riferisce il Redaelli, riguarda Cassago Brianza. Lo stesso Alessandro Manzoni, che abitualmente, ma erroneamente, viene indicato quale primo autorevole propugnatore della candidatura di Casciago, ebbe a scrivere nel 1843 in una sua lettera a M. Poujoulat che "una tradizione abbastanza diffusa, ed anzi la sola che esista sopra questo soggetto, pone il «Cassiciacum» di S. Agostino a Cassago, un villaggio di circa otto leghe a nord-est da Milano."

Proseguendo ulteriormente a ritroso questa medesima tradizione venne sostenuta nel XVIII secolo da Giuseppe Antonio Sassi, prefetto (1711-1751) della Biblioteca Ambrosiana (4), che seguì una costante inclinazione di questa istituzione milanese a pronunciarsi in tal senso sin dal suo sorgere nel 1609. L'identificazione di Cassago con il rus Cassiciacum ritorna infatti ancora in due libri stampati nei primi decenni del '600 ad opera di Giuseppe Ripamonti e del cardinal Federigo Borromeo, rispettivamente dottore e fondatore dell'Ambrosiana.

Nella sua monumentale Storia della Chiesa Milanese Giuseppe Ripamonti (1577-1643) accennò alla questione scrivendo "Cassiciacum Brianteos in colles abijt, inde postea suo tempore ad lustrale Sacramentum rediturus ingenti regionis illius gloria hodieque decus iactant.. Cassiciacum occasio digredendi est ad montani fere tractus radices in Massaliae regione collis inclitus armorum et litterarium gloria ... non in amoenum agrum, et urbanam in eo villam habebat." (5)

Dal canto suo il cardinal Federigo Borromeo (1564-1630) dichiarò che "la leggiadria di questi colli vicini poterono tanto ricreare l'afflitta mente del Beato Agostino, che per la memoria di essi, passato etiandio tanto tempo, allegrandosi disse: «Reddes Verecundò pro rure ille eius Cassiciaco ubi ab aestu seculi requievimus in te, amoenitatem sempiternae virentis paradisui tui quoniam dimisisti ei peccata super terram, in monte incaseato, monte tuo, monte uberi». Ed è verisimil cosa, che la Villa, e la foresta da lui cotanto honorata, sia per ragione della lontananza, e del sito, e del nome, e dell'antichità degli edifici, quella, che hora chiamasi comunalmente Cassago" (6) e ancora che " id porro Casissiacum quem locum inclyti Doctoris verba celebrant, nos credidimus esse Cassagum, coniecturamque nostram, et natura loci, et ratio nominis, et veterum aedificiorum reliquiae, plurimaque vestigia antiquitatis adiuverunt." (7)

La perentorietà delle asserzioni contenute in questi brani è significativa, poiché esprime il giudizio costante della tradizione milanese circa questo soggetto, una tradizione che doveva essere ben radicata e diffusa diacronicamente nella cultura locale lombarda.

Proseguendo a ritroso nel tempo scopriamo una ulteriore testimonianza di questa costante tradizione milanese in un manoscritto di Tristano Calchi o Calco (...-1515), che risale al 1490, dove si legge che Agostino "per quod tempus in suburbano Cassiaco frequenter secedens, tres libros Academicos et unum gramaticum absolvit coeterarum verum disciplinarum singulos inchoavit qui extant." (8)

Qui il rus Cassiciacum si è addirittura trasformato in Cassiaco, una dizione probabilmente desunta da qualche codice manoscritto milanese delle Confessioni dei secoli XI o XII, che o aveva commesso qualche errore di trascrizione o già aveva forse introdotto una prima contemporanea localizzazione.

E' interessante notare come la maggior parte dei codici milanesi delle Confessioni del '400 riporti quasi sempre Cassiaco. La stessa prima edizione a stampa delle Confessioni, che fu fatta a Milano nel 1475, scelse Cassiaco, una lezione che probabilmente era la più accreditata fra i codici che furono consultati da chi ne curò la stampa.

Quando indicò Cassiaco nel 1490, il Calchi certamente si muoveva in un orizzonte locale che aveva già da tempo ridotto il rus Cassiciacum a Cassiaco = Cassago.

In ogni caso non si può neppure escludere che il Calchi possedesse documenti di prima mano in grado di permettergli una identificazione della località agostiniana con l'odierno Cassago in Brianza, che nel XV secolo era conosciuto come Cassago (9), Caxago (10) o Caxiago (11). Tali infatti erano le dizioni di questa località come appare in vari documenti contemporanei o precedenti. La ricerca di ulteriori documentazioni anteriori al Calchi non ha prodotto sino ad oggi dati nuovi: ciò ha dato la stura a opposte valutazioni, che qui riassumiamo. Da un lato v'è chi ha sostenuto che la costante tradizione milanese risale proprio al Calchi ed è quindi un'invenzione sua e di chi l'ha seguito.

Per un altro verso molteplici autori hanno dato credito a quanto ha affermato ed hanno sostenuto e ribadito le sue conclusioni. Noi crediamo che la questione vada ricondotta ad ambiti meno cristallizzati e più aperti ad una analisi critica, che tenga conto innanzitutto della personalità di Tristano Calchi e della sua attendibilità come storico, in secondo luogo si valuti la effettiva dipendenza dalla sua opera degli scrittori posteriori e finalmente si indaghi sulla esistenza di una possibile costante tradizione milanese, cui può avere attinto direttamente lo stesso Calchi.

Circa il primo punto sappiamo che questo storico ebbe libero accesso agli archivi ducali e che nel 1478 era a capo della Biblioteca Visconteo-Sforzesca di Pavia. Nel 1496 fu chiamato a Milano a dirigere la Biblioteca ducale. Morì prima del 1516. Di lui il Soranzo ebbe a scrivere che "caratteristica di Calco storico è la cura di appurare criticamente i fatti, l'onesta e accurata ricerca di documenti; nel riguardo egli è certamente uno fra i più solerti e sicuri cronisti del Rinascimento." (12)

La nobile famiglia Calchi o de Calco, cui apparteneva, contava personaggi illustri, fra cui Bartolomeo (1434-1508), primo segretario di Ludovico il Moro, ed era originaria di Calco in Brianza, dove già nel '500 è documentata e tuttora è viva una secolare devozione agostiniana. Fu Bartolomeo a trasmettere a Tristano il settore latino della collezione libraria della prestigiosa biblioteca dell'umanista Giorgio Merula, affinchè proseguisse l'opera storiografica intrapresa dal Merula (13).

Conterraneo di Tristano fu certamente Giuseppe Ripamonti, che ne conosceva indubbiamente i manoscritti e che proseguì una storia da lui iniziata (14). Ma è difficile stabilire fino a che punto Calchi abbia influenzato Ripamonti nella questione del rus Cassiciacum, dato che quest'ultimo oltre a ripristinare la sua classica denominazione, specifica apertamente la località ed anzi aggiunge che in quel secolo il ricordo del soggiorno agostiniano conferiva, assieme alle armi dei Missaglia, gloria all'intera regione, un onore che è problematico ascrivere a esclusivo merito o come conseguenza del breve inciso del Calchi. E' più verosimile che il Ripamonti abbia tratto la sua convinzione circa il rus Cassiciacum dalla propria esperienza personale maturata durante la gioventù passata in Brianza a Nava e Barzanò, due paesi assai prossimi a Cassago.

In modo del tutto analogo anche il cardinal Federigo Borromeo conosceva i testi dello storico quattrocentesco, ma se ne distacca per le motivazioni e le ragioni personali che sostengono il suo convincimento circa il rus Cassiciacum. Com'è noto il Borromeo aveva spiccate inclinazioni allo studio e una grande vivacità intellettuale maturata durante il suo soggiorno romano alla scuola di insigni studiosi come l'ebraista Bartolomeo Valverde, il teologo gesuita Stefano Ricci, il grecista e orientalista Pierre Morin, l'erudito Antonio d'Aquino, l'oratoriano Cesare Baronio e i gesuiti Francisco Toledo e Roberto Bellarmino. D'altra parte non va dimenticato che la sua opinione, oltre che da letture, probabilmente era maturata sul posto durante le sue visite pastorali. Il cardinal Borromeo inoltre, da buon letterato, nel brano citato si richiama piuttosto ad un altro autore, che ci riporta indietro nel tempo al 1354 e che riprende, testimoniandola, quella costante tradizione milanese, che ancora si ripropone come sottofondo comune. Questo autore è il Petrarca, che era uno straordinario estimatore di Agostino. Il Petrarca ebbe la ventura di dimorare a Milano dal 1353 al 1354, presso la basilica di S. Ambrogio in un luogo pieno di memorie agostiniane, tanto che "c'è solo la basilica di S. Ambrogio - scrisse - a frapporsi tra la casa dove io abito e la piccolissima cappella nella quale Agostino soffrì il segreto dissidio delle opposte passioni e ne uscì vincitore." (15)

Più volte nelle sue opere Petrarca fa esplicito riferimento al soggiorno milanese di Agostino ed agli episodi che vi si produssero, deducendoli sia dalla lettura di Agostino stesso sia dalla tradizione e dalle leggende che fiorirono attorno ad essi. In questa ottica tutto il perimetro e le adiacenze della Basilica di S. Ambrogio erano già allora ricchi di memorie agostiniane in grado di esprimere e perpetuarne il ricordo in varie forme devozionali. Innanzitutto vi era la Chiesa di S. Agostino, già citata dal Bussero nel XIII secolo e sulla cui architrave d'entrata si ricordava il battesimo del santo:

 

DIVUS AUGUSTINUS AD LUCEM FIDEI

PER SANCTUM AMBROSIUM EVOCATUS

HIC UNDA CAELESTI ABLUITUR

ANNO DOMINI CCCLXXXVII

 

Immediatamente adiacente, la porta di S. Agostino (16) introduceva al vicolo di S. Agostino che portava direttamente alla Basilica di S. Ambrogio (17) grazie ad un accesso dalla cappella della Deposizione. Nel giardino del monastero infine esisteva un'antica cappelletta, di cui parla lo stesso Petrarca, legata alla conversione di S. Agostino, sul cui luogo nel XVII secolo il Mangone eresse un tempietto a S. Remigio (18).

Quanto al rus Cassiciacum Petrarca testualmente scrive "caseatum vocat ipse et id manet hactenus ruris nomen" (19) cioè "caseato lo chiama (Agostino) e tale nome della campagna fino ad oggi si è conservato". L'uso di caseatum per Cassiciacum probabilmente è una svista del Petrarca tratto in inganno o da una falsa lettura o da un errore del codice, che aveva sotto mano, poiché è problematico ammettere che verso la metà del XIV secolo esistesse in Lombardia un paese con tal nome. Questa svista però non è passata inosservata e un documento, redatto ma non sottoscritto da un funzionario della curia milanese verso il 1574-1578, nel riportare lo stato della parrocchia di Cassago con noncuranza indica "advertatur dictus Cassaghus, idest Caseatus, habet Inquam loca fertilia." (20)

La convergenza della tradizione milanese su Cassago è dunque univoca e molto interessante, ma non ancora probativa perchè si arresta al XV secolo. In ogni caso è una ipotesi da verificare con altri criteri, non tralasciando l'opportunità di allargare il ventaglio ad altre candidature.

D'altra parte sarebbe interessante approfondire l'origine della fonte primigenia di questa costante tradizione, tanto più che elementi collegati al culto di S. Agostino e alla sua regola monastica non mancarono nel milanese già a partire dal secolo XI.

E' comunque nel XIII secolo che tale influenza divenne decisiva con la costituzione dell'Ordo Eremitarum S. Augustini che in Milano ebbe il suo fulcro nel monastero di S. Marco.

 

b. Il criterio linguistico-toponomastico

Nel passato si cercò di sopperire ai limiti della costante tradizione milanese facendo ricorso ai princìpi della linguistica e della toponomastica. I risultati tuttavia non sono stati sempre produttivi per le difficoltà insite in questo tipo di analisi e per l'incerto punto di partenza. Sinora in effetti abbiamo sempre citato rus Cassiciacum, ma questa è la lezione assicurataci col criterio della lectio difficilior, dato che i codici delle Confessioni riportano frequentemente lezioni diverse, sia pure di poco, sotto l'aspetto fonetico e morfologico. Alcuni codici riportano infatti Cassiaco (21), altri Cassiciato (22), Cassiatiaco (23), Cassiato, altri ancora Cassitiaco (24) e Cassiatico (25).

Rus Cassiciacum comunque compare nei codici migliori e di più antica data, fra cui un codice della cosiddetta Collectio Sessoriana, già consultato dai Maurini presso la biblioteca romana di S. Croce in Gerusalemme (26). Essi sembrano risalire ad un comune archetipo del V o VI secolo. Solo il Biraghi (27) promosse la lezione Cassiaco identificando tout-court la località con Cassago.

Ma egli si rifece essenzialmente a codici tardivi del XIII-XIV secolo dell'area milanese, che riportavano la lezione Cassiaco da lui preferita poiché i copisti "nostrali devono bene averne saputo e il nome vero e la pronuncia retta e la giusta scrittura, nè avrebbero registrato una terra milanese con forma falsata" (28). La frequenza di questa lezione nel milanese può giustificarsi con il perpetuarsi di un primitivo errore, ma non è da escludere che i copisti del XIII e XIV secolo si riferissero più o meno coscientemente ad una terra milanese la cui dizione e la cui pronuncia si era ormai corrotta rispetto alla forma originale. I residui dubbi circa le acquisizioni dettate dalla lectio difficilior derivano dal fatto che nelle Confessioni troviamo l'unica citazione del rus Cassiciacum in tutta la latinità e che non esistono a tutt'oggi altri documenti che ne permettano un raffronto. Del resto non va tralasciato il particolare che la denominazione della campagna di Verecondo dipende dalla buona memoria di Agostino che la trascrisse in lingua latina circa 15 anni dopo il suo soggiorno.

Inoltre non sappiamo se tale trascrizione, eseguita da un africano schernito per la sua pronuncia latina, che a sua volta scherniva gli italici per lo stesso motivo (29), rispettò pienamente la parlata autoctona e non fu piuttosto una dotta latinizzazione del vocabolo usato dai rustici.

Fatte queste premesse le conclusioni usufruibili dal criterio linguistico vanno accettate con cautela e senza il carattere della definitività, ma solo a titolo complementare. In ogni caso i risultati sono interessanti. La catena discendente di Cassago, che facciamo partire per motivi di spazio dal XV secolo si arresta attualmente al secolo IX in piena età carolingia ed evidenzia il persistere nell'alto medioevo del tipico prefisso Cassi- o Caxi- che richiama il toponimo agostiniano. Dal XIII secolo in poi cade la i centrale, in modo che da una documentata forma Cassiaco (forma attestata dal IX secolo: non è certo tuttavia che essa costituisca il vero e primitivo toponimo e non ne sia piuttosto una forma già modificata e raccorciata) si passa a Caxago-Cassago. La documentazione propone questa serie:

 

1398  Caxago (30)

1397  Cassago (31)

1393  Casago (32)

1386  Cassago (33)

1356  Cassago (34)

1351  Cassago (35)

1348  Cassago (36)

1288  Caxago (37)

1268  Caxago (38)

sec. XIII  Casiago e Cassago (39)

1237  Cassago (40)

1222  Cassago (41)

1221  Cassago (42)

1220  Casagii (43)

1217  Cassago e Caxiago (44)

1215  Cassago (45)

1186  Clozago e Casago (46)

1162  Cassagum (47)

1135  Cassago (48)

sec. XII  Cassciago (49)

1117   Cassiago (50)

854  Cassiaco (51)

 

Un primo esame della catena discendente rivela una propria interna omogeneità dove, sia pure con i limiti imposti dal reale parlato rispetto alla definizione linguistica scritta che conosciamo da questi documenti, prevale la conservazione dell'accento sonoro duro del toponimo, che rispecchia in ambiente lombardo la lettura romana di rus Cassiciacum, che dovrebbe pronunciarsi rus Kassikiàkum.

La questione autentica, che nasce dalla catena discendente sopra riportata e che costituirà necessariamente la traccia di lavoro per studi futuri, consiste nello stabilire se il Cassiaco del IX secolo è la forma originaria della località o se piuttosto rappresenta già una forma corrotta di un precedente toponimo e precisamente di un originario *Cassiciacum.

D'altra parte questa non è la sola traccia di lavoro: è necessario definire la dizione esatta in età romana di Cassago, poiché non v'è certezza che il punto di partenza sia proprio il *Cassiciacum, che conosciamo dalle Confessioni o piuttosto un *Cassiacum, come ipotizzò il Biraghi. Il riemergere continuo e prepotente dall'antichità del toponimo attuale da Cassiaco lascia infatti presupporre come più probabile l'ipotesi che tale fosse in origine il nome di questa località. Bisogna però a questo punto stabilire se Cassiaco era in origine la dizione solo orale e popolare, di cultura e tradizione celtica, che a Cassago conobbe una duratura ed espressiva facies, oppure anche scritta, che Agostino o, per lui, la lectio difficilior non ci hanno evidentemente conservato.

La questione nasce dal fatto che pur essendo il latino all'epoca di Agostino lingua ufficiale in Lombardia, non v'è dubbio che la parlata e i dialetti locali, mantennero una grande vitalità soprattutto in quei luoghi, come le campagne, ove i rapporti con l'ufficialità romana e con la classe mercantile furono limitati. I dialetti locali, che si erano formati dalle lingue ibero-liguri e celtiche, conservarono molte espressioni e fonetiche, così radicate nella gente da superare i secoli per essere trasmesse fino ai nostri giorni. I dialetti furono arricchiti dalle espressioni latine e solo nel medioevo, grazie all'opera del clero si poterono definire una vera e propria scrittura e parlata neolatine.

Tuttavia la difficoltà di tradurre in latino determinate forme fonetiche celto-liguri sconosciute a questa lingua, può aver nuociuto pesantemente alla esatta conservazione della parlata locale. L'esatta dizione in età romana di Cassago è pertanto tuttora problema vivo e aperto e poco ci aiuta l'epigrafia dato che nell'area brianzola e milanese sono attestate sia la gens Cassia, da cui deriverebbe Cassiaco, sia la gens Cassicia, da cui deriverebbe Cassiciacum. In assenza di nuovi documenti non sono possibili che congetture. Nella analisi dell'evoluzione toponomastica di Cassago dovranno inoltre essere necessariamente studiate e valutate le sovrapposizioni, le contaminazioni e le deformazioni linguistiche succedutesi in Lombardia nell'arco di tempo che va dal IV al IX secolo, un periodo che notoriamente fu un crogiuolo di razze e popolazioni. In questo periodo infatti il territorio lombardo fu campo di guerra per i bizantini (52) e quindi ripetutamente oggetto di devastazioni e occupazioni di popoli germanici, fra cui i goti (53), i franchi (54), i longobardi (55) e ancora, in modo definitivo, i franchi di Carlo Magno (56). Localmente la condizione degli indigeni non conobbe tuttavia drammatiche svolte, ma vi fu un graduale assorbimento dei nuovi venuti, anche in ambito linguistico.

Tant'è che gli invasori sostanzialmente accettarono e conservarono la cultura romana e con essa una lingua latina ormai in rapida evoluzione. Un documento dell'854, redatto da un certo Ropertus, chierico del monastero di Civate, attesta del resto questo stato di cose e grazie al suo contenuto - una compravendita di proprietà sul lago di Como - e ai suoi contraenti, di legge ed etnia longobarda, rivela che a Cassago gli insediamenti civili e le attività agricole probabilmente non cessarono ma rimasero attive anche nei secoli VII e VIII. Vari reperti archeologici, scoperti alla Pieguzza e di cui riferiremo oltre, rivelano inoltre che la utilizzazione del territorio localmente non subì traumatiche svolte, il che del resto è quasi certo anche per le aree limitrofe, dove il trapasso dalla amministrazione romano-bizantina a quella longobarda ha lasciato un positivo ricordo soprattutto nella alta stima che il popolo tradizionalmente riservò alla regina Teodolinda. Una ulteriore considerazione da svolgere concerne i redattori degli atti, che, almeno fino al X-XI secolo, sono costituiti da rappresentanti del clero, di etnia talora non latina, che probabilmente venivano a conoscenza della località casualmente in forza dell'atto da stendere o di una richiesta di testimoni. Dal secolo XII invece la località comincia ad essere citata con più continuità all'interno di documenti di pertinenza di un unico proprietario ed il toponimo in questo caso si stabilizza. Le carte provenienti dalla basilica di S. Giovanni di Monza preferiscono ad esempio la dizione Cassago, mentre quelle pertinenti al monastero di Pontida prediligono inizialmente Caxago per poi convergere su Cassago o Cassagho.

Il primo documento dell'854 è l'unico a riportare il suffisso -aco a differenza di tutte le altre documentazioni dal XII secolo in poi che invece sono stabili nell'indicare il suffisso -ago.

Ciò è tuttavia una mera variante linguistica stratificatasi in ambiente lombardo. Uno degli aspetti più interessanti della catena discendente proposta è senz'altro un documento del XII secolo, databile forse meglio fra il 1117 e il 1150, che riporta Cassciago, una dizione che già il Salvioni aveva ipotizzato quale forma derivata nell'ambiente dialettale lombardo del romano Cassiciaco (57). Questa dizione Cassciago potrebbe essere un tardivo testimone della contrazione da Cassiciacum a Cassiaco.

Purtroppo non c'è una ripetuta sequenza che esprima inequivocabilmente questa ipotetica contrazione sino al definitivo Cassago. E non è neppure noto in quale epoca sia intervenuta tale abbreviazione, anche se è presumibile che nella forma parlata si sia prodotta al più tardi dall'epoca carolingia, cioè dall'VIII-IX secolo in poi, mentre in quella scritta può essere stata ritardata di qualche secolo, specialmente nel caso in cui l'estensore poteva disporre di un testo o di una tradizione di riferimento.

L'evoluzione linguistica dall'oggi all'ieri e dall'ieri all'oggi nel caso di Cassago esprime in ogni caso una naturale linearità, che invece difetta nel caso di altre località citate in precedenza. L'ipotesi di Casciago ad esempio, che fu sostenuta dal Manzoni e dal Rota proprio in virtù di motivazioni linguistiche, non ha il supporto purtroppo di una valida documentazione toponomastica. L'analisi della sua catena discendente, che i due autori citati non conoscevano se non parzialmente, evidenzia un etimo originario nel X-XI secolo che si esprime nelle forme Castiaco, Castiago o Castiasca 58, che rimandano, come già sottolineò l'Olivieri, a un probabile *Castelliacus, un toponimo alquanto diverso dalla lezione riportata nel testo agostiniano.

I risultati sinora conseguiti procedendo a ritroso nel tempo attendono una rigorosa verifica con i dati che dall'ieri giungono all'oggi. Il naturale riferimento è ancora una volta Agostino e quanti nel suo secolo ebbero a scrivere su questo argomento o temi correlati. Precisamente in questo frangente il nostro interesse mira ad individuare le caratteristiche del territorio ove la villa di Verecondo venne a trovarsi sia da un punto di vista ambientale, che geografico, quanto di occupazione delle terre in epoca romana, con particolare riguardo al IV-V secolo d.C.

Tutti questi aspetti ovviamente non vanno disgiunti dalle risultanze archeologiche che parallelamente ci forniscono dati nella medesima direzione dall'ieri all'oggi. Orbene anche in questa occasione Agostino non è del tutto avaro di notizie: già abbiamo ricordato che la villa sorgeva in posizione elevata, in una località a prevalente attività agricola, dove non mancava la disponibilità di acqua e dove esistevano vaste estensioni di boschi, in cui crescevano forse quelle fragole che Agostino mangiò durante il suo soggiorno in Italia (59).

In epoca longobarda e medioevale territori con siffatte caratteristiche, legate all'esistenza di unità rurali romane, quando sopravvissero all'urto delle occupazioni barbariche, spesso diedero vita ad una embrionale forma di comune rurale oppure generarono le cosiddette corti, che si identificavano in un comprensorio gravitante attorno ad un centro che poteva essere economico, fiscale o militare. Le carte medioevali a tal riguardo indicano che Cassago fu abitato in epoca longobarda e carolingia e che fu una unità rurale autonoma parzialmente soggetta alla basilica di S. Giovanni di Monza (60) e al monastero di Pontida, che l'aveva avuta verosimilmente in beneficio dai nobili De Raude (61).

Agostino più volte accenna anche al clima del luogo: scrive che piove (62), c'è nebbia (63), anche se la temperatura è mite (64) e il cielo talora si apre ad armoniosa serenità e limpidità (65). Sono questi fenomeni assai comuni alle falde della fascia prealpina, soprattutto nella tarda stagione autunnale, che all'epoca di Agostino, secondo il calendario rurale, aveva inizio ventitré giorni dopo l'entrata del sole nella costellazione del leone e cioè qualche giorno prima della metà di agosto (66).

Sulla scorta di questi dati vari autori hanno esposto una possibile ma non credibile localizzazione, frutto più della fantasia e delle congetture, che di una efficace interpretazione del testo agostiniano, che così com'è non permette considerazioni definitive. Piuttosto in altra occasione Agostino suggerirà che la villa di Verecondo e il rus Cassiciacum, che il suo biografo Possidio genericamente indica nella campagna milanese (67), si trovavano in Liguria (68). Nel tardo impero romano questa regione corrispondeva grosso modo all'Italia nord-occidentale (69) e con lo stesso nome veniva indicata l'intera Lombardia ancora nel Trecento (70).

Un componimento in versi di Licenzio (71), il giovane figlio di Romaniano, che con Agostino aveva soggiornato a Cassiciaco, sembra poter specificare ulteriormente un'altra caratteristica del luogo e cioè la presenza di montagne.

Scritto a Roma nel 392-393 d.C. in onore di Agostino, in questo carme si scoprono infatti alcuni versi che enfaticamente ricordano i rigori invernali di quel tempo trascorso in campagna e i giorni passati, che vissero assieme nel centro dell'Italia su per gli alti monti, quando entrambi anelavano alle occupazioni dello spirito (72). L'accenno, tratto da Virgilio (73), che veniva letto e studiato con assiduità a Cassiciaco, è brevissimo ed è suggerito dalla briosa vena poetica del suo giovanissimo autore, così innamorato della poesia da meritarsi il rimprovero di Agostino già durante il soggiorno nella villa di Verecondo (74), oltre che nella lettera di risposta (75).

Pur limitato nella esposizione - non permette infatti di identificare quali siano questi alti monti - l'inciso è tuttavia interessante sia perchè di tutto il carme Agostino cita nella risposta solo questi versi (il soggiorno a Cassiciaco deve essere stato un avvenimento straordinario per chi vi partecipò!), sia perchè consente di scartare altre peculiarità geografiche, quali laghi o fiumi, che certamente non sarebbero passati inosservati alla vista di un giovane ed entusiasta poeta, non indifferente agli stimoli offerti dal paesaggio.

Questi alti monti, visibili da Cassiciaco ma fors'anche da Milano (76), probabilmente sono le Prealpi e, in un orizzonte più lontano, la catena alpina del massiccio del monte Rosa. Pagine e pagine sono state scritte su questo aspetto della località, ma inutilmente: troppo labili sono le tracce per una scelta, anche se la vista da Cassago è forse più organica rispetto a quella di Casciago.

Ma è pur sempre una valutazione soggettiva.

Questi particolari del paesaggio purtroppo sono alquanto generici e difficilmente possono permettere una discriminazione tra specifiche località, anche se in realtà non contraddicono l'ipotesi di localizzazione, che procede dalla tradizione storiografica così come dalle risultanze toponomastiche e linguistiche. Una ulteriore indagine dei testi agostiniani consente tuttavia di introdurre un criterio più selettivo, che ci permette di acquisire una nuova importante informazione. L'occasione è fornita da un passo del Contra Academicos ove sono espressi in dettaglio i preparativi che precedono un viaggio di Alipio in un pomeriggio di metà novembre (77).

Dopo aver pranzato e dopo aver partecipato per qualche tempo alle discussioni del cenacolo africano, Alipio si scusa e parte per Milano, dove intratteneva affari. Agostino, che ne rileva il ruolo di moderatore, interrompe la discussione poco tempo dopo la sua partenza e invita tutti i presenti a una passeggiata che si conclude nei balnea, poiché già cadeva la sera (78).

La rapida sequenza degli episodi che conclusero quel pomeriggio indica che Alipio aveva dunque a disposizione non più di tre o quattro ore di luce per raggiungere la città, un tempo che tra l'altro doveva essere senz'altro sufficiente perchè il viaggio era stato già programmato da alcuni giorni.

Questo stesso intervallo di tempo del resto è esplicitamente confermato in un successivo passo del Contra Academicos allorché, su richiesta di Alipio, venne letta la discussione che aveva avuto luogo durante questa sua assenza e che era stata trascritta da uno stenografo. Orbene in tale lettura si trascorse quasi tutto il mattino (79).

Certo non è facile stabilire quale fosse l'andatura di Alipio, valutare la sua fretta o lo stato delle strade. Alipio probabilmente procedeva a cavallo, ma sappiamo che non disdegnava di camminare a piedi (80). Un confronto con testimonianze di quel secolo (81) o di poco posteriori (82) indicano comunque che la velocità dei viaggiatori civili e militari oscillava mediamente fra i 5 e i 10 Km/h se a piedi, fino ad un massimo di 80 Km giornalieri se a cavallo.

Tenuto conto di queste indicazioni e dello stato delle strade nella stagione autunnale, si può presumere che Alipio quel pomeriggio per raggiungere Milano percorse dalla villa di Verecondo una distanza compresa tra i 25 e i 40-45 Km.

Questi sarebbero quindi i limiti territoriali entro i quali ricercare il rus Cassiciacum, in un intorno di Milano cioè ormai fortemente urbanizzato nel IV secolo (83). Le conclusioni finali di questo criterio letterario indicano che tutti gli aspetti sinora esaminati non contraddicono mai quanto già emerso in precedenza e rimandano ormai all'ultimo criterio archeologico che concretamente unisce, qualora esistesse tale connessione, l'ieri all'oggi.

 

Le scoperte dell'archeologia

Il criterio archeologico è in una certa misura non solo importante ma indispensabile. Ed è tanto più necessario in quanto dà consistenza al lavoro sinora svolto, che ci ha consentito di avvicinarci da vari punti di vista al cuore della questione e cioè la reale ubicazione della villa di Verecondo.

L'eventuale scoperta di materiale archeologico coronerebbe la ricerca o giustificherebbe ulteriori indagini: l'assenza di reperti, per quanto non contraddica in sè una ipotesi di localizzazione, dato che potrebbe esserne sfortunatamente mancato il rinvenimento, porrebbe invece decisivi dubbi fino all'accantonamento dell'ipotesi accarezzata.

 

a. La campagna settentrionale del Municipium Mediolani

Una indagine preliminare del territorio attorno a Milano nell'intervallo distanziale determinato in precedenza offre senza dubbio utili indicazioni circa una ricostruzione dell'occupazione del territorio in età romana durante il IV secolo d. C. con speciale riferimento ai tipi di insediamento, alla ramificazione della rete viaria, alle direttrici di sviluppo urbanistico. Se limitiamo l'analisi alle terre poste a nord della metropoli lombarda, a quel tempo residenza dell'imperatore d'occidente Valentiniano II, i risultati sono assai interessanti. Dalla seconda metà del III secolo d. C. in avanti la documentazione archeologica diventa relativamente abbondante e significativa e sta ad attestare una vivace ripresa economica che coinvolge anche le parvae civitates del territorio padano, almeno per il territorio attorno a Milano, divenuta non solo una delle capitali dell'impero ma anche centro di importanti movimenti di truppe (ad esempio a Pavia e a Novara).

Quanto alla occupazione del territorio bisogna premettere che si tratta di una regione che fu abitata ancora prima dell'arrivo dei Romani, dove sono diffusamente riscontrabili una toponomastica e patronimici largamente celtici. La quantità di toponimi preromani attesta inoltre il carattere dispersivo degli abitati celtici e la loro frequenza sul territorio, ma soprattutto suggerisce, ed è questo il punto importante, una certa continuità anche in età romana di queste situazioni insediative, insieme alle loro organizzazioni e istituzioni tribali modificatesi lentamente e in modo non violento a contatto con la civiltà romana. Il naturale ruolo geografico di passaggio verso il nord Europa e nello stesso tempo verso ovest per le Gallie e verso est per la Pannonia e le regioni balcaniche, aveva generato un efficace intreccio di strade di primaria importanza per lo stesso impero, sia da un punto di vista commerciale che militare. Punto nevralgico di passaggio, Milano conserverà e accrescerà la sua importanza nel medioevo fino ed oltre lo scontro con il Barbarossa, in un ruolo che non ha ancora esaurito ai nostri giorni.

Tra le strade consolari che si dipartivano da Milano imperiale cinque almeno procedevano verso nord in direzione di Angera, Varese, Como, Incino e Olginate, diramandosi successivamente in vie secondarie di campagna (1). Il viaggio da Milano a Cassiciaco poteva seguire inizialmente la strada per Olginate fino a Monza per poi imboccare una strada che toccava Vedano, Biassono (2), Carate (3) e infine Agliate oppure era possibile percorrere la più diretta e lineare strada per Incino fino alla confluenza di Agliate, dove fu individuato un ponte di fondazione romana a guado del Lambro in prossimità di un probabile tempio per il culto tipicamente di derivazione celtica di una divinità delle acque (4).

Nella basilica romanica di Agliate, che si sovrappose probabilmente a quel precedente tempio (5), all'altezza della seconda colonna si trova reimpiegato addirittura il secondo miliario di una importante strada prossima alla località, che riporta incisioni relative a Giuliano l'Apostata del 361-363 d. C. (6) e a Magno Massimo e Flavio Vittore consoli nel 387-388 d. C. (7), probabilmente a ricordo di lavori effettuati in quegli anni per la manutenzione della strada stessa.

Da Agliate una via romana attraversava sicuramente l'attuale Brianza meridionale, passando per Valle Guidino, e raccordava un praedium di Virginio Rufo già nel I secolo d.C. (8). L'esistenza di questa strada trova un motivato sostegno proprio nella necessità di collegare i possessi di questo importante personaggio, che sconfisse Vindice in Gallia nel 69 d. C. e che rivestì un ruolo di primo piano nelle lotte per la conquista del potere imperiale nel 60-70 d. C. (9). Proseguendo verso nord tale strada si congiungeva quindi con un'antichissima arteria di primaria importanza anche in età protostorica quale è l'attuale Como-Bergamo. Quest'ultima via di comunicazione passava il guado del Lambro presumibilmente a Nibionno in località Taverna o Taberna, dove è stato scoperto un sepolcreto del III-IV secolo d.C. (10), e proseguiva per Bulciaghetto (11), ormai contiguo a Cassago, per poi inoltrarsi nella valle di Rovagnate fino a raggiungere Olginate, dove avveniva il guado dell'Adda (12).

Tutta questa regione ha restituito numerosissimi reperti archeologici di varia età sia epigrafici che in ceramica, fra i quali parecchi pertinenti alla nostra indagine. In questo contesto vanno citate le 10 tombe rinvenute a Molteno del tipo a inumazione con copertura a doppio spiovente o cappuccina, con pareti formate da lastre di pietra e tegoloni. Varie le ceramiche, le armi, gli utensili e le armille: una moneta dell'imperatore Costante (335-350 d.C.) le data al IV secolo. A questo periodo risale anche un insediamento artigianale a Centemero e a Samarino presso Costamasnaga (13).

Più in generale gli insediamenti romani nel territorio sono ben documentati oltre che a Valle Guidino, a Montesiro, dove fu scoperto un tesoretto con 600 monete di epoca tardo-romana (14), a Casatenovo, dove furono trovate tombe con fittili e oggetti in metallo (15), a Renate, dove la presenza romana è testimoniata da alcune tombe a cremazione (16). Poco distante è Briosco, dove alla fine del secolo scorso vennero alla luce diverse tombe con corredo di varia natura (17) e Capriano, nome di origine prediale, dove affiorarono tegoloni romani assieme a frammenti di ceramica. Quest'ultimo materiale, raccolto dal prof. Davide Pace, fu esposto presso Scuola Media Statale di Briosco. Oltre Agliate, vi è Carate, il cui toponimo richiama la centuriazione e Verano, altro nome prediale, che ha restituito una iscrizione con protomi (18) e una moneta di Tiberio, che fu scoperta del prof. Davide Pace.

Proseguendo si incontra Robbiano, dove furono scoperti avanzi di una villa romana attribuita al IV secolo d. C. con frammenti di mosaico e Giussano con una interessante iscrizione sepolcrale che ricorda un aruspice (19). Poco discosto Mariano ha restituito ben 130 tombe appartenenti al I-II secolo d. C. e ancora a Bigoncio, località di Inverigo, fu scoperta una tomba romana imperiale del II secolo d. C. con numeroso materiale ceramico, ossa, chiodi e un frammento con la scritta Passi Telam (20).

A Calpuno nel secolo scorso affiorarono varie tombe ricche di monete, coniate durante l'impero in un lasso di tempo (138-378 d. C.) che va da Antonino Pio a Valente (21).

Tutte queste non sono che alcune delle numerosissime testimonianze degli insediamenti romani sparsi nella zona collinare del territorio briantino e rivelano quanto fosse fittamente popolata in rapporto alla densità demografica del tempo. La varietà e il tipo delle scoperte, talvolta di modesta consistenza, inducono a credere che non tutte le località che hanno restituito materiale fossero sede di un vicus, ma piuttosto insediamenti o piccole comunità rurali che gravitavano intorno ai villaggi più importanti corrispondenti ai vici. Tutti questi territori dipendevano da Milano. Un cippo di marmo bianco alto circa 55 cm scoperto nel 1770 presso Cascina Porrinetti a Casatenovo riporta ad esempio tre lunghe iscrizioni del III secolo d.C., che non solo menzionano organizzazioni lavorative milanesi, ma indicano che la Brianza centrale apparteneva al Municipium di Milano (22), i cui confini rispetto a Comum correvano probabilmente non molto lontano, come testimonia Plinio in una sua lettera a Virginio Rufo (23). Le altre iscrizioni epigrafiche rinvenute a Barzanò (24), Cremella (25), Valle Guidino (26), Bulciago, Agliate (27) e nella stessa Cassago (28), rivelano invece il persistere di un sostrato culturale celtico che ha resistito a lungo alla romanizzazione e che ha preferito il culto pagano al cristianesimo almeno fino al V secolo d.C. Di interesse agostiniano si presenta indubbiamente l'epigrafe di Barzanò, che riporta una invocazione a Giove Summano, una vera rarità nel mondo antico. Nel nord Italia ad esempio Summano è menzionato solo in un'altra iscrizione di incerta provenienza oggi conservata a Verona (29). Agostino racconta che già ai suoi tempi si era persa la memoria di questa divinità arcaica e più precisamente testimonia che "i Romani antichi, come si legge presso di loro, a non so quale Summano attribuivano i fulmini notturni e gli prestarono culto più che a Giove al quale appartenevano i fulmini diurni. Ma dopo che fu eretto a Giove il famoso tempio Capitolino, talmente si rivolse a lui il culto che ormai quasi non si trova chi si ricordi di aver letto il nome di Summano, perchè certo non può averlo udito." (30)

Acutamente il Biraghi sottolineò che "tra questi pochi imbattutisi a leggere quel nome in sassi o monumenti forse era Agostino stesso, se mai aveva dato degli occhi su quest'ara di Barzanò e se ne sovveniva." (31)

 

b. I rinvenimenti archeologici di Cassago

Anche Cassago ha restituito alcuni resti epigrafici: tre lapidi furono distrutte nella costruzione della nuova chiesa, un'altra, di cui fortunatamente conosciamo il testo, subì la stessa sorte nella medesima occasione e una quinta si è finalmente salvata (32). Dell'iscrizione mutila di quest'ultima resta solo la parte conclusiva

X. O. V. M. F.

incisa in caratteri rozzi e poco profondi. Il retro presenta delle scanalature verosimilmente eseguite per consentire l'incastro con altri pezzi, forse di un monumentum funerario di un certo rilievo richiesto da un facoltoso committente. Questa ipotesi è avvalorata dall'uso di marmo bianco anziché dell'abituale serizzo. L'iscrizione è stata interpretata

(coniu)X O(ptimo) V(iro) M(onumentum) F(ecit) (33)

in virtù di un confronto con il testo di una delle precedenti epigrafi distrutte (34), che riportava in caratteri eleganti (35) la scritta MARILLA R. OMINI F. O(ptimo) V(iro) M(onumentum) F(ecit)

dove appariva la medesima abbreviazione O.V.M.F. non altrimenti nota (36).

L'interpretazione sopra indicata per la lapide distrutta è quella che appare più convincente fra quelle proposte in passato dal Mommsen (37), da Carlo Redaelli (38), da mons. Luigi Biraghi (39) e dall'architetto Carlo Giovanni Sangalli (40).

Nel recente passato sono stati rinvenuti nella demolizione di vecchie mura e dell'ex-villa Visconti-Pirovano ulteriori elementi epigrafici, i quali tuttavia, forse a motivo del reimpiego, si presentano alquanto mutili e di difficile interpretazione. Sia pure entro uno specifico e limitato ambito, questi dati confermano la presenza romana a Cassago, così come viene parallelamente emergendo dalla analisi del copioso materiale fittile scoperto in varie occasioni in diversi località del suo territorio, e precisamente a Zizzanorre, Oriano, Pieguzza, Crotto, Campiasciutti, oltre a rinvenimenti sporadici.

Nel loro complesso tali ritrovamenti permettono di tracciare una sommaria cronologia delle tappe della civilizzazione romana di Cassago, la cui prima fase sembra iniziare verso il I secolo a. C. mediante la sua sovrapposizione a un precedente insediamento gallo-celtico attivo sicuramente già nel III-II secolo a.C. Non sono ancora note le reali origini dei primi insediamenti umani a Cassago, tuttavia appare probabile che già durante il Neolitico ci fossero frequentazioni alla Pieguzza e a Zizzanorre lungo un crinale, che poteva fungere da pista di transito verso il nord in età preistorica.

A Zizzanorre in effetti, in località Prisòm, fu scoperta una punta di freccia in selce rosata, così come alla Pieguzza si rinvennero microliti e frammenti di schegge di selce lavorata. Questi manufatti potrebbero essere la testimonianza di genti del Neolitico in migrazione o di passaggio, ma non si può escludere in via ipotetica una possibile presenza di insediamenti palafitticoli nella Valletta di Oriano, dove esistette a lungo, prima di prosciugarsi, un bacino lacuale o palustre originato dalla post glaciazione del Würm circa 20000-15000 anni fa. Una tale presenza si ricollegherebbe alla cultura di Polada, che si sviluppò nella prima Età del Bronzo e che è nota e attestata soprattutto nella fascia dei laghi prealpini: in Brianza stazioni palafitticole furono scoperte a Pusiano, Annone, Rogeno, Casletto, Malgrate, Gaggio di Nibionno, Sartirana, Montorfano, Segrino nonchè nella limitrofa Renate (41).

In questo contesto acquisterebbe significato la scoperta di un frammento di conchiglia di gasteropode riferibile all'età post-glaciale Würm, che fu rinvenuto presso Zizzanorre in località Ròccolo. La fattura e i segni causati da una probabile utilizzazione inducono a credere che possa realmente trattarsi di un manufatto riferibile ad una presenza umana in loco dopo l'ultima glaciazione.

L'attività sedimentaria di questo specchio lacustre nella Valletta di Oriano comportò inoltre la formazione di strati argillosi a varve, cioè a colorazione alternata chiara e scura di diverso spessore: ogni strato corrisponde a resti carbonizzati e materia organica depositati sul fondo. Al colore chiaro vanno associati i depositi estivi, al colore scuro quelli invernali. In epoca storica questi depositi argillosi furono probabilmente impiegati nella costruzione di manufatti e soprattutto di vasi. Non è da escludere che a Zizzanorre o nelle sue adiacenze siano sorte in epoca romana o preromana zone di sfruttamento di questi depositi di argilla. Il sospetto che Zizzanorre sia una località di antico insediamento è rafforzato dalle scoperte avvenute alla Pieguzza, una piccola altura a poco meno di 200 metri di distanza, che testimoniano la sicura presenza in loco di uomini del Neolitico e di attività umane nella seconda metà del primo millennio a. C. (42)

Una serie di tombe rinvenute lungo l'attuale via S. Marco, che corre sotto la Pieguzza sul versante di Zizzanorre, lasciano presagire l'esistenza di un insediamento celto-gallico, che ebbe forse contatti con elementi etruschi, la cui influenza in Brianza ha lasciato tracce a valle S. Croce presso Missaglia, dove una lapide riporta caratteri mediati dall'alfabeto etrusco. E' tuttavia dal III-II secolo a. C. che le testimonianze archeologiche attestano una duratura e stanziale presenza di popolazioni in Cassago strettamente collegate ad un ambiente indigeno gallico-celtico riferibile all'età finale della civiltà di La Tène. Oltre agli abbondanti frammenti fittili trovati alla Pieguzza, il territorio di Cassago ha infatti restituito una splendida tomba ancora intatta, che conteneva un corredo funebre con vasi in argilla grossolana dalla tipica decorazione a graffiti a spina di pesce. La tomba fu scoperta in località Crotto, lungo una via ancora percorsa in epoca medioevale, che correva in aperta campagna.

Le popolazioni locali che produssero questi manufatti si integrarono nel corso del I secolo a. C. fino a tutto il I secolo d. C. con l'avanzante civiltà di Roma, che ormai aveva vittoriosamente preso possesso con le armi dei territori dei Galli Insubri.

Ne abbiamo conferma dalle ceramiche provenienti dalla Pieguzza, che furono scoperte presso una prima vasca o cisterna nel 1967. Fra l'abbondante materiale raccolto alcuni elementi fittili infatti erano costituiti da ceramiche in vernice nera del I secolo d. C. ed altri erano in terra nera sigillata.

Non mancavano inoltre embrici frammentari oltre a scorie di ferro e piccoli blocchi di minerale ferroso. La presenza di ferro lascia intuire un commercio locale di tale metallo o forse la sua lavorazione in officine alla Pieguzza o nelle sue adiacenze, dove esistevano sorgenti d'acqua ritenute adatte a migliorare le qualità del metallo. Plinio nella sua Naturalis Historia ricorda in effetti che "l'acqua dove è migliore dà fama al luogo per far nobile il ferro, sì come Bilbili e Turiassone, in Spagna e Como in Italia, benchè quivi non vi sia vena di ferro." (43)

Per la ricostruzione cronologica della storia di Cassago i frammenti di ceramica in vernice nera della Pieguzza sono molto interessanti. Questo tipo di ceramica, di tradizione campana, conobbe la sua ultima fase di produzione proprio tra la fine del I secolo a. C. e l'inizio del successivo (44) e costituisce in effetti uno dei migliori indicatori del processo di romanizzazione in Val Padana.

In questo periodo la produzione locale a poco a poco sostituisce l'analogo tipo di vasellame, che veniva importato da Adria. Rispetto all'originale prodotto campano, il vasellame locale si contraddistingue, come a Cassago, per la presenza di molte varianti e per il livello qualitativo scadente.

L'argilla utilizzata è fine ma friabile, generalmente giallognola o rossiccia. La decorazione è scarna e, almeno nelle forme più antiche, sono ripresi motivi geometrici a cerchi concentrici tipici dell'età di La Tène. Solo successivamente in età augustea appaiono motivi a palmetta impressi o stilizzati. Altrettanto interessanti sono i frammenti in terra sigillata provenienti dalla Pieguzza, pertinenti a tazze, patere, anforette, poichè testimoniano non solo insediamenti in età augustea, ma pure un maggior benessere economico che consentiva l'importazione di questo tipo di ceramica, che si diffuse a partire dal I secolo d. C.

Di tradizione aretina, la produzione di terra sigillata conobbe un largo sviluppo anche nel nord-Italia, i cui caratteri restarono tuttavia fedeli alla artigianalità originaria conservando la purezza dell'argilla e la buona qualità della vernice. Alla Pieguzza, pur quantitativamente scarsa, la terra sigillata presenta una certa varietà di forme e una gradevole ricercatezza nelle decorazioni.

La tipologia di ceramica più abbondante rinvenuta alla Pieguzza è comunque di tipo comune, pertinente frequentemente a tazze, vasi, patere, poculi, bicchieri. La sua elevata abbondanza lascia intuire che la zona della Pieguzza fu sede di un insediamento abitativo, poiché generalmente la ceramica comune era destinata all'uso domestico e quotidiano. In effetti i recipienti in ceramica priva di rivestimento erano utilizzati principalmente per la preparazione e la cottura dei cibi o per servire come stoviglia per la mensa. L'abbondante presenza di frammenti di coperchi conferma questa interpretazione.

L'esistenza di un insediamento romano attivo alla Pieguzza nel I-II secolo d. C. è stata confermata da una tomba scoperta in via don E. Colnaghi in occasione di scavi stradali nel 1981. Essa conteneva due patere, di cui una a vernice nera con decorazioni a palma, un falcetto e resti di ossa. Una piccola lastra ricopriva il tumulo, i cui lati erano costituiti da sassi e mattoni (45).

Un'altra tomba di questo periodo della prima età imperiale fu trovata in località Campiasciutti: era costituita da un'anfora coperta da un tegolone tagliato, che presentava resti ossei e una moneta, perduta, che sembra siano relative alla sepoltura di un bambino. Di discreto interesse fu anche la scoperta di un bollo in planta pedis su un frammento di patera presso la prima vasca alla Pieguzza. Com'è noto il bollo in planta pedis si diffuse in Italia a partire dall'epoca di Tiberio (14-37 d. C.) e costituiva una specie di marchio di fabbrica. Il frammento in questione è a fondo piano con parete diritta, pertinente con ogni probabilità a una tazza. Sul fondo interno in planta pedis il bollo DIICIAs, come ebbe a suggerire il prof. Davide Pace, va quasi sicuramente letto come DECIANUS, non attestato altrove e forse quindi rapportabile a una fornace locale. La coppia di aste verticali II ha infatti una funzione di E. Tale uso ebbe origini arcaiche, tuttavia l'abitudine del segno gemino II per esprimere E si protrasse anche in età imperiale e in certe grafie corsive. Documentato già nelle iscrizioni falische, il gemino II corsivo, sia dipinto che graffito, è copiosamente testimoniato a Pompei, Ercolano, Stabia e nelle catacombe di Roma, ma non è raro in altri luoghi anche molto lontani come la Dacia. Va sottolineato che la E rappresentata da II è particolarmente diffusa nelle iscrizioni graffite dei sepolcri protoimperiali dell'alto Verbano (46). Un esempio di E costituita da due aste verticali parallele è nota nei pressi di Cassago anche in una iscrizione del I secolo d. C. in serizzo proveniente da Oggiono, che fu descritta e fotografata da A. Magni nel 1903, quand'era ancora murata in un edificio di Peslago (47).

Nel frammento di Cassago il segno s in alto a destra della scritta DIICIA ha il valore di nus per cui tutto il bollo va interpretato DECIANUS. Il reperto è sostanzialmente attribuibile al I-II sec. d. C. (48).

Testimonianze di fornaci nelle immediate vicinanze di Cassago sono attestate a Brugora (49), a Rovagnate, dove è stato individuato un probabile spazio occupato da un complesso romano per la produzione di laterizi e ceramiche (50) nonché a Brivio, dove sono state segnalate due fornaci (51).

Nessuna fornace è per ora emersa a Cassago, ma non è improbabile che qualcuna fosse attiva nel passato, come sembra suggerire l'esistenza del toponimo ad fornacem in un documento medioevale del 1206 relativo ad alcuni terreni di Zizzanorre (52). Un altro frammento in ceramica con bollo in planta pedis fu scoperto nel 1983 presso una seconda vasca alla Pieguzza su un fondo di patera in terra sigillata di età tardo-imperiale assieme ad un ago crinale in osso.

La natura e la varietà dei reperti scoperti alla Pieguzza e nelle sue adiacenze, associati alla presenza di resti ossei di animali, maiali, mucche, cinghiali, pezzi di vetro di buona qualità, quasi trasparente e con poche impurità, chiodi, utensili in ferro, indicano che l'insediamento aveva un carattere agricolo. Non è dato conoscere quale ne fosse la natura e la vastità, tuttavia tali resti furono interpretati a suo tempo dalla Soprintendenza Archeologica come avanzi di una villa (53). E' tuttavia arduo stabilire che si tratti proprio di quella di Verecondo, poiché non vi sono elementi che possono attestarlo inequivocabilmente. Certo è comunque che questo insediamento agricolo della Pieguzza si protrasse con ogni probabilità fino a tutto il V secolo d. C. seguendo le vicissitudini della penetrazione e della diffusione locale della civiltà romana fino al suo declino in età barbarica.

Sempre alla Pieguzza infatti è stato possibile individuare abbondante ceramica grezza tipica del tardo impero e dell'età gota e barbarica. La natura degli impasti in quest'ultimo periodo diventa grossolana: i vari frammenti presentano tutti una relativa abbondanza di inclusi di varia dimensione, in quanto, trattandosi prevalentemente di ceramica destinata all'uso sul fuoco, una maggior quantità di degrassante rendeva il recipiente più resistente al calore. Normalmente come dimagrante erano utilizzate rocce cristalline, mica e granuli di calcare: l'impasto, la cottura irregolare, la tipologia indicano che siamo di fronte a prodotti locali o comunque provenienti da un ambito molto vicino.

Il materiale rinvenuto presso le due vasche alla Pieguzza si è rivelato dunque piuttosto eterogeneo ed abbraccia un arco di tempo che dal primo millennio a. C. si spinge fino al tardo impero e al IV-V secolo d. C. inoltrato. La tipologia della ceramica rinvenuta e soprattutto la presenza di due vasche a poca distanza l'una dall'altra, entrambe intonacate con malta signina ed entrambe con fondo in coccio pesto per garantire una adeguata impermeabilizzazione, confermano l'ipotesi espressa già sopra che nelle vicinanze ci fosse quasi sicuramente una villa rustica romana. Vasche o cisterne di questo genere sono note infatti nell'antichità romana e venivano costruite per conservare e migliorare la qualità del letame da utilizzare nei lavori agricoli. Solitamente erano poste nelle adiacenze della villa, ma senza una regola che ne codificasse la distanza.

La villa, che potrebbe coincidere con quella di Verecondo, poteva pertanto sorgere più lontano. Se spostiamo ora la nostra attenzione sulle scoperte che hanno riguardato l'area relativa al centro storico di Cassago troviamo una conferma esplicita in quest'area della continuità degli insediamenti umani dall'epoca romana fino alle invasioni barbariche. Tracce consistenti di reperti relativi al IV-V secolo d. C. furono evidenziati nel 1963 in occasione dell'abbattimento del palazzo Pirovano-Visconti, sorto nel perimetro del castrum medioevale, la cui demolizione restituì molto materiale lapideo, fra cui sette tombe-avello con coperchi ad acrotèri di età romano-barbarica e reperti epigrafici mutili di varia natura, fra cui una interessante incisione a rozzi caratteri che riporta l'iscrizione LIMES (54).

Le tombe avello erano state reimpiegate nella edificazione di muri e il loro elevato numero (ne furono evidenziate 7, altre frammentarie furono rinvenute nell'estate 1993 in occasioni di scavi per il recupero ambientale dei ruderi della villa Pirovano Visconti) lascia presupporre una significativa presenza tardo romana in loco, per quanto non si possa escludere un loro trasporto da luoghi circonvicini.

La scoperta nel 1989 nei boschi di Zizzanorre di un masso erratico parzialmente lavorato per ricavarne una tomba lascia piuttosto intuire l'esistenza di una produzione locale, tanto più che l'intero territorio di Cassago conserva ancora oggi relativa abbondanza di massi erratici di granito o serizzo. E' proprio questa in effetti la pietra più usata per questo tipo di monumento funerario, che scopriamo molto diffuso nel triangolo lariano, proprio per l'abbondanza di massi erratici trasportativi durante l'ultima glaciazione. La difficoltà della lavorazione produsse un tipo di manufatto stilisticamente povero e molto semplice, con la quasi totale assenza di elementi decorativi. In generale questi manufatti in serizzo si diradano ove diventa più rara la presenza di massi erratici e cioè nella Brianza meridionale, ove scorreva il confine tra i Municipi di Milano e di Como. Varie erano le difficoltà da superare per il trasporto di questo tipo di roccia, che tra l'altro ha un elevato peso specifico, tanto che sovente si provvedeva sul posto o presso la cava a rudimentali sbozzature di blocchi di pietra.

Questa lavorazione esprime una chiara scelta economica che vedeva nel serizzo una pietra di buona qualità a basso prezzo: la notevole quantità di materiale lapideo occorrente per realizzare un sarcofago sconsigliava in effetti in linea di principio l'uso di pietre più pregiate e costose.

Estremamente problematica è la datazione dei sarcofagi rinvenuti a Cassago a motivo dell'assenza di iscrizioni; tuttavia la tipologia ad acrotèri laterali sembra ricondurli a un'epoca abbastanza tarda, forse al IV-V secolo in piena età romano-barbarica e forse bizantina. La ricchezza dei reperti scoperti a Cassago, la loro tipologia e la loro diffusione diacronica indicano senza incertezze che questo paese conobbe una estesa presenza della civiltà romana su tutto il suo territorio per almeno quattro o cinque secoli. Appare certo inoltre che gli insediamenti umani in tale periodo si svilupparono attorno a diversi poli fra cui certamente vanno annoverati la Pieguzza, Zizzanorre e Cassago.

Non è certo tuttavia che queste località costituissero una unica realtà territoriale: della Pieguzza non si conosce neppure il toponimo in età romana, sempre che sia esistito e non vada piuttosto considerato come dipendenza di Oriano o dello stesso Zizzanorre.

Cassago e Zizzanorre invece hanno tipici etimi romani o romanizzati di preesistenze celtiche. Zizzanorre (Sciuscianò nella parlata locale) deriva da un probabile CAESIUS: la gens Caesia è sufficientemente attestata nel Comasco a Brienno (55) e ad Erba (56). Zizzanorre potrebbe forse derivare anche dal termine caesura, cioè luogo adibito a cava, forse di argilla, il cui sfruttamento poteva dipendere o aver generato l'insediamento della Pieguzza. Un documento medioevale del 1206 che riporta un elenco di terre nella Valletta di Oriano appartenenti alla Basilica di Monza cita proprio una località cesura: "ad cesuram pratum unum cum tribus querquibus et est pertice novem et pedes tres a mane et a meridie ... Monachi a sero Iohannisboni de Sozanore" (57). Cassago invece ha un sostrato celtico, che avrebbe generato un romano rus Cassiacum da CASSIUS o un rus Cassiciacum da CASSICIUS. Sembrano da escludere i gentilizi anch'essi attestati in area lariana di CASSIANUS (58) e CASTICIUS (59), quantunque quest'ultimo possa rivelare motivi di interesse in una ipotetica evoluzione toponomastica da rus Cassiciacum a Cassago.

Una CASSIA OPTATA (60) e una CASSIA HELIODORA (61) sono documentate nell'alto Lario, ma è soprattutto una lapide, che fu rinvenuta a Valle Guidino nel 1871 e il cui testo riporta

VICTORIAE MASUINNORUM LIB(ertus) SUCCESSOR V(otum) S(olvit) L(ibens) M(erito)

a proporre nuove interessanti allusioni a Cassago, soprattutto relativamente al suo possibile originario etimo. Nel testo infatti si parla di un certo liberto Successor della famiglia dei Masuinni, documentati solo a Valle Guidino e recentemente a Milano in una stele risalente al I secolo d.C.

Questa iscrizione rivela che i Masuinni avevano stretti legami con i Cassii. Eccone il testo:

C(aius) CALVE(ntius) CAMPANU(s) SIBI ET CASSIAE POLL(ae) CONIUGI CARISSIMAE ET CALVENTIO CALVO FIL(io) (sex) VIR(o) IUN(iori) ET C(aio) CASSIO SEXTILIO

AMICO CASSIAE SATULLAE SOCERAE C(aio) CASSIO MASUINNI F(ilio) SOCERO

Che questi Cassii provenissero dall'alta Brianza, dove avevano dato il nome (o ricevuto) alla località Cassiciaco (vezzeggiativo di Cassiaco?) o Cassiaco ? Una Catia Sextilia è nota anche ad Agliate nel III secolo d. C. Il collegamento è suggestivo, ma non del tutto infondato perchè i Masuinni erano certamente discendenti dei primi celti romanizzati, come sembra indicare il loro etimo di origine celtico-germanica collegato, nella sua radice nominale, all'aggettivo masane, che si trova riferito alle Matres o Matronae, divinità di indubbia origine celtica, particolarmente venerate nel territorio cisalpino, benefiche dee della famiglia o di comunità maggiori, quali il pagus, come indicano i loro appellativi presumibilmente tratti dai nomi di tribù. Erano venerate ancora nel III-IV secolo d.C. come testimoniano un'ara trovate ad Angera ed un'altra a Sabbioncello presso Merate, che ricorda "quest'ara, dedicata alle Matrone per la guarigione di Gneo, Caio fece edificare." (63)

Quanto al gentilizio CASSICIUS (vezzeggiativo di Cassius ?) parecchie sono le sue attestazioni in iscrizioni romane (64), che confermano l'esistenza di una gens Cassicia dalla quale può essere uscito il proprietario delle terre, che nel IV secolo d. C. verranno chiamate Rus Cassiciacum.

 

c. L'ubicazione della villa di Verecondo: ipotesi e prospettive

Le molteplici e ripetute scoperte archeologiche cassaghesi di per sè non sono sufficienti a dimostrare l'esistenza in loco della villa di Verecondo. Tuttavia ne sono la premessa necessaria e ciò è tanto più significativo quanto più si valuta l'intrinseca coerenza delle conseguenze che si possono trarre dai vari tipi di indagine sinora condotti. Prendendo a prestito la terminologia giudiziaria possiamo affermare che ci sono numerosi e fondati sospetti, ma manca la certezza del corpo del reato. Mancano cioè i resti evidenti della villa di Verecondo. Tra l'altro non possiamo nemmeno essere sicuri che esistano ancora o siano conservati sotto terra da qualche parte. Il riutilizzo di materiale romano in epoca medioevale e tardo-medioevale può infatti avere sottratto elementi decisivi, che solo occasionali e fortuiti rinvenimenti possono riportare alla luce.

D'altra parte molti di questi materiali sono stati reimpiegati nella costruzione di edifici o mura, che sorgevano nell'area del castrum medioevale e non c'è da meravigliarsi se tali costruzioni si siano sovrapposte a preesistenze romane inglobandole. La questione non è marginale, soprattutto in virtù del fatto che Cassago fu una località che non venne mai abbandonata e conobbe piuttosto una continuità insediativa dall'età longobarda fino ai nostri giorni.

Dove poteva sorgere dunque la villa di Verecondo ?

I ritrovamenti alla Pieguzza, per quanto interessanti, poiché documentano con certezza un'attività agricola durata per secoli, non sono tuttavia tali da assicurare l'esistenza di una villa in un limitato perimetro adiacente alle due vasche scoperte. I muri a secco evidenziati nel 1967 purtroppo non furono sufficientemente analizzati per cui non è possibile stabilire se erano o no di pertinenza di una abitazione, mentre le due vasche indicano che il luogo era sede piuttosto di non meglio specificabili attività agricole, probabilmente in connessione a una strada che vi scorreva accanto, come sembrano suggerire le diverse tombe scoperte lungo via S. Marco.

La Pieguzza in ogni caso disponeva di acqua a sufficienza, sia per l'esistenza di una sorgente denominata in questo secolo Pisaròtt e ancora attiva fino a qualche anno fa prima di essere intubata, sia per la ricchezza della falda, cui si può attingere facilmente con pozzi di modesta profondità. Non si può escludere in linea di principio che l'eventuale villa di Verecondo potesse sorgere più a valle, ma nulla è stato scoperto, o reso noto, in tale zona, che pure ha conosciuto recentemente una estesa urbanizzazione. Tutta la Pieguzza e le terre circostanti furono inoltre sempre destinate a terreni coltivi o vigneti e non v'è traccia già dal catasto teresiano di edifici lì esistenti: segno dunque che la località o fu abbandonata o non conobbe una vera e propria presenza edilizia in epoca romana e post-romana.

E' dunque più probabile che la villa di Verecondo sorgesse a Cassago, come del resto richiama il toponimo stesso usato da Agostino e cioè rus Cassiciacum. La località corrisponde d'altra parte significativamente all'ambiente e al paesaggio descritti da Agostino nei suoi Dialoghi.

L'esistenza di antichità in Cassago fu messa in evidenza la prima volta dal cardinale Federigo Borromeo, che ebbe l'opportunità di osservarle durante le sue visite pastorali agli inizi del Seicento.

Il Borromeo lasciò infatti scritto che "id porro Casissiacum quem locum inclyti Doctoris verba celebrant, nos credidimus esse Cassagum, coniecturamque nostram et natura loci et ratio nomini et veterum aedificiorum reliquiae, plurimaque vestigia antiquitatis adiuverunt." 65

Non è dato sapere quali fossero tali antichità e dove si trovassero: è tuttavia plausibile localizzarle presso la chiesa medioevale, in un'area tradizionalmente legata al culto di S. Agostino e che anche recentemente ha restituito interessanti reperti archeologici. Presso la cosiddetta fontana di S. Agostino furono infatti scoperti un muro impermeabilizzato con calce e alcune tessere di mosaico, che fanno intuire la possibile esistenza di un piccolo avanzo di costruzione termale ad uso privato, da verificare tuttavia con altre risultanze archeologiche, come ad esempio i due frammenti di mattone romano grande e spesso recuperato da Pasquale Cattaneo a sud-ovest del palazzo Pirovano-Visconti, che si pensa facesse parte di un ipocausto. Sempre nella medesima area furono messi in luce nel 1984-86 due vani con muri sia a secco che con legante in calce, che contenevano generoso materiale in ceramica soprattutto rinascimentale. Fra l'altro si rinvennero anche due frammenti fittili, l'uno pertinente quasi sicuramente a un coperchio e l'altro pertinente ad un'ansa di anforetta, che probabilmente risalgono al tardo-impero o all'età barbarica e che significativamente possono essere reperti guida di qualche importante insediamento non ancora identificato. Altrettanto significativi sono dei tubuli, all'interno rivestiti di ceramica, provenienti sempre dalle vicinanze del palazzo, che documentano quasi sicuramente un'abitazione piuttosto signorile.

Ma è soprattutto un residuo di muro incorporato nella struttura della fontana di S. Agostino a destare grande interesse, poiché presagisce una precedente presenza di strutture in malta cementifera, che appaiono del tutto avulse dal contesto generale della fontana e che richiamano per la tipologia e per l'aspetto all'età romana (66). E' impossibile tuttavia asserire con certezza che tale manufatto si possa attribuire a qualche balnea nonostante che a pochi metri di distanza siano stati rinvenuti tre tasselli di mosaico e un muro. Altre testimonianze di antichità si conservarono certamente nella chiesa medioevale di S. Brigida Vergine, sorta probabilmente in età carolingia o post-carolingia, fra cui la citata iscrizione dedicata a MARILLA: l'icnografia dell'edificio, che fu demolito nel 1759-1760, attesta inoltre la presenza di due colonne che reggevano un'architrave il cui scopo era separare il presbiterio e l'altare maggiore dal resto dell'edificio. Non è imprudente ipotizzare che queste due colonne provenissero da altra costruzione e che esse siano state riutilizzate in epoca altomedioevale per il semplice fatto che erano disponibili. Data la limitata grandezza del corpo della chiesa non v'era infatti alcuna necessità di natura architettonica o statica che ne motivasse l'impiego. Probabilmente nelle vicinanze c'era materiale a disposizione o esistevano ancora i resti di una preesistente costruzione, che forse risaliva ad una età romana, quella stessa forse che vide la presenza di MARILLA e di altri proprietari fra cui lo stesso Verecondo.

L'area attorno all'attuale chiesa parrocchiale, la stessa area che vide svilupparsi il castro de caxago nell'alto medioevo, è dunque la zona che più di ogni altra corrisponde ai requisiti che caratterizzano la villa di Verecondo, sia sotto l'aspetto ambientale che archeologico. E' qui infatti che anche nel passato si sono focalizzati gli interessi degli studiosi che si sono occupati della questione. Il radioestesista signor Labrotti si spinse oltre e affermò che sotto l'attuale piazza e parte della chiesa parrocchiale a qualche metro di profondità si trovano diversi ruderi (67). Nessuno però sinora ha mai scavato e d'altro canto non è possibile oggi essere sicuri che tutto quanto sinora discusso si riferisca alla villa di Verecondo. Tuttavia l'entità dei reperti dimostra in ogni caso ampiamente l'antichità di Cassago quale centro rurale nel contesto di quella campagna romana del municipium milanese che fu intensamente abitata all'epoca di S. Agostino.

Nessun'altra delle località considerate in questo studio ha restituito materiale archeologico così in abbondanza e di pregevole qualità, così come per nessuna esiste quella ineluttabile convergenza di dati e criteri dall'oggi all'ieri e dall'ieri all'oggi come si verifica per Cassago.

Una attenta rilettura delle testimonianze archeologiche, che attendono ancora una sistematica classificazione e interpretazione, potrà tuttavia forse sciogliere molti dei dubbi che ancora persistono.

Questa dunque è la nuova frontiera che si apre al ricercatore, una frontiera che potrebbe rivelarsi finalmente decisiva per determinare la reale ubicazione della villa di Verecondo.

 

 

Note del capitolo "Storicità della villa di Verecondo"

 

(1) Conf. 9, 3, 5 ediz. M. SKUTELLA, 1934: «Tui sumus. Indicant hortationes et consolationes: fidelis promissor reddis Verecundo pro rure illo eius Cassiciaco, ubi ab aestu saeculi requievimus in te, amoenitatem sempiterne virentis paradisui tui quoniam dimisisti ei peccata super terram in monte incaseato, in monte tuo, monte uberi ».

(2) La letteratura su questo argomento è alquanto vasta. Un'utilissima bibliografia generale si può trovare nella collana Opere di Sant'Agostino I, a cura di D. GENTILI, XLVII-LIII, Città Nuova Editrice, Roma 1970.

(3) R. HIRZEL, Der dialog, Leipzig 1895, II, 376-380.

(4) Cfr. J.J. O'MEARA, St. Augustine. Against the Academics, ACW 12, Westminster Md 1950, 23 ss.; IDEM, «The historicity of the early dialogues of Saint Augustine», in Vigiliae Christianae, 5 (1951), 150-178; G. DE PLINVAL, La thecnique du dialogue chez saint Augustin et saint Jerôme, in «Actes du I Congr. de la Féd. Int. des Ass. de ét. classique» (1950), Parigi 1951, 308-311; A. GUZZO, Agostino dal Contra Academicos al De vera Religione, Firenze 1925, 6; C. BOYER, Christianisme et Néoplatonisme dans la formation de saint Augustin, Roma 1953, 24.

(5) Cfr. D. OHLMAN, De S. Augustini dialogis in Cassiciaco scriptis, Strasburgo 1897, 8-17; U. MORICCA, S. Agostino l'uomo e lo scrittore, Torino 1930, 114-123; F. CAYRÉ, Initiation à la philosophie de Saint Augustin, Parigi 1947, 93 ; V. CAPÀNAGA, «Introduciòn a Contra Academicos», in Obras de San Agustìn, III, Madrid 1963, 15; A. GUDEMANN, «Sind die Dialogue Augustins historisch?» in Festschrift der phil. hist. Vereins dell'Università di Monaco, 1926, 16-17; J.H. VAN HAERINGEN, De Augustini ante baptismum rusticantis operibus, Groningae 1917, 39 ss.; O. PERLER, Les Voyages de Saint Augustin, Parigi 1969, 179.

(6) AGOSTINO, Conf. 9, 4, 7: «et benedicebam tibi gaudens profectus in villam cum meis omnibus» e anche Conf. 9, 4, 8: «rudis in germano amore tuo, cathecuminus in villa cum cathecumino Alypio feriatus».

(7) AGOSTINO, Retractationes I, 1-8.

(8) AGOSTINO, Lettera 7, 2, 3: «Iamvero quod tibi videtur anima etiam non usa sensibus corporis corporalia posse imaginari, falsum esse».

(9) AGOSTINO, Lettera 7, 2, 4: «Omnes has imagines, quas phantasias cum multis vocas, in tria genera commodissime ac verissime distribui video: quorum est unum sensis rebus impressum, alterum putatis, tertium ratis. Primi generis exempla sunt, cum mihi tuam faciem, vel Carthaginem, vel familiarem quondam nostrum Verecundum et si quid aliud manentium vel mortuarum rerum, quos tamen vidi atque sensi, in se animus format ».

(10) AGOSTINO, Conf. 8, 6, 13.

(11) AGOSTINO, Conf. 6, 10, 17.

(12) AGOSTINO, Conf. 9, 4, 7 e cfr. Ep. 3, 4, 5, 9-14.

(13) AGOSTINO, Conf. 8, 6, 13.

(14) AGOSTINO, Conf. 9, 3, 6.

(15) AGOSTINO, Conf. 9, 3, 5. ;

(16) B. AGOSTI, Alcuni ‘Ambrosii’ a Milano alla fine del IV sec. e la ‘Basilica Apostolorum’, in RAC (1991), pp. 29-34.

(17) CLAUDIANO, Panegyricus dictus Flavio Manlio Teodoro consuli, ed. J. B. HALL, Leipzig 1985. Notizie relative a Manlio Teodoro si trovano in S. MAZZARINO, La prefettura del pretorio sotto il governo di Stilicone, Roma 1938, 10; C. PIETRI, Une aristocratie occidentale et la mission chrétienne: l'exemple de la ‘Venetia’, in AA. VV., Aquileia nel IV secolo, Udine 1982, 101-102; S. RODA, Commento storico al IX libro dell'epistolario di Q. Aurelio Simmaco, Pisa 1981, 43; S. MAZZARINO, Antico, tardoantico ed era costantiniana, I, Bari 1974, 395-396; ENSSLIN-WESSNER in PAULY-WISSOWA, RE, alla voce Theodorus n. 70; L. CRACCO RUGGINI, Il paganesimo romano fra religione e politica (384-394 d. C.): per una reinterpretazione del ‘Carmen contra paganos’, in Atti dell'Accademia Nazionale dei Lincei, 1979, 130.

(18) H. KEIL, Grammatici latini, Lipsia 1856-80, VI, 581.

(19) A. SOLIGNAC, Il circolo neoplatonico milanese al tempo della conversione di Agostino, in Agostino e il battesimo, Palermo 1988, 43-56; P. COURCELLE, Les premières Confessions de S. Augustin, in Revue des Études Latines, 22, 1945, pp. 155-174 e P. COURCELLE, Recherches sur les Confessions de Saint Augustin, Parigi 1968.

(20) AGOSTINO, De Beata Vita 1, 4.

(21) AGOSTINO, De Beata Vita 1, 4.

(22) AGOSTI, op. cit., 32-33.

(23) AGOSTINO, Confessioni 6, 14, 24.

(24) AGOSTINO, Confessioni 6, 14, 24.

(25) AGOSTINO, Confessioni 8, 6, 15.

(26) AGOSTINO, De Ordine 1, 2, 5.

(27) C.I.L. V, 5991 e soprattutto al n. 6073: " I. O. M. DECIA VERECUNDUS DA. CUM CONIUG ET FILIIS V. S. L. M. ", proveniente dalla chiesa di San Simpliciano a Milano.

(28) Stele funeraria mutila: riporta "Q. L. VERECUNDO.. FT. VIBIAE. Q. L. VERECUNDAE TFI ", in I Romani nelle Alpi, Convegno Storico di Salisburgo 1986, Bolzano 1989, 348. A Verona è attestato altresì un Verecondo vescovo della città: si tratta del XXV della serie e le sue spoglie riposano nella cattedrale.

(29) Ne troviamo in Umbria ad Assisi (Attilio Verecundo Decurione, presso il Museo Romano) e a Gubbio (Marzia Vereconda, presso il Museo Romano), dove addirittura si venera un S. Verecondo cavaliere del IV sec. d. C., che proveniva dalle Gallie, cfr. RUGHI D. LUIGI, Memorie su l'Abbadia di S. Verecondo in Vallingegno, Gubbio 1935, 8-9.

(30) Si tratta di un fondo di patera di forma Dr. 17 B, di cui al n. 44 dell'inventario provvisorio. Il fondo è piano, il piede alto ad anello. Sul fondo interno è impressa la marca ERECV, in bollo pediforme di tipo anatomico con al centro alcuni cerchi concentrici lievemente incisi; corpo ceramico c.s.; altezza max. 2 e Ø max. 8.

Cfr. DONATI, Solduno, t. Ba4, 75 e 50; OXÉ-COMFORT, Corpus Vasorum Arretinorum, Bonn 1968, al n. 2260 e M. CORSANO, La raccolta del Museo di Cremona e lo scavo del pozzo del mappale n. 50, in RAC (1990), 54.

(31) C.I.L. V, 8917. La lapide fu portata da don Vitaliano Rossi a Cinisello Balsamo dove tuttora si trova murata nella parete di una cantina in via Settembrini 3 di proprietà Cipelletti.

(32) B. NOGARA, Il nome personale nella Lombardia durante la dominazione romana, Milano 1985, 11.

(33) Archivio Topografico Soprintendenza, Cinisello Balsamo, Mirabella Roberti 16/2/1976.

(34) AGOSTINO, Lettera 44, 6, 14: «ad aliquam villam nos convenire debere non magnam, ubi nullius nostrum esset ecclesia, quam tamen villam communiter possident homines et nostra communionis et ipsius, sicuti est villa Titiana». Cfr. anche FLORENTINO, Digesto 50, 16: «in usu urbana aedificium aedes, rustica villae dicuntur ... rure autem ager appellatur».

(35) Scorrendo una carta topografica verso il nord di Milano facilmente si scoprono Villa Raverio, Villa Bartianorum, Villa Franca, Villa presso Agliate, Villa di Colzano etc.

(36) Cfr. G. S. CHIESA, Testimonianze archeologiche della romanità in Lombardia, in I Romani nelle Alpi, Bolzano 1989, 337. Esempi di ville di campagna sono noti in Lombardia a Sesto Calende, Mercallo dei Sassi, Vergiate, Mornago, Morimondo (R. CASSANELLI, La Chiesa di S. Eusebio in Cinisello Balsamo, 26-29, Cinisello Balsamo 1986), Giussano (G. CASSINA, Don Spirito Colombo, Giussano, una chiesa, una storia, 103, Giussano 1982), Viadana, Palazzo Pignano (Notiziario della Soprintendenza Archeologica di Lombardia 1982, 46 e 50), S. Felice al Benaco, Somma Lombardo, Isso, Isola Dovarese, Como (Notiziario, ibid. 1983), Arzago d'Adda, Sermide, Desenzano (Notiziario, ibid. 1985), Novolento, Casazza, Pontelambro (Notiziario, ibid. 1987), Sirmione, Toscolano Maderno, Olmaneta-Ostiano, Monzambano, Casale Litta (Notiziario, ibid. 1988-89), Mariano Comense (Notiziario, ibid. 1990) e sono relative ad un arco di tempo che va dal I al IV secolo d.C. Talora sono state scoperte strutture termali, mentre più in generale sembra che l'alzato, specialmente per la pars rustica, utilizzasse principalmente legname. Di notevole interesse è la villa di Robbiano, il cui sopralluogo nel 1888 evidenziò la presenza di un mosaico o opus tessellatum a disegno geometrico lungo più di 9 m. L'ulteriore scoperta di una antefissa fa datare la costruzione al IV secolo d.C. e attesta non solo la presenza di ville in Brianza ma pure l'esistenza di una adeguata rete viaria di servizio. Cfr. R. BERETTA, Robbiano Brianza, Notizie Storiche, pp. 25-29, Monza 1968. L'impianto di una villa romana è stato recentemente scoperto anche in località Schieppo a Pontelambro, cfr. L. CASTELLETTI - FORTUNATI M. ZUCCÀLA, Pontelambro (Como), località Schieppo. Impianto abitativo tardoromano, in NSAL, 77-78, 1987.

(37) Ancora in epoca gota Teodorico costruì un palazzo a Monza perchè "la zona d'estate essendo vicina alle Alpi è fresca e salubre", cfr. P. DIACONO, Historia Langobardorum, IV, 21.

(38) AGOSTINO, C. Acad. 1, 5, 15: «diesque pene totus cum in rebus rusticis ordinandis ... peractus fuit» e C. Acad. 1, 6, 16: « ita enim res pridie constitutae ut largum esset otium»

(39) AGOSTINO, C. Acad. 2, 11, 25: «vix tamen domesticis negotiis evoluti sumus» e C. Acad. 3, 2, 2: «prorsus ad nihil aliud surgeretur, quod tanta de re familiari necessario peragenda exstiterunt».

(40) AGOSTINO, De Ordine 1, 4, 11: «respondebo secutos esse homines uber terrae». La regione aveva meritato da Cicerone l'epiteto di flos Italiae (Philippicae III, 5, 13).

(41) AGOSTINO, C. Acad. 2, 4, 10: «paululumque cum rusticis egimus quod tempus urgebat». Le colture più comuni erano cereali, vite e olivo, si praticava l'allevamento di ovini e suini (comacinae pernae di VARRONE, R. R. 2, 4, 10), collegati all'esistenza di querceti e compascua.

(42) AGOSTINO, C. Acad. 3, 1, 1: «.. nam erat tristior quam ut ad pratum liberet descendere ..» e ancora in De Ordine 2, 1, 1: « exorto sole clarissimo invitavit coeli nitor ... in pratum descendere.»

(43) AGOSTINO, De Beata Vita 1, 4, 23: «placuit ergo in pratuli propinqua descendere.»

(44) AGOSTINO, C. Acad. 2, 4, 10. Agricola (da ager e colo) esprime il contatto diretto dell'uomo con la terra. Esso può significare tanto il contadino che lavora l'appezzamento di sua proprietà (PLINIO, Historia Naturalis, 1, pref. 6) quanto il ricco possidente (VARRONE, De agricoltura, 1, 4, 1). L'ambivalenza del termine si spiega col fatto che i membri dell'aristocrazia romana mostravano di avere in grande considerazione le proprie occupazioni agricole, di cui erano soliti controllare i grandi lavori nei campi durante l'estate. Il termine colonus ha una storia più complicata. Spesso è un semplice sinonimo di agricola, che si adatta al caso di «piccolo agricoltore», ma può anche riferirsi ai membri dell'aristocrazia senatoria ed equestre (Cicerone cita un cavaliere optimus colonus: Dell'oratore, 2, 287). Compare inoltre in una pluralità di significati tecnici: colonus è l'abitante della colonia (romana o latina), come pure è il contadino affittuario. Quest'ultima accezione si riscontra già nel I secolo a. C., ma diventa più frequente nella prima età imperiale e soprattutto nel tardo Impero.

(45) AGOSTINO, De Ordine 2, 6, 18: «puer de domo cui dederamus id negotii, concurrit ad nos et horam prandii esse nuntiavit».

(46) P. DIACONO, Historia Langobardorum, II, 31.

(47) AGOSTINO, De Ordine 1, 3, 9: «quod superstitiosi solent etiam de muribus augurari, si ego illum murem vel soricem, strepitu meo commonui».

(48) AGOSTINO, De Ordine 1, 3, 6: «percusso iuxta ligno sorices terruit», De Ordine 1, 3, 9 e De Ordine 1, 5, 14: «sorex etiam prodit.»

(49) AGOSTINO, De Ordine 1, 8, 25: «cum ecce ante fores advertimus gallos gallinaceos ineuntes pugnam nimis acrem.»

(50) Polibio e Strabone parlano di questi caratteristici allevamenti, mentre Plinio in una sua lettera a Calvizio riferendosi alle terre a nord di Milano le indica "fertili, grasse, acquose .. vi sono campi, vigne, selve, che offrono redditi modesti ma costanti."

(51) AGOSTINO, Soliloquia 2, 6, 12. Vino aromatizzato si beveva forse anche a Cassiciaco, come pare debba interpretarsi il passo del C. Acad. 3, 4, 7 in cui Licenzio viene invitato a bere sia metaforicamente che di fatto, dopo essersi allontanto dal pranzo. Il vino aromatico mielato era una bevanda comune presso i Romani. Una ricetta per la sua preparazione è riportata in APICIO, De re coquinaria, I, 1.

(52) AGOSTINO, De Ordine 1, 5, 12: «istas ipsas arbores quae fructus non afferunt.»

(53) SIDONIO APOLLINARE, Epist. 1, 5, 3-7: «Ulvosum Lambrum, caeruleum Adduam .. qui Ligusticis .. montibus oriebantur .. quorum ripae torique passim quernis acernisque nemoribus vestiebantur.»

(54) AGOSTINO, De Ordine 1, 3, 6 e 2, 5, 12.

(55) AGOSTINO, C. Acad. 2, 11, 25: «Itaque cum ad arborem solitam ventum esse, mansissemus».

(56) AGOSTINO, C. Acad. 3, 1, 1; De Beata Vita 4, 23; De Ordine 2, 1, 1.

(57) AGOSTINO, De Ordine 1, 8, 22.

(58) AGOSTINO, C. Acad. 3, 4, 9: «istae balneolae aliquam decoris gymnasiorum faciant recordationem».

(59) AGOSTINO, De Ordine 2, 11, 34: «ipso aedificio ... » e De Ordine 1, 8, 25: «ire coeperamus in balneas.»

(60) AGOSTINO, De Ordine 1, 3, 6: «aquae sonus pone balneas quae praeterfluebant.»

(61) AGOSTINO, De Ordine 2, 11, 34: «Itaque in hoc ipso aedificio singula bene considerantes non possumus non offendi quod unum ostium videmus in latere, alterum prope in medio nec tamen in medio collocatum ... Quod autem intus tres fenestrae, una in medio, duae a lateribus, paribus intervallis solio lumen infundunt, quam nos delectat diligentius.»

(62) AGOSTINO, De Ordine 1, 4, 11: «ligneolis canalibus superlabitur et ducitur usque in usus nostros.»

(63) AGOSTINO, De Ordine 1, 3, 6: «quomodo canalis iste inconstanter sonet».

(64) AGOSTINO, De Ordine 1, 3, 7.

(65) AGOSTINO, De Ordine 1, 3, 6.

(66) AGOSTINO, De Ordine 1, 3, 6.

(67) M. ROTA, La villeggiatura di S. Agostino a Cassiciaco, Varese 1928.

(68) F. MEDA, La controversia sul "Rus Cassiciacum", in Miscellanea Agostiniana, II, 55, Roma 1931.

(69) A. MANZONI, Lettera al Signor Poujoulat, 1843.

(70) R. BERETTA, Del Rus Cassiciacum di S. Agostino, 23-25, Carate 1947.

(71) M. ROTA, op. cit., 62-75.

(72) AGOSTINO, De Ordine 1, 4, 11.

(73) AGOSTINO, De Ordine 1, 4, 13.

(74) AGOSTINO, De Ordine 1, 5, 14.

(75) AGOSTINO, De Ordine 1, 4, 11.

(76) AGOSTINO, De Ordine 1, 7, 20: «Sed quod videbitur per diem respondebo, qui mihi iam videtur redire, nisi lunae est ille qui fenestris fulgor induitur.»

(77) AGOSTINO, De Ordine 1, 8, 22.

(78) O. PERLER, op. cit., 186-187.

(79) AGOSTINO, De Ordine 1, 8, 22: «pridie post coenam cum ad requisita naturae foras exisset, paulo clarius cecinit, quam ut mater nostra ferre posset, quod illo loco talia continuo repetita canerentur..obiurgavit eum religiosissima, ut scis, femina, ob hoc ipsum quod inconveniens locus cantico esset». Cfr. anche De Ordine 1, 8, 23.

(80) AGOSTINO, Soliloquia 2, 12, 22: «non enim ut sit iste paries, paries hoc colore fit, quem in eo videmus, cum etiam si quo casu nigrescat aut albescat, vel aliquem alium mutet colorem.»

 

 

Note del capitolo "Alcuni criteri per localizzare il Rus Cassiciacum"

 

(1) CASTIGLIONI, Gallorum Insubrum Antiquae Sedes, Mediolani 1541, 63.

(2) C. REDAELLI, Notizie istoriche della Brianza, Milano 1825, 158-159.

(3) G. CORTINOVIS, I priori maggiori di Pontida, I, 181, Brembate 1978.

(4) A. SASSI, Historia Litterario-Typographica Mediolanensis, Milano: «meditationibus Autumni bimestre impenderet ».

(5) G. RIPAMONTI, Historia Ecclesiae Mediolanensis, decas prima, 1617, 229 e 234.

(6) F. BORROMEO, De' piaceri della mente cristiana, Milano 1625, 104-105.

(7) F. BORROMEO, De Christianae mentis jucunditate, libri tres, Mediolani 1632, 87.

(8) T. CALCHI, Mediolanensis Historiae Patriae, lib. II, Milano 1490, 38.

(9) A. S. M., Biblioteca Arch. Fabbrica Duomo di Milano, fol 309.

(10) R. BERETTA, Compartizione dell'estimo del Monte di Brianza fatta nell'anno 1456, folio 18 e 67.

(11) A. S. M., Pergamene e fondo di religione, S. Giovanni di Monza, 1217.

(12) SORANZO, Enciclopedia Treccani, III, 352.

(13) Cfr. Historia Vicecomitum Mediolani, ms. Trotti 78. Sin dal secolo X i Calchi erano signori di Calco. Iscritta nella Matricola Viscontea del 1377 questa famiglia produsse nel XIV secolo eminenti personaggi fra cui Bartolomeo e Tristano.

(14) G. RIPAMONTI, Historiarum Patriae in continuationem Tristani Calchi, usque ad mortem Federici Card. Borromei, l. XXIII, Milano 1641-1643. Nella personalità di quest'uomo, nato in una frazione di Nava, si incontrano le umili origini brianzole di povertà contadina, un temperamento irascibile, un ingegno sveglio accoppiato a memoria tenace. A diciotto anni, quando, esaminato dal cardinal Federico Borromeo, era stato accolto nel Seminario della Canonica di Milano, era già in grado di dar lezioni di latino, greco ed ebraico. Abbandonato il seminario per la povertà della famiglia, fu richiesto dal Borromeo nel 1609 come dottore dell'Ambrosiana, dove ebbe modo di far rifulgere il suo talento alla narrazione storica, dove avrebbe potuto distendersi in quella «fluenza» tulliana che caratterizza il suo stile.

(15) F. PETRARCA, Familiares XVII, 10 all'Aghinolfi del 1 gennaio 1354.

(16) Arch. Stor. Civ., Milano, Disegno della Raccolta Bianconi attribuito al Richini, in Notiziario 1986, Soprintendenza Archeologica di Lombardia, 142 e M. P. ROSSIGNANI, Recenti scoperte archeologiche a Milano, in Cà de Sass, 118, 29.

(17) REGGIORI-BRIVIO, Guida alla Basilica di S. Ambrogio, Milano 1978, 100.

(18) REGGIORI-BRIVIO, op. cit., 26.

(19) F. PETRARCA, De Vita Solitaria, II, 4: «Nondum nos Mediolano egredi magnus alter eiusdem urbis habitator sinit, Augustinus, quem Deus Ambrosio malis erroribus infectium, quasi egrotum filium docto medico pius pater dedit, ut is eum undis salubribus ablutum curatumque Deo redderet. Ille ergo cum ignarus omnium, que erga se clam divina pietas ageret, Mediolanum veniens, ubi tunc sacer flotebat Ambrosius, vitam tandem mutare decrevisset, civitate relicta, solitudinem ruris appetiit, tu, qui cum multis insanierat, solus resipisceret. Caseatum vocat ipse, et id manet hactenus ruris nomen».

(20) Arch. Curia Arciv. Milano, Pieve di Missaglia, vol. 18.

(21) Codice n. 2085 della Collezione Regina Cristina alla Vaticana del XIII secolo e altri più tardi del XIV-XV secolo soprattutto in area lombarda.

(22) Codice H 47 da Avignone del XV secolo all'Ambrosiana.

(23) Codice A 47 del XV secolo all'Ambrosiana.

(24) Codice Vaticano-Urbinate n. 79.

(25) Biblioteca di S. Marco a Venezia, secolo XV.

(26) Il Codice Sessoriano, che riporta Cassiciaco, è l'unico manoscritto precarolingio delle Confessioni e si reputa che provenga da uno scriptorium dell'Italia settentrionale, forse Ravenna o Verona. Con ogni probabilità fu poco ricopiato: il solo manoscritto che sembra dipenderne direttamente è il Vindeb. lat. 712 del secolo XI. Viene attualmente datato alla fine del VI secolo. Cfr. M. PALMA, Sessoriana. Materiali per la storia dei manoscritti appartenuti alla biblioteca romana di S. Croce in Gerusalemme, in «Sussidi eruditi, 39», Roma 1984.

(27) L. BIRAGHI, Sant'Agostino a Cassago di Brianza sul Milanese in ritiro di sette mesi, Milano 1854, 22.

(28) Mons. Biraghi cita i codici C 80, M 3, F 69, S 40 della Biblioteca Ambrosiana.

(29) AGOSTINO, De Ordine 2, 17, 45: «Me enim ipsum, cui magna necessitas fuit ista perdiscere, adhuc in multis verborum sonis Itali exagitant et a me vicissim, quod ad ipsum sonum attinet, reprehenduntur».

(30) M. MAGISTRETTI, Notitia Cleri mediolanensis de anno 1398 circa ipsius immunitatem, Manoscritto D 60 della Biblioteca Capitolare Metropolitana di Milano.

(31) A. S. M., Fondo religione, Cremella.

(32) A. S. M., Bibl. Arch. Fabbrica Duomo Milano, Possessi Foresi, f. 309.

(33) Ibidem.

(34) Archivio Prepositurale di Missaglia, vedi anche V. LONGONI, Torri e campanili nella Pieve di Missaglia, Oggiono 1988, 243- 266.

(35) PANDOLFI, Regesto dei documenti monzesi, dattiloscritto del 1962, Biblioteca Civica Monza.

(36) Statuti delle Strade del Contado di Milano del 1348, ed. G. PORRO LAMBERTENGHI in Miscellanea di Storia Italiana, VII, Torino 1869.

(37) A. S. M., Archivio Diplomatico, p. a., cart. 38.

(38) A. S. M., Pergamene di Pontida, monastero di S. Giacomo.

(39) BUSSERO, Liber Notitiae Sanctorum Mediolani.

(40) Dal Codice Liber consignationis prebendarum, Biblioteca Capitolare di Monza.

(41) Biblioteca Ambrosiana, Codice NI 15 inf., fol. 46 r.

(42) Ibidem, fol. 41 v.

(43) Ibidem, fol. 30 r.

(44) Ibidem, fol. 11 r.

(45) Ibidem, fol. 5 v. e 6 r.

(46) A. S. M., Bolle e Brevi, cart. 32; MIGNE, Patrologia Latina, 202, col. 1361; LUPO, Codex Diplomaticus civitatis et ecclesiae Bergomatis, 1784-1799, vol. II, 1360 e G. CORTINOVIS, op. cit., I, 232-235.

(47) FRISI, Memorie storiche di Monza e sua corte, Milano 1794, II, carta LXII, 63.

(48) FRISI, op. cit., II, carta L, 52-53.

(49) Biblioteca Ambrosiana, pergamena n. 4487.

(50) A. S. M., Archivio Diplomatico, P., cart. 6.

(51) A. FUMAGALLI, Codice Diplomatico Sant'Ambrosiano delle carte dell'ottavo e nono secolo, Milano 1805, 297 e in C. MARCORA, Cassago Brianza, Oggiono 1982, 51 e 96.

(52) I bizantini cercarono a più riprese di insediarsi stabilmente in Italia, ma dovettero combattere duramente prima i goti con le campagne di Belisario e Narsete e infine i longobardi, che ebbero in Lombardia il sopravvento definitivo nel 585.

(53) Teodorico con una battaglia sull'Isonzo nel 489 e sull'Adda nel 490 sbaragliò le difese di Odoacre, che si arrese a Ravenna nel 493. La presenza gota dopo alterne fortune si concluse nel 552 con la sconfitta delle residue forze ad opera del bizantino Narsete. Una presenza gota, forse postazione militare, è nota sul Monte Barro presso Lecco.

(54) PROCOPIO DI CESAREA, La guerra gotica, II, 25-25.

(55) I longobardi di Alboino mossero dalla Pannonia nel 568 e nel settembre del 569 avevano già occupato Milano. In seguito sottrassero alla giurisdizione bizantina gran parte dell'Italia.

(56) Carlo Magno invase il regno longobardo nel 774 e lo occupò rapidamente suddividendolo in marche che consegnò ai suoi funzionari. L'area monzese e le sue dipendenze brianzole divennero possesso regio.

(57) C. SALVIONI, Della villa dove avrebbe soggiornato S. Aurelio Agostino in Lombardia, Reale Accademia dei Lincei, seduta del 19 febbraio 1899, Estratto dei Rendiconti, Roma 1899, 3-11: « ... nell'ambiente dialettale lombardo Cassiciaco poteva dare luogo solo a Caçêsàg (-çi-) o Caçezàg. Toscanamente questa forma avrebbe risuonato Cassicciago-co, non a tenerne conto, s'intende, di Cassizzago o Cassisciago, che sarebbe le forme lombarde rintonacate alla toscana ... ».

(58) L. BERETTA, Rus Cassiciacum: bilancio e aggiornamento della vexata quaestio, in Agostino e la conversione cristiana, I, Palermo 1987, 74-75.

(59) AGOSTINO, Epistola a Nebridio 7, 3, 6: «cum sapor fragorum et cornorum, antequam in Italia gustaremus, nullo modo veniret in mentem». La presenza di boschi è attestata dal ritrovamento nei giacimenti archeologici di epoca tardo-romana di ossa di mammiferi selvatici quali cervidi, volpi e conigli a Costamasnaga in località Samarino (II-IV secolo d.C. in Notiziario 1982 della Soprintendenza archeologica di Lombardia, 51-53) e a Monte Barro (V-VI secolo, cfr. BROGIOLO-CASTELLETTI, Archeologia a Monte Barro, Il grande edificio e le torri, Lecco 1991). La tipologia di questi boschi non è del tutto nota, tuttavia studi recenti (R. DRESCHER SCHNEIDER, L'influsso umano sulla vegetazione neolitica nel territorio di Varese dedotto dai diagrammi pollinici, 1990) indicano nel castanetum il tipico bosco prealpino del III-IV secolo d. C. Le notizie riportate dagli scrittori romani concordano con i dati paleobotanici e confermano una diffusione estesa della coltura del castagno in età romana imperiale. Il castagno per quanto non sia ancora citato nel III secolo a. C. nel De Agricultura di Catone, già appare in alcuni accenni di Varrone nel I secolo a. C. relativamente all'alimentazione degli animali. Le prime notizie certe di uso del castagno per alimentazione umana sono note dalle Ecloghe di Virgilio (I, 81 e II, 52) e successivamente da Palladio, Columella e Plinio.

(60) Diploma di Federico Barbarossa del 1162 che conferma i possessi monzesi.

(61) A. S. M., Arch. Diplomatico, P., cart. 6, atto del 19 gennaio 1117.

(62) AGOSTINO, De Ordine 2, 5, 15.

(63) AGOSTINO, De Beata Vita 1, 4, 23.

(64) AGOSTINO, De Ordine 2, 1, 1.

(65) AGOSTINO, De Beata Vita 1, 4, 23; C. Acad. 2, 4, 10 e 2, 11, 25.

(66) VARRONE, R. R., I, 28.

(67) POSSIDIO, Vita Augustini, 1, 2-3.

(68) AGOSTINO, De Quantitatae Animae 31, 62: «cum enim nuper in agro essemus Liguriae, nostri illi adu-lescentes qui tunc mecum erant studiorum suorum gratia».

(69) POLONIUS SILVIUS, Laterculus, Mon. Germ. hist., Auctor. Antiquiss. IX, Chron. min. I, 386; PROCOPIO DI CESAREA, La guerra gotica, I, 12 e 15; II, 7, 12, 25 e 28; P. DIACONO, Historia Langobardorum, II, 15, 23 e 25: « ... secunda provincia Liguria extenditur ... ».

(70) BOCCACCIO, Lettera IX a Petrarca del 13 luglio 1353 da Ravenna. La celebre Lombard Street della City di Londra deve il suo nome ai prestatori finanziari «lombardi» fra cui primeggiavano anche senesi e fiorentini, dato che nel Medioevo per Lombardi si intendevano anche i toscani, cfr. P. TORRITI, Tutta Siena contrada per contrada, Firenze 1992, 14.

(71) Carmen Licentii Ad Augustinum praeceptorem, CSEL 89-95.

(72) Licentii Carmen, CSEL 91: « ... O mihi transactos revocet si pristina soles / Laetificis aurora rotis, quos libera tecum / Otia tentantes, et candida iura bonorum / Duximus Italiae medio, montesque per altos ! ... ».

(73) VIRGILIO, Aeneis VIII, 560.

(74) AGOSTINO, C. Acad. 2, 4, 10 e 3, 4, 7.

(75) AGOSTINO, Lettera 26, 4.

(76) Cfr. la descrizione del panorama visibile da questa città in Petrarca: « ... la casa è assai salubre ... dietro guarda le mura della città, un vasto tratto di campi verdeggianti e le Alpi che appena trascorsa l'estate biancheggiano di neve ... », F. PETRARCA, Familiares XVI, 11 al Nelli.

(77) AGOSTINO, Contra Acad. 1, 2, 5: « ... cum enim iter mihi in urbem sis constitutum ... » e 1, 3, 8 « ... usque ad reditum meum ... et cum discessit ... ».

(78) C. Acad. 1, 4, 10: « ... postea cum iam advespesceret ... ».

(79) AGOSTINO, C. Acad. 2, 4, 5: « ... in eo pene totum antemeridianum tempus consumptum videremus ... ».

(80) AGOSTINO, Conf. 9, 6, 14.

(81) VEGEZIO, De re militari 1, 2 ed. Lang. Flavi Vegeti Renati Epitoma Rei Militaris, Stutgardiae 1885 (rist. 1967) e PACATUS, Paneg. Theod. Aug. dict. 39, 2.

(82) CORPUS IURIS CIVILIS, 1, Digesta 2, 1, 11 ed. Mommsen- Krüger, Berlino 1954, 52 e PROCOPIO DI CESAREA, La Guerra Gotica, VI, 21, 2.

(83) La distanza fra Milano e Cassago è di 33 Km. mentre Casciago dista dal capoluogo lombardo circa 60 Km.

 

 

Note del capitolo "Le scoperte dell'archeologia"

 

(1) A. PALESTRA, Strade romane nella Lombardia ambrosiana, Milano 1984, 12 e E. ARSLAN, Lombardia, Roma 1982, 124-125. Altre strade procedevano in direzione di Aosta, Pavia, Lodi, Cremona, Brescia e Bergamo.

(2) Nelle adiacenze della cascina S. Andrea è stata evidenziata una cisterna romana del I-II secolo d. C. e sono stati raccolti numerosi frammenti di materiale ceramico che vanno dal I al V secolo d. C. assieme a ornamenti vari fra cui uno spillone in osso a testa femminile del V-VI secolo d. C. Interessante si è rivelato un ripostiglio di monete del II-III sec. d. C. scoperto nella stessa località, che ha restituito centinaia di monete di età imperiale.

(3) In località Realdino si trova un sarcofago riutilizzato come vasca per fontana, la cui fronte è curiosamente decorata con due pseudoedicole ad arco ribassato di rozza fattura.

(4) E. VALTORTA, Agliate Romana, in I Quaderni della Brianza n. 31, 1983, 42.

(5) Un'ara recentemente recuperata nel 1990 (Notiziario 1990 della Soprintendenza Archeologica di Lom-bardia, 203) riporta l'iscrizione "IOVI OM CO..I VITAKIO PRO SALV.. TE DOMINORUM SUORUM ES VA.. AT FAMILIAE SKC.. V.S.L.M.". Altre lapidi scoperte nelle adiacenze ricordano Silvano: "SILVANO V.L.S.M." e un aruspice: "DMT VERACILIANUS ARUSPEX DMS QUA CXXXV SC IPSE SERVI VO. FECIT MI MARCELLINA".

(6) Le scritte riportano: "PRO SAL(ute) D(omini) N(ostri) CLA(udi) IVL(iani) PER(petui) SEM(per) AVG(usti) II" e "D(omino) N(ostro) CL(audio) IVLIANO PIO AC FELICI SEMPER AVG(usto) B(ono) R(ei) P(ublicae) N(oto) II", cfr. FORCELLA, Le industrie e il commercio sotto i Romani, 10 e MOMMSEN, C.I.L., V, pars II 949.

(7) L'incisione riporta: "D(omini) N(ostri) MAG(ni) MAXIMI ET FLAVII VICTORIS SEMPER AVG(usti) B(ono) R(ei) P(ublicae) N(ati)". L'eco di questa antica strada romana sembra sopravvivere nel toponimo medioevale miliario citato in documenti di Giussano, Arosio e Carugo. Nel 1155 viene ricordato un campus dicitur in miliario .. in loco et fundo Aroxio, cfr. A. MARTEGANI, Gli Umiliati di Mariano e i Visconti, in Arch. Stor. Lomb., XCV; nel 1364 si cita ad cassinam de Miliario territorio loci de Gluxiano, cfr. A. MARTEGANI, Note sulla via Mediolanum-Como, in Arch. Stor. Lomb., XCVIII-C, 383-387; ed infine nel 1468 un certo Antonello de Solbiate filius quondam Jemoli habitante nel luoco di Carugo acquistò 16 pertiche in località Milliario di Carugo, cfr. A. MOSCONI, I francescani e la Madonna delle Grazie a Monza, Brescia 1972, 18.

(8) C.I.L. V, 5072: "IOVI O(ptimo) M(aximo) PRO SALUTE ET VICTORIA L(uci) VERGINI RUFI PYLA-DES SALTUAR V(otum) S(olvit)". La lapide fu scoperta nel 1870 presso un pozzo a Valle Guidino, cfr. A. CAIMI, Iscrizioni trovate nella Valtellina e in Brianza, in Archivio Storico Lombardo, II, 2 (1875), 110.

(9) PUBLIO CORNELIO TACITO, Historiae, 1, 8 e 2, 51.

(10) La scoperta avvenne nel 1897 (cfr. Rivista Archeologica Comense 1930, fasc. 99-100-101, 69-80) e riportò alla luce in località Taverna un edificio rettangolare che conteneva tre avelli con ossa, materiale in vetro e ceramica. Altre tombe del IV secolo d.C. furono trovate a Camisasca, cfr. G. RIVA, Tabiago e Nibionno, Oggiono 1981, 30-31).

(11) Presso la romanica chiesa di S. Stefano fu rinvenuta una lapide: "D(iis) M(anibus) VARIA Q(uinti) F(ilia) SEVERA V(otum) S(olvit) L(ibens) M(erito)".

(12) Cfr. V. RIVA, Le origini della Brianza, Merate 1987. L'intreccio delle strade che doveva solcare la Brianza è variamente documentato nei toponimi medioevali. Ad esempio a Lomagna esisteva la località in Miliario citata in un documento del 1243 (Arch. Civ. Milano, pergamena A/3). A Tremonte invece è tuttora visibile un ponte romano detto bordea. Cfr. anche A. MARTEGANI, Miliari, strade romane e castelli in Brianza, RAC (1989), 317-326. Per il ponte di Olginate cfr. E . ARSLAN, Lombardia, Roma 1986, 132.

(13) C. MARCORA, Costa Masnaga, Milano 1971, 19-20 e cfr. anche Notiziario 1982, Soprintendenza Archeologica, 51-53.

(14) M. BERTOLONE, Lombardia Romana, II, Milano, 1939, 32-33.

(15) M. BERTOLONE, op. cit., 172.

(16) M. BERTOLONE, op. cit., 64.

(17) A. S. L., XVIII, 1981, 16.

(18) M. BERTOLONE, op. cit., 69.

(19) M. BERTOLONE, op. cit., 42 e 65.

(20) A. GAROVAGLIO, Sepolcreto di Bigoncio presso Villa Romanò, in Arch. Stor. Lomb. 1886, 451-455.

(21) N. SANVITO, I Paesi di Inverigo, Giussano 1989, 31.

(22) BAGATTI-FILOMARINO-SÜSS, Ville della Brianza, I, Milano 1981, 360.

(23) C. PLINIUS SECUNDUS, Ep. 2, 1, 8 a Rufo: ".. utrique eadem regio, municipia finitima, agri etiam possessionesque coniunctae..". Rufo aveva un altro saltus nel Lazio presso Alsium, dove fu sepolto.

(24) Si tratta di due are provenienti dalla chiesa di S. Salvatore. La prima (C.I.L. V, 5660) riporta "V(otum) S(olvit) L(ibens) M(erito) IOVI ALTO SUMMANO FELICIANUS PR(i)MUS CUM SUIS D(onum) D(edit) D(edicavit)". La seconda (C.I.L. V, 5661) d'un lato reca "NOVELIA(nus) PADDARUS I(ovi) O(ptimo) M(aximo) V(otum) S(olvit) L(ibens) PRE SE REM DOMUM F(ecit) CUM DIS DEABUSQ(ue) D(onum) D(edit) D(edicavit)" e dall'altra parte "I(ovi) O(ptimo) M(aximo) NOVELLIA(nus) PANDARUS PRO SE ET SUIS OMNIBUS ARA DEO DONUM P(osuit)". L'ara è databile al III secolo d.C.

(25) L'ara si trovava alla base del campanile di S. Pietro e riporta: "IOVI IMPETRABILI M. BROCCHIUS PURUS V(otum) S(olvit) L(ibens) M(erito)". Risale al I-II secolo d.C. Il cognomen Brocchius ha un evidente etimo celtico, cfr. A. HOLDER, Alt-celtischer Sprachschatz, I, Leipzig, voce Brocchius, col. 617.

(26) C.I.L. V, 5702, 5703, 5703a, 8917.

(27) E. VALTORTA, op. cit. 39-44.

(28) G. BESANA, Problemi di epigrafia latina in Brianza: Valle Guidino, Cassago, Barzanò, in I Quaderni della Brianza 63, 1989, 112-113.

(29) C. I. L., V, 3256. Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, II, 53 ricorda questa divinità: "I trattati etruschi sono del parere che la folgore possa essere scagliata da nove divinità, e che ne esistano undici tipi, Giove infatti ne scaglia di tre specie. I Romani ne hanno conservati solo due: i fulmini divini, attribuiti a Giove, e quelli notturni, propri di Summano. Questi ultimi certo sono più rari per la ragione già esposta, cioè per la maggior freddezza del cielo". Associato, anche come appellativo, a Giove, Summano passò dall'Etruria a Roma, dove aveva un suo tempio nelle vicinanze del Circo Massimo.

(30) AGOSTINO, De Civitate Dei 4, 23.

(31) L. BIRAGHI, op. cit., 51.

(32) Postilla di Vincenzo Confalonieri del gennaio 1930 a una nota di don Rinaldo Beretta, in Arch. Storico Associazione S. Agostino, Cassago.

(33) G. BESANA, op. cit., 112-113.

(34) C.I.L. V, 5662.

(35) L. BIRAGHI, op. cit., 49.

(36) O.V.M.F. manca negli elenchi delle abbreviazioni latine. Cfr. I. CALABI LIMENTANI, Epigrafia Latina, Milano 1973; G. C. SUSINI, Epigrafia Romana, Roma 1972; CAGNAT, Cours d'épigraphie latine, Parigi 1914; A. CALDERINI, Epigrafia, Torino 1974.

(37) In C. I. L., V, 2, 5662 riportò MARRILLA ROMINI F. O. V. M. F. indicando inoltre erroneamente che "cum ecclesia antiqua diruta est et absumpta in turri campanaria facienda".

(38) C. REDAELLI, Notizie Storiche della Brianza, Milano 1826, fasc. 3, 158-159: " MARILLA R(ecepto) OMINI F(austo) O(pi) V(otum) M(erito) S(olvit)".

(39) L. BIRAGHI, op. cit., riporta : "MARILLA R(ecepto) OMINI F(ortunato) O(ptimo) V(iro) M(onumentum) F(aciebat)".

(40) C. SANGALLI, Distinta Relazione della demolizione della Chiesa Vecchia e Casa Parrocchiale e Costru-zione della Nova con li fatti più rimarchevoli, manoscritto del 1759 conservato nell'Archivio Parrocchiale di Cassago: " nelle rovine di detta chiesa si è trovato le infrascritte iscrizioni sopra una lapide di sasso ciericcio di figura semicircolare di lunghezza di Braccia 3 circa. MARILLA R(ecepto) OMINI F(austo) O(raculo) V(eneris) M(onumentum) F(aciebat)."

(41) A. BORGHI, Il territorio di Lecco prima dei Romani, 1976, 21-23.

(42) Una succinta relazione del Magni ci ragguaglia circa un ritrovamento a Barzanò, poco distante da Zizzanorre, relativo alla cultura del Golasecca III A (V-IV secolo a. C.). Nel marzo del 1905 nei pressi della stazione ferroviaria, durante i lavori di costruzione di un piccolo edificio nel terreno del signor Mannati fu riportata alla luce una tomba disposta a una profondità di circa 1 metro. Tale tomba era a forma quadrata, foderata e coperta da rozze lastre di pietra e conteneva una situla di bronzo con due manici. I lavoranti mandarono in frantumi la situla; i frammenti furono raccolti dal signor Gallo Galli, che raccolse altre scarse notizie senza peraltro riuscire a sapere se la situla contenesse altri oggetti e di che tipo, cfr. A. MAGNI, in RAC 1906, 184. I resti della situla, che sono conservati al Civico Museo di Lecco, appartengono al tipo renano-ticinese. Cfr. S. CASINI, Materiali del Golasecca III-A dal territorio comasco, in RAC 1983, 124-125.

(43) PLINIO, Naturalis Historia, 14, 14.

(44) P. FRONTINI, La ceramica a vernice nera nei contesti tombali della Lombardia, Como 1985, 22 e FIORENTINI, Prime osservazioni sulla ceramica campana della valle del Po, in Rivista di Studi Liguri, 29 (1963), 7-52.

(45) L. BERETTA, S. Agostino e Cassiciaco, Oggiono 1991, 40. La ceramica a vernice nera conobbe l'ultima fase produttiva verso la fine del I sec. a.C. e l'inizio del successivo e rappresenta sicuramente uno dei migliori indicatori del processo di romanizzazione in Lombardia. In questo periodo tuttavia alla produzione originaria di importazione andò sostituendosi una produzione locale, che però non raggiunse il livello qualitativo originale, sia per il tipo di argilla impiegata che per la tecnica di verniciatura. La decorazione locale padana oltre a riprodurre i cerchi concentrici tipici dell'età di La Tène, introdusse in epoca augustea, alla quale sembra appartenere la patera in questione, palmette impresse e variamente stilizzate.

(46) R. CAGNAT, Cours d'épigraphie latine, Parigi 1914, 14.

(47) Cfr. BERTOLONE, Edizione archeologica della carta d'Italia al 100.000, 32, Firenze 1954 e M. REALI, Le iscrizioni latine del territorio comense settentrionale, 247 e 294, in RAC, 1989.

(48) Cfr. THOMPSON e M., Paleografia greca e latina, Milano 1911, 78-80 e C.I.L. IV, Inscriptiones parietariae Pompeianae Herculenses Stabianae, C. Zangemeister, Berolini apud Georgium Reinerum MDCCCLXXI.

(49) M. MALBERTI, La necropoli della «Monzina» e lo scarico di fornace di Brugora nel territorio Milanese, in I Quaderni della Brianza, n. 73, 5-96.

(50) V. RIVA, Le origini della Brianza, Merate 1987, 32.

(51) M. BERTOLONE, Di alcune fornaci romane di laterizi scoperte recentemente in Lombardia, in Munera, raccolta di scritti in onore di A. Giussani, Milano 1944, 142-143.

(52) A. S. M., Pergamene del Fondo di Religione, S. Giovanni di Monza, cass. 590.

(53) Archivio Topografico Soprintendenza, anni 1966-67.

(54) Il limes era costituito da un cumulo di pietre o da un cippo o altro, atto a indicare e individuare la singola proprietà e rappresentava il dio Termine, cfr. F. RAMORINO, Mitologia Classica, Milano 1961, 233. Limes definisce la centuriazione del terreno o pone dei limites all'incrocio di strade poderali o di traffico. Così venivano ad essere segnati i confini di proprietà: terminus possessionum. Al dio Termine erano dedicati festeggiamenti il 23 febbraio: i Terminalia. Era una divinità pagana e sacre erano le pietre o i simboli che segnavano i confini fra i poderi.

(55) C. I. L. V, 5225, ara in marmo ora conservata nelle Civiche Raccolte Archeologiche di Milano, che riporta "IOVI O(ptimo) M(aximo) P(ublius) CAESIUS ARCHIGENES V(otum) S(olvit) L(ibens) M(erito)". Cfr. E. SELETTI, Marmi scritti del Museo Archeologico, Milano 1901, 15 n. 11; A. DE MARCHI, Le antiche epigrafi di Milano, Milano 1917, 7 n. 6; M. MASCETTI, Note sulle epigrafi latine del Lario e delle sue valli, in Communitas, 1-2 (1977), 142 e C. I. L. V, 5226, ara in marmo, che riporta "MATRONIS P(ublius) CAESIUS ARCHIGENES V(otum) S(olvit) L(ibens) M(erito)".

(56) C. I. L. V, 5647, monumento epigrafico ormai irreperibile proveniente dalla chiesa di S. Eufemia a Erba, di cui è noto il testo "I(ovi) O(ptimo) M(aximo) CAESIA P(ubli) F(ilia) MAXIMA SACERDOS DIVAE MATIDIAE". Cfr. postille a copia di A. ALCIATI, Antiquae inscriptiones veteraque monumenta patriae del XVII secolo.

(57) 29 luglio 1206. Inventario dei possedimenti della Chiesa di S. Giovanni di Monza nel territorio di Zizzanorre. Archivio di Stato di Milano, Pergamene, Fondo di Religione, S. Giovanni di Monza, cass. 590.

(58) C. I. L. V, 5287, 8960 da Como e C. I. L. V, 5447 da Clivio.

(59) Cfr. A. HOLDER, Alt-celtischer Sprachschatz, I, Leipzig 1896-1908, coll. 835-836; M. G. TIBILETTI BRUNO, Onomastica di area comasca, in Studi in onore di Ferrante Rittatore Wonwiller, II, Como, 533; C. I. L. V, 5300 da Como e C. I. L. V, 5218 da Lasnigo.

(60) C. I. L. V, 8898 da Ossuccio.

(61) C. I. L. V, 5238 da Tremezzo.

(62) C. I. L. V, 5703.

(63) Cfr. G. SENA CHIESA, I Romani ad Angera: nuove scoperte in un antico centro del Verbano, 24, in Cà de Sass n. 124, 1994 e F. BASSANI, Merate in Brianza, Merate 1986. Le numerose dediche alle Matrone, per il cui culto in Cisalpina si veda C. B. PASCAL, The Cults of Cisalpine Gaul, Berchem-Bruxelles, 1964, 116-123 e il fondamentale studio di F. LANDUCCI GATTINONI, Un culto celtico nella Gallia Cisalpina, Milano 1986, furono censite per l'ager comensis da G. LURASCHI, Aspetti di vita pubblica nella Como dei Plinii, in Plinio e i suoi luoghi, il suo tempo, Como 1984, 102- 103.

(64) Cfr. MURATORI, Thesaurus Veterum Inscriptionum.

(65) FEDERICO BORROMEO, De Christianae mentis Jucunditate, Mediolani 1632, 87.

(66) L'aspetto a mandorla della fontana invita ad una suggestiva ipotesi: la fontana stessa potrebbe essere parte dell'abside della vecchia chiesa di S. Maria scomparsa nel '400. Questa chiesa di cui non si conosce l'ubicazione medioevale possedeva vasti appezzamenti terrieri che le erano stati probabilmente conferiti da qualche nobile, che attinse al suo patrimonio personale. L'antichità del titolo lascia presagire una fondazione altomedioevale e non è da escludere che sia nata sui resti di qualche edificio preesistente di epoca romana. Se questa ipotesi fosse vera, troverebbe giustificazione la tradizionale devozione religiosa associata al luogo.

(67) Rilevazioni fatte dal radioestesista Labrotti: "In ogni angolo che si senta, ci sono dei pezzi di vecchie residenze seppellite. Come si fa. Bisognerebbe cercare solo una cosa precisa. Ma cercare di questi vecchi frammenti è tutto un disseminato sepolto con decine di metri di pietrame e terra. A quel tempo! I bagni erano vicini alla fontana. Ma l'acqua la prendevano da un torrente che ora non trovo. Era un fiume un po' sotto del Gambaione ed aveva un altro nome perchè formato da diverse sorgenti."