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Francesco Petrarca: De secreto conflictu curarum mearum

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Francesco Petrarca

 

 

 

De secreto conflictu curarum mearum

di Francesco Petrarca

 

 

 

PREFAZIONE

 

Mentre, uscito quasi da' sensi, io me ne stava pensando, ciò che assai di sovente m'accade, al modo onde fossi entrato nella vita e al come sarei per uscirne, m'apparve, non è gran tempo, una visione. E non sognava io già, come avviene agli animi afflitti, ma si era desto da veglia affannosa; quando vidi una donna, bella d'ineffabile luce e chiarezza, e di forme che mal si potrebbero da mente umana immaginare: né so di che parte a me scendesse, bensì vergine me la dicevano il volto e la persona. Meravigliato all'insolito lume, chinai lo sguardo di contro ai raggi che mi dardeggiava il sole degli occhi suoi. Ma ella così prese a parlarmi: « Perché temi e ti turbi al mio insolito aspetto? Mossa a pietà de' tuoi errori, venni di lontano a recarti aiuto, finche n'è tempo. Troppo e molto più che non era mestieri curvasti a terra gli sguardi annebbiati. Che se le terrene cose tanto t'allettano, che sarà mai ove tu rivolga il cuore alle eterne? » All'udir queste parole, avvenga che in me non fosse quieto ancor lo sgomento, con tremante voce le risposi quei versi di Virgilio:

 

Vergine, e qual mai nome a te dar posso?

Che mortali non son le tue sembianze,

Né come l'uomo la voce tua risuona.

Virg. Aen. I., 327-328

 

«Io sono, soggiunse, colei a cui tu, non altrimenti che il dirceo Anfione, innalzasti nell'estremo occidente e a sommo l'Atlante, là nell'Africa nostra, una splendida e sontuosa abitazione, elegante e meraviglioso lavoro del tuo poetico ingegno. Orsù dunque ascoltami di buon animo, né ti metta paura la presenza di chi, venuta con te a dimestichezza da lunga stagione, hai dipinto con maestri colori. » Aveva finito appena di favellare che io, nel riandare il passato, pensai che non altri potesse esser costei se non la Verità, il cui palazzo ben ricordò d'aver collocato sulle atlantiche vette; pur non poteva appormi di qual luogo fosse venuta, eccetto che dal cielo. Or mentre io rialzava gli occhi bramosi di riguardarla in faccia, le raggiò dalla fronte tal lume che mi bisognò atterrarli una seconda fiata: di che fattasi accorta e non frapposto che un breve silenzio, ragionando assai caldamente e trascorrendo d'una in altra domanda, si diede a stringermi con sì minute richieste che fui costretto ad aprirmi con lei di più cose. Quindi due beni me ne derivarono: che ed io feci tesoro di nuova scienza, e, dallo stesso conversare con lei rinfrancato alquanto, giunsi a poterne affisare il sembiante, che in sulle prime m'aveva sì abbarbagliato. Or mentre cominciava a prender dalle sue parole una meravigliosa dolcezza e sosteneva già il lume delle sue pupille, volendo accertarmi donde foss'ella penetrata nella solinga mia cella, me le venne veduto dappresso un uomo per età e forme assai venerando.

Ne ebbi mestieri a richieder chi fosse; che il religioso volto, la modesta fronte, gli occhi composti, il misurato passo, le sacre vesti e la romana facondia mi dicevano abbastanza ch'io m'aveva dinanzi il glorioso padre Agostino. Soavissimo n'era l'aspetto, ma ne spirava un non so che di maestoso oltre l'umano da togliermi affatto l'animo di favellargli. Non però me ne sarei rimasto a lungo in silenzio; che anzi, pensata la domanda, correa la lingua ad interrogarlo, allorché di bocca la Verità me ne venne udito il dolcissimo nome. La quale col rivolgersi a lui, rompendo a mezzo il corso del profondo suo meditare, gli disse: « O a me caro fra mille Agostino, tu conosci costui che ti venera tanto, e sai che la pericolosa e lunga malattia da cui fu preso l'ha quasi condotto vicino a morte; e sebbene infermo, pure ignora in che terribile condizione si trovi: perciò uopo è provvedere alla vita di lui, già presso a mancare. Or chi può fornire più acconciamente di te quest'opera pietosa? e tanto più volentieri il farai ch'egli ti portò sempre singolare affetto e reverenza. E questo ha di proprio il sapere, che molto più agevole ne sia l'apprendimento ove se n'ami il maestro. Che se la presente felicità non ti toglie la memoria delle sofferte miserie, ricorderai siccome, quando eri rinchiuso nel carcere terreno, fossi tu travagliato da infermità alle costui somiglianti.

E sebbene il meditare sui propri mali torni ad ottima medicina, io ti prego, o egregio curatore che fosti delle passioni che ti diedero guerra, che, rompendo colla tua santa e cara voce un siffatto silenzio, voglia rinforzare, se puoi, del tuo aiuto la costui mortale languidezza. » Ed egli così le rispose: « E sarà dunque che io in tua presenza m'attenti a favellare? tu a me consigliera consolatrice, signora, maestra. La tua voce d'uomo, soggiunse la Verità, risuonerà più grata al mortale suo orecchio; onde la ascolterà più di buon grado: poi, dacché io mi rimarrò presente a' vostri colloqui, stimerà proferito dalle mie labbra ciò che tu gli verrai dicendo.» Ed egli, com'ebbe detto che ubbidirebbe, sì per l'autorevole comando di lei, sì per pietà del mio misero stato, volgendosi a me con affettuoso sguardo, paternamente mi abbracciò.

Allora la Verità, fattasi guida a' nostri passi, ne trasse in luogo alquanto più appartato; ove postici tutti e tre a sedere, ella, rimosso ogni testimonio, tacendo portava sentenza dei nostri discorsi, i quali d'un argomento nell'altro si protrassero sino al terzo giorno. E quantunque pigliassimo tema al ragionare dai costumi del secolo presente e dalle colpe comuni a tutti i mortali, a tal che le parole che si proferivano paressero piuttosto un rimprovero rivolto al genere umano che a me in particolare, tuttavia ciò che a me toccava più da vicino, altamente mi rimase scolpito nella memoria.

Acciocché pertanto, collo scorrere degli anni, io non ne smarrisca la ricordanza, penso di affidare allo scritto quanto fu in quelle ore discorso: nel che fare, non intendo io già di aggiungere questa alle altre opere mie perché me ne torni gloria, di cui più non mi cale adesso che ad altre cose ho rivolto la mira, ma sì a richiamarmi la dolcezza di quei colloqui, ove m'avvenga di rileggere coteste pagine.

Perciò tu, o mio libretto, involandoti all'umano consorzio, te ne rimarrai contento alla compagnia di me solo, non immemore del proprio nome; che verrai detto, e tal sei di fatto, il mio secreto; ed in te, quando l'animo occupato sarà rivolto a più dure fatiche, verrò a cercare quello che certamente fu tra noi favellato. Acciocchè poi, come insegna Tullio, la narrazione non sia di frequente interrotta col disse e rispose, e sembri che il discorso abbia avuto luogo fra persone presenti, le mie parole e quelle dell'egregio interlocutore non con altra distinzione segnai che dei propri nomi. La qual maniera di scrivere appresi dal mio Cicerone, ed egli da Platone. E, a non allargarmi più oltre, ecco di qual guisa Agostino pose cominciamento al nostro conversare.