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Francesco Petrarca: De secreto conflictu curarum mearum

immagine a fresco di Francesco Petrarca del 1376 ad opera di Altichiero a Padova

Francesco Petrarca

affresco di Altichiero a Padova (1376)

 

 

 

De secreto conflictu curarum mearum

di Francesco Petrarca

 

 

 

INCIPIT LIBER SECUNDUS

 

DIALOGO SECONDO

 

Agostino

Ti pare che abbiam riposato abbastanza?

Francesco

Così mi pare.

Agostino

Ed ora di quali speranze alimenti l'animo tuo? Dalla docilità con cui porgevi assenso a' miei detti io traggo buon argomento a conchiudere che di malato come fosti finora, t'incammini a guarigione.

Francesco

Io non so che ripromettermi di me stesso. Dio solo è la mia speranza.

Agostino

Egregiamente. Ma torniamo al proposito. Molti sono i pericoli che ti circondano, molte le voci che all'orecchio ti romoreggiano, e tu stesso ignori quali e quanto fieri nemici t'abbiano posto attorno l'assedio. Pertanto, ove io ti metta innanzi tutti i pericoli che d'ogni dove ti premono e si affaticano a trarti in perdizione, t'avverrà siccome a coloro che, allo scorgere di lontano un esercito, dapprima fanno conto che il rischio sia leggiero; ma come le schiere di mano in mano appressando s'ingrossano, a tal che gli occhi abbarbagliati non più sostengono il vivo lampo dell'armi, a cento doppi il terrore s'accresce e con esso il pentimento di non essersi posti a quella buona guardia cui ragion domandava. Ove poi, da una parte, ti vergognassi che il timore e il dolore avessero così poca forza nell'animo tuo, non avrai, dall'altra a maravigliare gran fatto, se, circondato come eri da tanti nemici, non ne giungessi a sfondare le spesse file. E ti sarà nel tempo stesso palese da quante varie guise di altri pensieri fosse combattuto quell'uno cui m'adopero a render padrone della tua mente.

Francesco

Agghiaccio di spavento. Perché, se grave stimai sempre il mio pericolo, e tu così adesso me lo dipingi gravissimo che, rispetto al debito, io non l'abbia quasi temuto per nulla, ora, dimmi, quale speranza mi rimane.

Agostino

Somma delle sciagure è la disperazione; in braccio alla quale, per forti cagioni che uno abbia, fa pazza cosa a gettarsi. Onde sta' bene sull'avviso.

Francesco

A questo son riuscito sin qui, ma adesso io spavento m'ha tolto la mente.

Agostino

Adunque rivolgi in me gli occhi e il pensiero, e, a valermi delle parole d'un tuo prediletto scrittore, dirotti:

Quanti popoli, oh! mira a tua mina

Congiurati levarsi, e quante terre

Entro le chiuse mura aguzzar l'armi,

Che di te, che de' tuoi cercano i petti.

Bada ai lacci che ti tende il mondo, a tanti vani fantasmi che ti si aggirano attorno, a tante futili cure che ti fan guerra. E per cominciare da alto; ti è noto siccome quegli spiriti nobilissimi tra tutte le creature precipitarono dal cielo: il loro esempio, ove non vogli cadere com'essi, ti giovi a norma. E tu pure per quante cose non ti sollevi sopra le ali d'una malnata superbia? E sotto pretesto che ciò s'addica alla tua dignità d'uomo, per conseguire l'ambizioso intento, dimentichi la tua naturale fralezza; e t'affatichi, t'agiti, t'immergi fra tante cure che poi ti stringono, ti rapiscono tutto a sè nè ti lasciano pensare ad altro. E così, confidato nelle sole tue forze, per difficoltà grandi che rechi in sè alcuna cosa, stimi che un tuo pari non debba ritrarsene; e tanto ti compiaci se vi riesci, da incorrere nello sdegno del tuo Creatore. E sì che la buona riuscita, in cambio d'esaltarti, dovrebbe renderti umile nel pensiero che ciò t'avvenne non pe' meriti tuoi. E v'ha egli cosa la quale, non che all'etereo, ma ad un temporal signore concilii la riverenza de' soggetti quanto una spontanea liberalità che li ricolmi di doni? ed essi, se grati sono, alla larghezza di lui, che doveano prevenire, si studiano di corrispondere appresso. Ed ora ti farò a tutta evidenza comprendere quanto scioccamente tu insuperbisca, sia per l'ingegno che per la lettura di molti libri, sia per l'eloquenza che per la bellezza d'un corpo che di corto morrà. Ed in quanto al primo, ben avrai da te fatto prova come l'ingegno in molte cose ti abbandoni, e quante guise di arti v'abbia in cui non t'è dato agguagliare la capacità de' più meschini fra gli uomini; che vi sono anzi ignobili animaluzzi, autori d'opere tali che tu, per quanto studiassi, non giungeresti mai ad imitare. Or va e gloriati dell'ingegno. Che se mi parli del leggere, vorrei sapere a che ti giovasse; perché del molto che hai letto, quanto è che ti sia rimasto scolpito nell'animo, che v'abbia messo radice e germogliato a suo tempo? Ponti una mano al petto, e vedrai che l'imparato sinora, ove si paragoni al molto che ignori, sta in quella proporzione che l'oceano ad un rivoletto cui seccherà l'ardore del sole. E poi che tratta la molta scienza, poco vi rileva conoscere il giro del cielo e della terra, l'ampiezza, del mare, il moto degli astri, la virtù dell'erbe e delle pietre, e i segreti della natura, quando restiate ignoti a voi stessi; nè vi gioverà l'aver appreso dai libri il retto e difficil sentiero della virtù, se il vizio vi trascini pei tortuosi suoi calli, e gli esempi degli uomini illustri non vi conducano ad operare secondo ragione. Vana è altresì l'eloquenza, quando, come confessi tu stesso, sovente ti venne meno al maggior uopo. Nè vale che gli uditori applaudiscano a ciò che l'intimo sentimento ti dice non buono; perché quantunque si deggia far conto dell'approvazione di chi ascolta, pure a che montano gli evviva strepitosi del volgo quando l'oratore sappia di non meritarli? E potrà egli piacere altrui quando prima a sè stesso non piaccia? E dappoichè non una sola volta t'accadde che la sperata lode dell'eloquenza ti sfuggisse di mano, ti è agevole argomentare per che meschina gloria ti gonfiassi tanto. E può darsi maggiore puerilità, anzi stoltezza, quanto sprecare il tempo dietro inutili ciance frattantochè si trascura e lascia da parte quello che maggiormente importa? Così, intenti a dilettarci in oziosi discorsi, chiudiamo gli occhi sui proprii difetti, a sembianza degli usignuoli, i quali, come dicono, presi alla dolcezza di loro, voce, cantano sino a scoppiarne. Che se anche negli usi più giornalieri e volgari della vita avesti sovente cagione d'arrossire, perché, mentre stimavi che fossero indegni del tuo discorso, pure non riuscisti a farne menzione debitamente a parole, quante altre cose vi ha nella natura che mancano sino delle voci proprie con che essere denominate. E pognamo che queste voci, a distinguerle le une dalle altre, sussistano; non però l'umana eloquenza giungerà mai a tutto esprimerne il valore: del che ben sarai persuaso senza bisogno ch'io ricorra ad altre prove. Quante fiate non udii te stesso menarne lagno? quante non ti vidi silenzioso e sdegnato, perché nè la penna nè la lingua valessero ad esporre i concetti più chiari ed agevoli? Si chiama adunque eloquenza cotesta che non arriva ad abbracciare qualsivoglia cosa e che, se pure l'abbracci, non ha però potenza di stringerla? Voi rimproverate ai Greci la povertà dei vocaboli, ed essi a voi. E mentre Seneca, a paragone de' Latini, li chiama molto più ricchi, Tullio in principio dell'opera De finibus, «Io, dice, non posso comprendere perché tanto si fastidiscano le domestiche ricchezze. E sebbene non sia questo il luogo di farne discorso, non posso tenermi dal riconfermare ciò che dimostrai altrove, che la latina lingua non solo non è povera, come stimano, ma sì più doviziosa della greca». Ed egli stesso, anche in altri suoi scritti, come nelle Tusculane, esclamò: «O Grecia, sei ben povera di parole, quantunque tu te ne stimi largamente fornita». Tanto e sì fermamente asserì colui che, sapendosi principe della romana eloquenza, udiva fin d'allora guerreggiarsi per la preferenza dell'una tra le due lingue. E Seneca stesso, quell'ammiratore dei Greci, lasciò scritto nelle sue Declamazioni: «Il meglio di che possa vantarsi la romana facondia, e quanto v'ebbe in lei che superasse la Grecia superba, tutto fiorì ai tempi di Cicerone.» Gran lode è questa e senza dubbio verissima. Si contende adunque, siccome vedi, in tale argomento, non solo fra i Greci e voi, ma sì ancora, e con calore sommo, tra non pochi de' nostri dotti medesimi; e di questi alcuni stanno per loro, mentre taluno degli stessi Greci milita a favor nostro, com'è, secondo che dicono, l'illustre filosofo Plutarco. Ma in quanto a Seneca, se, vinto alla maestà d'un tanto eloquio, non potè non inchinarsi a Cicerone, assegnò nel rimanente la palma alla Grecia. Ove poi mi richiedessi del mio avviso, io darei ragione sì all'una e sì all'altra sentenza; da che si conchiude la povertà d'ambe le lingue. Or che resta agli altri a sperare, quando si dice questo di letterature celebrate cotanto? E tu adunque dall'inopia d'un intero regno, onde sei una minima porzioncella, fa ragione della propria, e vergognati d'aver logorato un tempo sì lungo a conseguire l'impossibile; che pur sarebbe un vanissimo nulla, quand'anche ti fosse dato raggiungerlo. Ma per toccare dell'ultimo de' tuoi vanti, io ti dirò che scioccamente t'esalti dei beni del corpo, immemore dei pericoli che d'ogni dove t'attorniano. Ed in te qual avvi qualità che tanto t'alletti? Forse la robustezza o la ferma salute? Ma a distruggerla basta ogni più lieve cagione; il sopravenire d'una malattia, il morso di un verme, il soffiare d'un'aura. Forse saresti vago della bellezza di tua persona e, mirando al colore e ai lineamenti del volto, trovi di che compiacerti, maravigliarti, commoverti, dilettarti? T'atterrisca la favola di Narciso; poi, a rinsanire, basti solo che cogli occhi della mente rimiri alle interiori parti del corpo, la cui bruttezza non apparisce a chi si contenta di sguardarne solo la buccia. Un fiore è questo che in corta ora si sfoglia; e mille argomenti lo mostrano. De' quali, se ogni altro mancasse, sarebbe troppo quell'uno che si deduce dal fugace trascorrere degli anni, che ogni dì ci rapiscono alcuna parte di noi. Che se per avventura, e so che ti sarebbe vergogna il confessarlo, ti credessi forte contro l'età, le malattie e quanto altro può sfiorire la corporale bellezza, certo non dovresti dimenticarti di quel punto estremo che tutto atterra, e tenerti scolpito nell'animo il detto del satirico:

Quanto sia fral la nostra inferma argilla,

Sol la estrema di morte ora lo mostra.

Ora t'è chiaro di qual fonte derivi la tua superbia, e che ti tolga di ripensare alla bassezza della tua condizione e alla morte. Nè ciò è tutto; che l'animo mi detta di aggiungerti ancora altre cose.

Francesco

T'arresta un poco, di grazia, perché, oppresso sotto tanta mole, non potrei rilevarmene a darti risposta.

Agostino

Di' su, che volentieri t'ascolto.

Francesco

Le tue parole destarono in me non lieve maraviglia; perché mi dai colpa di cose che non mi passarono nemmanco per l'animo. Credi adunque che molto confidi nel mio ingegno? Ed io so dirti che, conoscendone la pochezza, non lo tengo in verun conto. Nè potrei insuperbire d'aver letto assai libri; perché, ben lungi dal ritrarne grande tesoro di scienza, assai gravi crucci me ne derivarono. Nè ho di che gloriarmi della eloquenza; s'egli è vero, siccome, tu stesso il dicesti, che forte meco stesso mi sdegni del non poter significare i concetti della mia mente. Ove pure tu non mirassi ora a prendere esperimento di me, ben sai che fui sempre consapevole a me stesso di quanto meschinamente io mi valga; e solo dall'altrui ignoranza presi talvolta argomento a tenermi in qualche pregio. Perché, siccome spesso io ripeto, noi siamo giunti a tale da essere, a detta anche di Cicerone, più stimati a cagione dalla sciocchezza degli altri che per merito nostro. Che se anche possedessi in larga copia le qualità a cui accenni, sarebbero esse tanto gran cosa da insuperbirne? Non mi conosco sì poco, nè tanta è la mia leggerezza, che m'inveschi il suono delle altrui lusinghe. Dappoichè egli è vero che, quando l'animo è gravemente malato, niun farmaco o ingegno, sia di scienza o d'eloquenza, giunge a guarirlo; del che mi ricordo d'aver mosso lagnanza alquanto di proposito in una mia epistola. E poco mancò che non ti ridessi in faccia nell'intendere con qual serietà mi tacci d'ambizione della mia corporale bellezza. E che potrò io sperare da questo caduco e mortal corpicciuolo, se me lo sento ogni dì più cader sotto? Così Dio mi aiuti, che io non me ne do un pensiero al mondo! Non ti nego peraltro che da giovinetto non abbia posto assai cura nell'arricciarmi la chioma e nell'azzimar la persona; ma da quel tempo a ben altre cose ebbi l'animo intento, e conosco con quanta verità l'imperator Domiziano, allorchè, scrivendo ad un'amica, si lamentava del suo rapido invecchiare, dicesse non avervi cosa nè più piacente nè più breve della bellezza.

Agostino

Poco mi basterebbe a convincerti d'errore; ma meglio di me ti farà arrossire la coscienza. Nè mi ostinerò a trarti di bocca una parola che troppo ti costerebbe; bensì, siccome sogliono i generosi, mi basterà di pregarti che t'adoperi a sfuggire con ogni studio quei vizi in cui neghi d'essere incorso. Che se mai per ventura la bellezza della persona ti moverà altri assalti, pensa come diverranno di corto brutte e schifose queste membra onde adesso ti piaci; che se allora ti fosse dato di rivederle, ne inorridiresti tu stesso. Ripeti pertanto frequentemente teco medesimo il filosofico dettato: Io nacqui a ben altre cose che a rendermi schiavo del mio corpo. Dappoichè somma stoltezza è negli uomini, l'avere così poco riguardo all'anima, mentre tanto se ne usa al corpo. E pognamo che un cotale fosse per breve tempo rinchiuso in umida e scura carcere, tutta piena di fetide esalazioni: non sarebbe egli affatto pazzo se, da quanto è in lui, non si guardasse dal contrarre le brutture onde sono sozze le pareti ed il suolo, e se, vicino ad uscirne, non aspettasse con orecchio impaziente la voce del suo liberatore? E noi diresti uscito interamente del senno, ove, di tutt'altro pensoso e non punto curante di cansar l'umidore dell'orrido luogo, rimanesse accovacciato nel fango, quasi temendo d'esserne spiccato a forza, e studiosamente si adoperasse a dipingere ed abbellire quelle squallide mura? E voi pure, o sciagurati, amate tanto la prigione entro cui vi fu sortito di vivere; e, prossimi ogni momento a lasciarla o ad esserne tratti fuori, v'indugiate sempre a rendere adorno ciò che dovreste abborrire. Nè tu stesso, nell'Africa, parli diversamente per bocca del padre di Scipione il grande:

Qual freno a libertà, l'animo abborre

Ogni laccio e de' vincoli temuti

Sdegna l'impaccio; e sì della presente

Vita lo stringe amor che sol desia

Quaggiuso aver la sua dimora eterna.

E ben dicesti; ma ragion vorrebbe che recassi a tuo profitto ciò che ad altri insegnavi. Non so per altro nasconderti siccome nel tuo discorso v'abbia una parola che a te sembra forse di tutta umiltà ed a me sommamente arrogante.

Francesco

Se ciò è, me ne duole; me ne richiamo però alla coscienza, reggitrice dei fatti e dei detti miei, che non proferii alcuna superba parola.

Agostino

Non è forse anche questa una spezie di superbia, il deprimere gli altri, come fai tu, anzi che esaltare sè stessi oltre il dovere? E delle due mi sarebbe piaciuto che avessi pur menato vanto de' fatti tuoi piuttosto che, dopo esserti posto sotto i piedi ogni persona, da ciò appunto ritrarre argomento a vestire molto orgogliosamente l'usbergo della umiltà.

Agostino

Sia pur così, giacchè lo vuoi. Io non costumo levare a cielo nè me nè altri. Bensì la conoscenza che presi delle umane cose, avvegnachè me ne spiaccia, mi fa dire quello che pensi della maggior parte degli uomini.

Francesco

È molto buona cosa sprezzare sè stessi; assai vana e piena di pericolo, gli altri. Ma andiamo innanzi. Sai tu che ti svii?

Francesco

Di' ciò che t' aggrada, purchè non m'accusi d'invidia.

Agostino

Così non l'avesse più danneggiato la superbia che l'invidia! Di questa io non t'accuso, ma altro t'ho a dire.

Francesco

Vorrei sperare che sia questa l'ultima delle tue accuse. Orsù via chiariscimi schiettamente di ciò che mi conduce fuori del buon sentiero.

Agostino

La cupidigia dei beni temporali.

Francesco

In fede mia che molto grossamente t'inganni!

Agostino

D' un tratto ti turbi e dimentichi la promessa. E sì che non t'ho parlato d'invidia.

Francesco

Però mi dai taccia d'avarizia, da cui non avvi persona che più di me sia lontana.

Agostino

Tu spendi assai parole a purgarti d'un vizio del quale, credilo a me, non sei, come ti sembra, puro del tutto.

Francesco

Dunque io sono avaro?

Agostino

E per giunta ambizioso.

Francesco

Orsù t'affretta ad aggiungere altro al già detto e a fornire tutte le parti dell'accusatore. Eccomi apparecchiato a ricevere qualsiasi altra ferita, di che ti piaccia piagarmi.

Agostino

Alle mie veraci parole, con molta proprietà, desti il nome di ferita e di accusa. Perché, come dice il satirico,

Si noma accusator chi dice il vero;

ovvero, come sentenzia il somico,

Compra amici la lode, il ver nemici.

Ma dichiarami a qual fine riescano le tue tante sollecitudini ed affannose cure, e che bisogno vi sia, posto che la vita ha sì brevi confini, d'ordire così lunghe speranze. Forsechè la estrema cortezza del vivere non dovrebbe distorci dal troppo sperare?E tu leggi tutto dì queste cose senza farne il minimo conto. Risponderai che ti sprona a tanto la carità d'amico: ma ciò sarebbe inorpellare la verità; perché vuolsi stimare dissennato chi, a beneficare altri, si procaccia nemici e rompe guerra a sè stesso.

Francesco

Io non sono così scortese ed inumano che non mi dia pensiero degli amici, di quelli principalmente all'amore dei quali sono condotto o dalla virtù o dal merito; e tra essi ve n'ha taluno cui m'è dolce pregiare, venerare, amare, aiutare. Ma la mia liberalità non tanto s'allarga che voglia correre per essi a finale ruina; però, finchè mi basti la vita, m'è pur mestieri di provedere ai quotidiani bisogni. E giacchè mi avventi dardi che togliesti ad Orazio, d'oraziano scudo coprendomi, ti risponderò con lui che

Tesor d'eletti libri io sor desio,

E frugai sì, ma proveduta mensa

Mi si appresti ogni dì, perché l'incerto

Cor, tra la speme ed il timor diviso,

Non penda dalla incerta ora che fugge.

E ciò perché, come dice lo stesso Orazio, « non vorrei menare una dolorosa vecchiezza nè muta del suono della lira. » Siccome poi temo forte le insidie d'una lunga vecchiaia, procaccio di assicurarmi sì da questo pericolo come da quello, ed agli studii delle muse frammetto le brighe di famiglia. Ma tanto poco mi vi adopero attorno che ben si pare come non vi ponga mano, se non se costretto da necessità.

Agostino

Certo è a dire che siffatte cose ti sieno bene addentro penetrate nell'animo, se in esse tu cerchi una scusa alla tua follia. Ma perché non vi rimase scolpita anche quell'altra sentenza del satirico?

A che tanti tesor cerchi e raduni

Con infiniti affanni? È furor certo,

Manifesta pazzia che ti conduce

Tra gli stenti a menar povera vita

Perché ricco alla morte ogni uom ti creda.

Se non che io porto opinione che intanto corriate dietro alle ricchezze in quanto esse vi danno modo ad essere ravvolti, dopo morte, entro panni di porpora, a riposare in marmorei sepolcri, a lasciare litigi tra gli eredi che si contenderanno il pingue retaggio. Inutile e, se mi presti fede, stolta fatica! Perché, ove guardi alla comune natura degli uomini, sai per prova che di non molto ella s'accontenta; se poni mente alla tua singolarmente, troverai appena chi meglio di te si acconci del poco, ove le volgari opinioni non ti avessero persuaso il contrario. Quando poi, a scusarti, arrecassi i versi del poeta:

Ahi! che vitto infelice a me la terra

Fornisce, e solo dai riscossi rami

Il corniol mi dà sue dure ghiande,

O il prato le selvagge erbe che schianto;

io ti direi ch' egli o mirava a ritrarre il linguaggio delle persone del popolo o a manifestare sensi di colui che introduce a discorrere. In ciò poi che ha riguardo al tuo particolare, ti sarà forza il confessare che questo vivere ti è più dolce e soave d'ogni altra; se pure vuoi prender norma dal tuo intimo sentimento e non già dalle ciance d'un pazzo volgo. Or perché tanto ti crucci? Vivi a misura della tua buona natura, e sarai ricco. E già un tempo eri tale, ma diventarlo, secondo che gridano le popolari credenze, ti sarebbe impossibile; perché chi aspira a tesoreggiare non dice mai basta, e l'animo è trascinato dalla cupidigia e da desideri infiniti. Non rammenti come ad altra stagione ti fosse bello spaziare qui e colà nella tua solinga campagna ed ora, adagiato sul verde de' prati, ascoltare il mormorio d'uno zampillante ruscello, ora, sostando sull'aperto de' colli, trascorrere d'ogni intorno coll'occhio la sottoposta pianura? Che se tra l'ombra di amena valle, avvinto in dolce sonno, godevi del sospirato silenzio, inoperosa però non giaceva la mente, la quale piacevasi nel fantasticare dietro a qualche alto argomento. Nè eri mai solo, ma in compagnia delle muse, a sembianza di quel vecchia di Virgilio,

Col generoso tuo spirto eguagliavi

De' monarchi i tesori. E a tarda sera

Tornando alla capanna, a te la mensa

Fumava lieta di non compri cibi.

Ed allorchè in sul tramonto t'avviavi alla rusticana casetta, a cuore contento, non eri tu il più ricco e felice d'ogni mortale?

Francesco

Adesso sì che me lo credo; e sospiro nel ripensare a quel tempo.

Agostino

Perché, o stolto, sospiri, se niun altro devi incolparne che te stesso? Misero! che, avendo in fastidio il vivere troppo a lungo sotto le leggi della natura, stimasti di essere schiavo, ove non ne avessi spezzato ogni ritegno. Ed ora l'animo tuo è furiosamente trabalzato d'una parte nell'altra e lì lì per ruinare nel precipizio, se non t'adopri a raccogliere le allentate briglie. E ciò solamente t'accadde perché ti seppero male le bacche de' tuoi rami, e t'increbbe Io schietto vestire e il conversare de' rozzi pastori. Sospinto da immoderate brame, ricadesti tra i cittadini tumulti, di mezzo ai quali quanto tranquillamente ti scorrano i giorni, abbastanza il chiariscono e le parole e la pensosa tua fronte. E benchè ti gravi l'aspetto di tante miserie, fatto caparbio dalla stessa infelice esperienza, stai ancora in forse a qual partito appigliarti. Sono i legami de' tuoi peccati che così t'avvincono; e Dio comporta che, dopo aver trascorsa la fanciullezza sotto la verga del pedagogo, adesso che sapresti reggerti a posta tua, logori tanto miseramente l'età più matura. Nella prima giovinezza il tuo cuore era netto d'ogni cupidigia ed alieno da qualsivoglia ambizione; ed io, che ti conobbi sin da quel tempo, riprometteami da te alcuna cosa di grande. Ma in quella vece, mutando costume, quanto più t'accostavi al tuo termine, e tanto viemaggiormente ti mostravi sollecito de' beni di questa terra. E adesso, sitibondo d'oro qual sei, la morte, che forse non ti è guari lontana, avverrà che mezzo spento ti colga nell'atto, di rivedere il libro delle ragioni; dappoichè: ciò che quotidianamente si accresce è forza che nel giorno estremo, allargandosi all'infinito, tocchi il vietato confine.

Francesco

E forse merito biasimo, se, provedendo alla povertà che potrebbe sorvenirmi alle spalle, faccio incetta di quanto conforti la tarda età?

Agostino

Ridicole cure! Insana previdenza è veramente la tua, di pensare con tanto affanno ad un tempo a cui forse non giungerai o che ti si volgerà molto breve. E frattanto poni in dimenticanza quel termine che noi tutti aspetta e donde non sarà mai tornata. Ma un vostro sciagurato costume è codesto d'immergervi a gola nelle cose che passano, mentre ponete in non cale le eterne. E scioccamente ragioni se riguardi alle ricchezze siccome ad uno schermo pei bisogni della vecchiaia; nè ti difende Virgilio là dove dice:

Piena d'industrie, la formica ai danni

Della più tarda età cauta provede.

E perché hai scelto questo animaluzzo a maestro di vita, credi d'essere più degno di scusa, secondo che ammaestra il satirico:

L'uom cui la fama e il freddo alto spaventa

Della formica si propon l'esempio.

Così questo esempio l'avessi imitato in tutto! Or sappi che, non vi ha cosa più misera e pazza quanto, a cansare talvolta la povertà, sentirne continuamente i tristi effetti.

Francesco

E dunque vorresti che io me ne vivessi nell'indigenza? Davvero che non mi graverebbe il comportarla, ove la pazza fortuna non così, come suole, mettesse sossopra le umane sorti.

Agostino

Ottima delle condizioni è la povertà. Non io adunque ti richiamerò ai dettati di coloro che van dicendo al nostro sostentamento non più richiedersi che pane ed acqua, ed essere felice al paro di Giove l'uomo che non corra più oltre co' suoi desideri; nè, qual mezzo a campare, ti consiglierò a cibarti dei frutti di Cerere e dissetarti all'onde del fiume. Sono queste magnifiche sì, ma increscevoli sentenze agli orecchi mortali. Perciò, acconciandomi alla tua fralezza, non t'insegno a distruggere, ma a moderar la natura. Quanto possedevi ti venia sufficiente alle necessità della vita, se tu fossi bastato a te stesso; nè della indigenza di cui ti metti paura hai da accagionare altri che te. Che poi l'accumulare ricchezze accresca ognor più i pensieri e i bisogni, è cosa dimostrata già tante volte che torna inutile il ragionarne più a lungo. Maraviglioso errore e compassionevole cecità è codesta che l'animo umano, di sì eccellenti tempere e d'origine divina, non curando i celestiali tesori, folleggi dietro i terreni! Rifletti a questo, io ten prego, con intento animo; e schiudi gli occhi della mente così che lo splendore dell'oro non t'abbarbagli. E quando l'avarizia, ghermendoti delle ferree sue unghie, t'abbia tolto ai pensieri del cielo per abbassarti alle cure di questa terra, forse che non ti parrà di precipitare dalla sublime altezza delle sfere nel profondo delle più cupe voragini?

Francesco

Non posso negarlo, e mal giunge la lingua a significare quanto dalla ruinosa caduta n' abbia rotte le membra.

Agostino

Or perché l'esperienza non t'apprese a fuggire il pericolo? Che se una volta ti sia dato risorgere, a che non vorrai tu stampare d'orme sicure il retto sentiero?

Francesco

Io mi vi adopero sì, ma, poichè troppo m'è duro usar violenza alla mia fragile natura, non vi riesco al modo che pur vorrei. Nè senza buona ragione i poeti antichi consecrarono la doppia cima del Parnaso ai numi; perché con ciò miravano ad implorare da Apollo, cui dissero il dio dell'ingegno, la forza dell'animo, e da Bacco la destrezza a fornire le temporali bisogne. Nella qual opinione mi condusse non solo la esperienza, maestra delle cose, ma ancora l'autorità di dottissimi uomini, secondo che tu egregiamente conosci. Adunque, sebbene niuna fede si abbia a prestare a que' falsi iddìi, pure in questa credenza de' poeti v'ha molto buon senno: la quale ove si riferisca ad un solo Dio, da cui ci piove ogni opportuno soccorrimento, non molto si dilunga dal vero; se pure a te non sembra altrimenti.

Agostino

In questo io non dissento; bensì mi sdegno che tanto meschinamente logori il tempo. Perché tu avevi già fisso di consecrare per intero la vita allo studio delle ottime cose e stimavi giorno perduto quello in cui fossi costretto a dedicarti a tutt'altro. Ora poi ciò solo dai allo studio che sopravanza all'avare tue cure. Ond'io conchiudo che ognuno dovrebbe, anche per tale rispetto, abbonire la vecchiaia, che tramuta così i pensamenti degli uomini. Deh quando porrai tu fine o modo a tante follie? E sai che il detto,

Mai non basta all'avaro il suo tesoro:

Giusto un confine alle tue brame assegna,

proferito da umana bocca, ha pur forza d'oracolo. Finiscila dunque, che ne sarebbe già tempo.

Francesco

Non patire difetto o aver abbondanza d'alcuna cosa, non comandar o servire; ciò è che solamente desidero.

Agostino

A non bisognare d'altri, ti converrebbe di svestire le umane forme. Ignori forse che l'uomo è il più povero di tutti gli animali?

Francesco

Sovente l'intesi, ma vorrei che me ne rinfrescassi la memoria.

Agostino

Mira com'egli nudo ed informe nasce tra i vagiti e le lagrime; come, pauroso e mal reggentesi sull'orme proprie, abbia mestieri d'una mano che lo sostenti e a lui porgano alimento e vestito i muti animali. Fragile ha l'animo, inquieto, assediato da molteplici morbi, a innumerevoli passioni soggetta, povero di consiglio, ondeggiante sempre tra la gioia e il dolore, impotente a volere, inetto ad infrenare il senso, incerto di ciò che meglio gli torni. Sin la misura del mangiare e del bere gli è sconosciuta; e gli alimenti, che pur non vengono meno a veruna guisa d'animali, ei deve procacciarseli a sudore di fronte. Lui il sonno ammorbidisce, il cibo rigonfia, la bevanda ubbriaca, la veglia affrange, la fame raggrinza, la sete inaridisce; e, cupido e pauroso ad un punto, si annoia del posseduto, piange lo smarrito, s' affanna del passato, del presente e dell'avvenire, insuperbisce tra le miserie; consapevole della propria debolezza, si vede inferiore ai vermi più abbietti; e con sì breve vita, incerta età, inevitabil fine, egli si trova esposto a mille maniere di morte.

Francesco

Ahi qual cumulo di guai! io quasi mi dolgo d' essere nato uomo.

Agostino

Pure, fra tanta debolezza e miseria, ti sembra d'essere così ricco e potente da disgradarne ogni Cesare e re, per quantunque grandissimo.

Francesco

E chi disse mai questo? ti ho parlato io di ricchezze o potenze?

Agostino

Ma v'ha egli maggior ricchezza che non patir difetto di cosa alcuna? maggior potenza che non essere comandati? perché i monarchi e i signori della terra, che sono doviziosissimi, anch'essi vanno privi d'innumerevoli cose; e sino i condottieri d'eserciti sono in balia di coloro cui sembrano imperare e temono quelle schiere dalle quali attorniati si rendono formidabili agli altri. Cessa dallo sperar l'impossibile e, contento delle umane sorti, impara a tollerare si la ricchezza come la povertà e tanto il dominio quanto la servitù. A qualunque modo tu viva, non ti verrà mai fatto di scuoter da te un giogo da cui gli stessi re a sottrarsi non valgono. E tu non potrai ciò conseguire, se non allora che, poste sotto i piedi le umane passioni, t'accosti all'impero della virtù; entro il quale l'uomo fatto libero, proveduto di tutto, non soggetto a persona, verace re ed assoluto signore, beatamente mena i suoi giorni.

Francesco

Già mi sa male dell'operato sin qui, e nulla più bramo che non bramar nulla; ma la mala inclinazione mi trascina, e sento agitarmisi il cuore da non so qual battito irrequieto.

Agostino

Ed è appunto questo; giacchè mi toma in proposito il dirlo; quest'è che t'allontana dal pensier della morte e nelle terrene brighe tutto ti ravviluppa. Ma io t'accerto che, ove non sollevi lo sguardo al cielo e non disgravi l'animo dal suo peso mortale, non potrai chiamarti contento. Nè il farlo ti costerebbe molto, se ti conformassi ai dettati della tua buona indole e ti volgessi per aiuto a lei piuttosto che al violento impeto a cui si lascia andare la gente.

Francesco

Ed anche questo farò. Ma da che accennasti dell'ambizione, è da buon tempo che amerei me ne tenessi parola.

Agostino

Perché vuoi che ti presti un uffizio cui nessuno meglio di te può adempiere? Ove disamini la tua coscienza, ben vedrai che questa non è la minore delle tue colpe.

Francesco

Adunque a nulla mi valse che, fatto spruzzatore del volgo e delle pubbliche voci, m'involassi alle città e, accogliendomi in seno al silenzio de' boschi e de' campi, rompessi guerra agli insidiosi onori? Io non mi sarei aspettato che mi dessi taccia di ambizioso.

Agostino

Voi, o uomini, molte cose lasciate non perché non ne facciate stima, ma sì perché non vi è dato di giungerne al possedimento. Il desiderio e la speranza così a vicenda si spronano che quando questa raffredda, quello intiepidisce; e per contrario.

Francesco

Dimmi, di grazia, che cosa recidesse il volo al mio sperare. Forse era io così povero di mezzi?

Agostino

Di ciò mi taccio, ma quello bensì ti mancava onde oggi particolarmente gli uomini si giovano ad aggrandire. E sono lo scendere ed il salire le altrui scale, il blandire, l'ingannare, il promettere, il mentire, l'infingersi, il dissimulare e il soffrire ogni guisa d'indegnità. Tu di queste e simili povero affatto com'eri, bene estimando di non poter vincere la tua natura, con prudenza e destrezza avesti ricorso ad altro. Perché che significa, al dire di Cicerone, venire a lotta co' numi, come un tempo i giganti, se non combattere colla propria natura?

Francesco

Ogni più desiderabile onore perisca, ove si deggia accattare a tal prezzo.

Agostino

Saviamente ragioni, ma da ciò non mi apparisce chiara la tua innocenza. Ed avvegnachè tu mi sia venuto dicendo la cagione per cui abborrissi gli onori, non ne consegue per questo che non agognassi a possederli; a quel modo che non è a chiamarsi dispregiatore di Roma chi, atterrito dal faticoso cammino, al dare de' primi passi ritoma indietro. Inoltre so che tu non facesti nemmen tanto, come vorresti darlo ad intendere a te stesso e l'adoperi a persuaderlo a me; perché non basta l'ombra del dito? come dicono, a velare la fronte. Forse che i tuoi pensieri e le azioni non mi sono ugualmente palesi? Or bene nè il tuo fuggire dalle città nè il rintanarti nelle selve ridondano in tua lode, sì invece danno al tuo operare sembianza di colpa. Per molti sentieri si tocca al termine desiderato; e tu, col muovere lungo una via abbandonata dai più, t'appressi, quantunque per iscorciatoie, a quell'ambizione che vanti di disprezzare. A lei t'invitano l'ozio, la solitudine, la noncuranza delle umane cose e gli stessi tuoi studii, i quali non vagheggiano se non se la gloria.

Francesco

Tu mi poni alle strette; però lo spigliarmene non mi sarebbe gran fatto difficile. Ma perché il tempo rapido vola, e molte altre cose ne aspettano, procedi innanzi, se ti piace.

Agostino

Sia così! E non ti parlo de' piaceri della gola, che non t'allettarono mai; se non forse la voluttuosa compiacenza che provi talvolta nel sederti a mensa con qualche amico. Ma ciò non mi dà ombra: dappoichè, tosto che ti rinchiuda nel tuo ritiro, ogni attrattiva di siffatti gusti sparisce; e tu, quando dal mondo sei lontano, vivi con tal sobrietà che in questo m'era dolce il vederti primo tramolti. Tralascio altresì dell'ira; a cui se talora più del giusto t'accendi, non va guari che, per la mitezza dell'indole, ritorni in pace, memore del consiglio d'Orazio:

Ira è breve furor; l'animo reggi

Che imperar vuol; s'ei d'obbedir disdegni,

Tu con briglie e catene ognor lo infrena.

Francesco

Io confesso che questa poetica sentenza ed altre che imparai dalla lettura de' filosofi mi furono di non mediocre giovamento, e sopratutto la ricordanza della brevità della vita. Dappoichè qual rabbia è codesta che ci spinge a spendere i pochi di che ne sono assegnati solo nell'odiarci e danneggiarci a vicenda? Poco andrà che ci sorvenga l'ultimo giorno a spegner codeste fiamme, ad ammorzare gli sdegni; e se al nemico nostro, qual gravissimo dei mali, desideriamo la morte, ci sarà tra non molto esaudita la scellerata dimanda. Pertanto a che frutta il minare sè ed altri? a che mena il logorare miseramente la cortissima ora che ci è data ad operare il bene? e un tempo assegnato agli onesti godimenti o ai pensieri dell'eternità, un tempo che appena ne basta all'adempimento d'ogni nostro dovere, perché volgerlo a fine diverso da quello a cui fu necessariamente destinato, acciocchè poi ne derivi morte sì a noi come ai prossimi? Il meditare in sì fatte verità m'impedì di precipitare in fondo all'abisso e di non rialzarmi tosto ove vi fossi caduto. Però, con tutto che vi ponessi ogni studio, mai non giunsi a temperare il fuoco della mia collera.

Agostino

A te o ad altri che ti somigli, io non temo che dalla collera possa derivare gran danno. Ond'è che, quando pur rimanessi al di sotto dei vantamenti degli stoici, i quali si ripromettono di spiantare dalla radice ogni infermità dell'animo, mi basta che in tal proposito faccia uso del temperamento insegnato dai peripatetici. Ma, lasciando di tali cose, passiamo alle altre che, per avere in sè maggior pericolo, richiedono che tu vi provveda più efficacemente.

Francesco

Dio buono! e che mai può esservi ancora di pericoloso?

Agostino

Forse che le fiamme della libidine non ti danno alcun travaglio?

Francesco

Troppo, sì! e tanto ardente alcuna fiata ch'io provo un vivissimo cruccio di non esser nato insensibile. Oh! saria pur meglio ch'io fossi un'immobile pietra anzi che provare nelle membra cotanto vivo commovimento.

Agostino

E ciò appunto è quello che principalmente t'allontana dalla meditazione delle divine cose. E la celeste dottrina di Platone egregiamente e' insegna a tener l'animo puro e sciolto d'ogni terreno impaccio, se aspiriamo d'accostarci a leggere negli arcani della Divinità, alla quale è congiunto il pensiero del nostro essere mortale. E a questo effetto ci è bisogno di spegnere le corporali libidini e togliere dalla mente ogni men che casta imaginazione. E ben sai se io dica il vero, tu, che queste dottrine imparasti in Platone, alla cui lettura avidamente attendevi non ha molto tempo.

Francesco

Ciò è di fatto, e con vivo desiderio e grande speranza m'era posto a leggere gli scritti di quel divino; ma la novità della lingua e il subito allontanarsi del precettore mi ruppero a mezzo il disegno. Però gli insegnamenti di cui favelli io li appresi sì da lui come da altri platonici.

Agostino

Quando si tratti del vero, poco monta il sapere chi ne sia stato il maestro; benchè talora l'autorità dell'insegnante giovi non poco.

Francesco

E di un tanto uomo principalmente, dei quale mi si scolpì nell'animo quanto dice Cicerone nelle Tusculane: e Platone, ove pure non confermasse il suo dire con alcuna ragione (vedi quanto grande stima io faccia di questo sommo!), colla sua sola autorità mi renderebbe affatto convinto. A me poi nel ripensare sovente alla grandezza di quel sublime intelletto, sembra indegna cosa che, mentre il volgo de' pitagorici giura nelle parole del suo maestro, si voglia chiamar Platone a render conto della propria dottrina. Ma, a non andar troppo lontano dal mio proposito, di tanto e l'autorità e la ragione e l'esperienza mi mostrarono evidente questa sentenza platonica che io non dubito di riguardarla siccome la più vera e santa d'ogni altra. E tanto mi fece di bene che, sorretto dal celeste fiuto, giunsi a rilevarmi di terra; e con incredibile ed immensa dolcezza conobbi ciò che nel presente fosse il mio meglio e nel passato il mio peggio. Ora poi, che trascinato in giù dal mio peso ricaddi nell'antica miseria, amaramente comprendo ciò che m'abbia perduto una seconda volta. Nè vo riandando queste cose ad altro fine che per chiarirti quanto mi giovasse il conoscere ab esperto quel placito di Platone.

Agostino

Non me ne maraviglio; che io, presente a' tuoi combattimenti, ti vidi precipitare e risorgere; e adesso, mosso da compassione, me'n venni a stendere la mano al caduto.

Francesco

Ringrazio la tua affettuosa pietà e ti chiedo qual mezzo umano debba io adoperare per riavermi.

Agostino

Lascia gli umani mezzi e in tutto ricorri ai divini; perché non può guardar continenza cui Dio non aiuti. A lui pertanto ti volgi e con le lagrime del pentimento lo supplica d'un tanto dono. Egli concede ciò che debitamente gli si domandi.

Francesco

Già tante volte lo feci che temo di non tornargli molesto.

Agostino

Ma nè umile nè sobria fu la tua domanda così che, anche rinnovandola con tutto l'ardore, non ti riserbassi alcun luogo alle future cupidigie. Ed io ti parlo di cosa che ebbi provata in me stesso. Quante volte no'l pregava: « Dammi, o Signore, la castità, ma non adesso; differisci alquanto, che presto ne verrà il tempo. La florida età cammini un altro poco per le sue strade e goda de' suoi privilegi: ad altro tempo sarebbe vergogna il folleggiare siccome adesso. Allora soltanto darò un addio ai piaceri che il correre degli anni m'abbia tolto modo a goderne, e la sazietà che da essi s'ingenera levi ogni pericolo di ricaduta. » Or non t' accorgi che, ripetendo queste parole, altro preghi ed altro vuoi?

Francesco

Ed in qual modo?

Agostino

Perché chi domanda a tempo non si cura del presente.

Francesco

Ma io con tante lacrime supplicai che mi si concedesse questo presente, sperando che, spezzate ad un punto le catene del piacere e poste sotto i piedi le miserie della vita, mi fosse dato di giungere a salvezza e ricoverarmi nel porto, dopo aver corse tante pericolose procelle. Tu poi non ignori in mezzo a che altri scogli io naufragassi e quali nuovi pericoli mi sieno minacciati, ove nessuno mi porga aiuto.

Agostino

Allorchè la preghiera manchi d'effetto, e' vuol dire che è difettiva in qualche parte: perché, d'altra guisa, il supremo donatore l'avrebbe assentita ovveramente negata; come fece allorchè volle perfezionare la virtù e la infermità dell'apostolo Paolo.

Francesco

Credo che così sia; ed intanto non cesserò mai dal pregare, nè mi stancherò, nè vergognerommi, nè getterò la speranza. E forse che l'Onnipotente, tocco a compassione de' miei mali, non isdegni d'ascoltare le mie domande, se giuste, e se altrimenti, si compiaccia a renderle tali.

Agostino

Egregiamente farai: conviene però che tu non rimetta punto del buon volere. E, come usano coloro che per rilevarsi di terra s'alzano sul gombito, stattene a buona guardia contro i mali che ti corrono incontro, acciocchè al loro improvviso sopravvenire tu non ne patisca estrema rovina. Nè lasciar mai di ricorrere per aiuto a chi può darlo; perché ei ti starà vicino quando forse lo crederai più lontano. Non perdere intanto di vista quel sapiente detto di Platone che ricordammo più sopra: dalla conoscenza di Dio nulla può allontanare quanto i carnali appetiti e il fuoco della libidine. Ripensa bene a queste parole, perché in esse è riposto il meglio che ti potessi venir consigliando.

Francesco

Acciocchè tu intenda in qual prezzo le abbia avute sempre queste parole, io ti dirò che non solo me le strinsi al cuore quando esse risiedevano nella propria reggia, ma sì ancora quando pellegrine si nascondevano nei boschi; e colla mente segnai il luogo ove, al bisogno, possano farmisi incontro.

Agostino

Non mi giunge chiaro questo tuo discorso.

Francesco

T'è noto per quanti pericoli Virgilio conducesse il suo eroe in quell'orrida notte che fu l'ultima del reame troiano?

Agostino

I versi in cui Enea stesso è introdotto a raccontar i propri casi sono de' più conosciuti che si leggano nelle scuole:

Qual mai racconterà lingua mortale

E le stragi e le morti onde fu orrenda

Quella memore notte? Oh non v'ha pianto

Ch'unqua le dolorose opre n'agguagli!

Cade l'alta città che da lungh'anni

Fu di genti reina; e nelle case,

Nelle piazze e de' numi entro gli alberghi,

Cumuli vedi di trafitte salme

Che t'ingombrano il passo. - Il troiano sangue

Però solo non corre; anco ne' vinti

Il cor torna un istante, e il nostro ferro

Del vincitor miete le vite. Ovunque

Il lutto, lo spavento e della morte

La terribile immagine passeggia.

Francesco

Or bene! Frattanto che Enea, scortato da Venere, s'aggira tra i nemici e le fiamme ad occhi aperti, non vide la collera degli offesi numi, nè udì che suoni mortali. Ma non appena fu lasciato da lei che tosto gli apparvero le adirate sembianze degl'iddìi, e tutto gli fu manifesto il pericolo che lo minacciava:

Dei numi avversi alla troiana gente

Gli si mostrerò i corrucciati volti.

Dai quali versi io ritrassi che i piaceri di Venere nascondono all'uomo l'aspetto della Divinità.

Agostino

Con bell'ingegno sapesti svolgere la luce dalle tenebre. Così sotto le poetiche finzioni si cela la verità; benchè a scoprirrnela sia uopo di molto sottili accorgimenti. Ma perché dobbiamo tornare su questo argomento, ne parleremo all'ultimo più di proposito.

Francesco

Acciocchè tu non mi conduca attorno per ignoti sentieri, dimmi di che allora mi tratterrai.

Agostino

Io non ho ancora posto il dito sulle tue più profonde ferite. E volli indugiarmi a bella posta acciocchè meglio ti si scolpisca nella memoria quanto sarò per dirti. Vedrai allora se da questi carnali appetiti, di cui appena toccammo, ci verrà ampia materia al discorso.

Francesco

Orsù, va innanzi, ch' io ti seguo.

Agostino

Purchè non t'ostini a startene sfacciatamente sul niego, io credo che sarà quindinnanzi finita ogni contesa.

Francesco

Oh come mi piacerebbe che si togliesse dal mondo ogni sorgente di litigio. E non v'ebbe mai cosa, per quanto mi paresse di gran rilievo, che mi conducesse a contendere se non a malincuore; perché siffatte questioni, quand'anche insorgano tra benevoli, hanno un non so che d'ostile che troppo è avverso all'indole dell'amicizia. Ma dichiarami adesso quello a cui dicesti che io assentirò senza indugio.

Agostino

L' animo tuo è dominato da una cotal peste che i moderni chiamano malinconia e gli antichi dissero tristezza.

Francesco

Al nome solo ne inorridisco.

Agostino

Certo perché ne fosti travagliato sì a lungo.

Francesco

Sì, è vero; ma in codesta mia infermità non m'avvenne ciò che nelle altre, le quali contengono una non so quale falsa dolcezza mista all'amaro; perché tutto in lei è tristo, misero, aspro ed orrendo, tutto mena alla disperazione e a quegli eccessi che trascinano gl'infelici al precipizio. Oltre a ciò, frequenti, sì, ma brevi e momentanei sono gli assalti che mi danno le altre passioni, ma questa maligna e tenace tanto mi stringe che nè giorno nè notte allenta le sue catene; ed allora non è intorno a me luce quella che splende, ma notte d'inferno, non vita che io goda, ma acerbissima morte. E per colmo di sventura, mentre di sì fatta guisa essa mi accuora e dolorosamente m'affrange, io mi sento preso da una cotale voluttà che non posso strapparmi dalle sue braccia senza provarne rincrescimento.

Agostino

Assai bene mi favellasti della tua malattia; di corto ne saprai ancora la cagione. Dimmi frattanto di che così fieramente ti crucci? forse del rapido passare di queste temporali cose, d'un qualche dolore nel corpo, ovvero d'alcun altro oltraggio dell'ingiusta fortuna?

Francesco

Se i miei nemici uno ad uno mi movessero guerra, non io mi ricuserei di affrontarli; ma costoro tutti ad un tempo muovono in gran frotta ad assalirmi.

Agostino

Dichiarami più in particolare ciò che t'arreca maggior gravezza.

Francesco

Allorchè la fortuna mi scaglia uno de' suoi dardi, io non m'atterrisco, rammentando come non una volta ella m'abbia profondamente piagato. Se ella rinsanguina la ferita, comincio alcun poco a tentennare; ove poi ai due primi colpi succeda il terzo ed il quarto, allora vinto, non però così che mi metta a precipitosa fuga, ma passo passo, mi ritiro nella rôcca della ragione. Che se la nemica mia col nerbo di tutte le sue forze ivi pure m'assalga ed a soggettarmi affatto schieri in ordine di battaglia le miserie della umana condizione, la memoria delle sostenute fatiche e lo spavento de' danni futuri; al vedermi d'ogni dove incalzato ed oppresso sotto il peso di tante sciagure, non posso non prorompere in gemiti. E ciò è appunto che tanto m'affligge. Onde io divento allora simile a colui che, attorniato da tutte bande, senza che gli si apra scampo o fiducia di salvezza, nulla più abbia a sperare, e tutto gli resti a temere. E già, alzate le macchine e scavate le mine, tremar vede le torri, appressare alle trincere le scale, appiccarsi alle mura i roncigli, e il fuoco trascorrere lungo le esteriori difese; dappertutto un balenar d'armi, un accorrere di nemici, che, minacciosi in sembianza, cogli occhi divorano la preda.... Ora il tapino che sia sopragiunto da tanta mina non dovrà intirizzire dallo spavento? perché, quand'anche cessi il pericolo di morte, egli perde la libertà, che all'uomo forte o la più fiera delle ambasce.

Agostino

Comechè non mi suonino al tutto chiare le tue parole, pure lo sono abbastanza per rilevarne che ti si è fitta in mente una, massima falsa; la quale siccome fu origine di tutti i mali, così condusse e condurrà in perdizione infinita gente — Dimmi; ti sanno male le tue condizioni presenti? tristi sembrano a te le tue condizioni?

Francesco

Anzi non potrebbero esser peggiori.

Agostino

E perché?

Francesco

Non uno, ma innumerevoli ne sono i perché.

Agostino

S'avvera in te pure il caso di coloro che, ad ogni minimo motto d'oltraggio, si richiamano al pensiero le antiche offese.

Francesco

Non v' ha piaga, per quanto si voglia antica, che per virtù di tempo in me risanasse. Tutte ancora grondano sangue e mi danno spasimo; e se ve n' è alcuna da potersi guarire, la fortuna così mostrasi vaga di tormentarmi che non le lascia tempo a rimarginare. A ciò s'aggiunge l'odio e il disprezzo delle umane cose, tanto e sì grande che la vita non può passarmi se non mestissima. In quanto poi al nome onde vuolsi chiamare questa malinconia che m'affligge, non me ne curo punto; ma troppo è vero ch'io ne patisco.

Agostino

Giacchè, da quanto scorgo, il male ha messe barbe in te profonde, non basterà lo svellerlo a fior di terra, ma sì dall'ime radici, ove non vogliasi che rigermogli. Non so poi da che parte por mano all'opera, tanto essa m'atterrisce; ma acciocchè le mie parole ti suonino più chiare ed agevoli, farò di dirtene per sommi capi. Dichiarami adunque che cosa stimi innanzi a tutto recarti maggior molestia.

Francesco

Quanto veggo, ascolto ed intendo.

Agostino

E niente v' ha di tutto ciò che t' aggradi?

Francesco

Ben poco, o nulla.

Agostino

Fosse almeno che t'allettassero le cose buone! Ma e non v'ha nulla che in particolar guisa rincresca?

Francesco

Già te 'l dissi.

Agostino

Ecco un altro effetto di quell'umor nero che sì t'opprime. Or bene; ed io credo che sieno i fatti tuoi quelli di che prendi maggior fastidio.

Francesco

E gli altrui non meno.

Agostino

Ed anche questo è rivo che sgorga dalla stessa fonte. Ma, a parlare con qualche ordine, è poi vero che tanta amarezza ti dieno i fatti tuoi.

Francesco

Cessa, o padre, dal rinnovarmene la domanda? Aggiungerò solo ch'essi mi annoiano più che io non basti a significare,

Agostino

È segno dunque che ti reca noia l'invidia che altri ti porta.

Francesco

Infelicissimo colui che invidia ad un in felice!

Agostino

Ma pure la vi dev' essere questa cosa che più delle altre ti spiace.

Francesco

No 'l so.

Agostino

Vorrai tu convenirne, ove io te la nomini?

Francesco

Sì, schiettamente.

Agostino

Sei sdegnato colla tua fortuna.

Francesco

E non mi sarà forza odiare la superba, violenta e cieca fortuna, la quale, senza verun riguardo, tutto quanto volge sossopra?

Agostino

Non v'ha persona che di ciò non si lagni; ma ora parliamo de' tuoi risentimenti in particolare. Or vorrai tu rabbonirti, se io ti mostri che ti lamenti a torto?

Francesco

Ti togli un'assai malagevole impresa. Però consento, ove tu ci riesca.

Agostino

A te pare che la fortuna ti sia poco cortese.

Francesco

Anzi ella è con me a varissima, iniquissima, superbissima, crudelissima.

Agostino

Non è uno solo che si chiami malcontento di lei come dice il poeta comico, ma infinito n'è il gregge. E tu vai annoverato fra' molti, comechè ti vorrei tra' pochi. Siccome però antica è la malattia, e appena si potrebbe guarirla con nuovo rimedio, mi lasceresti ritentare l'usato?

Francesco

Fa a tuo senno.

Agostino

Rispondimi. Fosti mai in tale distretta da soffrire la fame, la sete, il freddo?

Francesco

La fortuna non mi guardò ancora con occhio sì bieco.

Agostino

Pure da queste cagioni medesime quanti son travagliati! quanti afflitti!

Francesco

Tienti il tuo farmaco, se altro nonne hai; questo non varrà certo a sanarmi. Perché non sono io già di coloro che, colpiti dalla sventura, amano di circondarsi d'una turba di piagnolosi lamentatori. E troppo spesso sospiro, più che de' miei, degli altrui mali.

Agostino

Meglio che a blandire, io miro a giovarti. Sappi pertanto che, quando l'uomo riguardi alle altrui sorti, ha cagione di chiamarsi contento delle proprie. Perché non tutti possono occupare i primi seggi; d'altra guisa non vi sarebbero primi, ove non si dessero secondi. Per lo che è a dire che la fortuna amichevolmente vi tratti allorchè delle acerbissime prove onde tormenta i mortali vi risparmia le più tremende; sebbene a coloro eziandio che sono disgraziati di tanto è da provvedere con quei soccorrimenti che più tornano all'uopo: della qual cosa non hai certo bisogno tu, che non ne fosti se non lievemente percosso. Ma che cosa vi precipita infondo all'abisso, se non la dimenticanza delle proprie condizioni? e nel mentre vagheggiate col pensiero d'ascendere al sommo grado, a cui, come notai, non è dato giungere che a pochi, avvampate di sdegno se non riuscite a toccarvi. Che se poi chi aspira alla cima degli onori conoscesse tutte le miserie della grandezza, non potrebbe non rimaner compreso d'alto spavento. E ciò si prova dal testimonio di quelli che, dopo aver tanto affaticato a salire, maledicono adesso l'agevolezza onde furono assecondati i loro desideri. Il che se a tutti è palese, a te dev'essere principalmente, cui la lunga esperienza insegnò quanto dure, affannose e meschine siano le sorti degli stati eminenti. Da ciò è che nessuno si trovi contento; perché e chi conseguisce il desiderato e chi non crede d'avere giuste cagioni a lamentarsi; mentre l'uno si stima deluso, l'altro sprezzato. Tu adunque attienti al consiglio di Seneca; e, riguardandoti attorno, pensa a quanti ti precedano ed a quanti ti vengano dietro. Se ami piacere a Dio e a te stesso, non ti scordare de' molti a cui andasti innanzi; e perciò, secondo che è detto nella sovraccennata sentenza, fa di assegnarti da te quel confine oltre il quale, quand'anche potessi, non è da varcare.

Francesco

E già tanto feci che, se non mi fallisce il vedere, moderati sono i miei desideri. Ma, di mezzo ai corrotti costumi ed alla sfacciataggine di questo secolo, agli uomini della mia tempera si appone la taccia di pigri e di vili.

Agostino

E l'opinione del volgo turberà la tua pace? del volgo che non giudica mai sanamente, che mai non chiama le cose col vero loro nome? E tu, se ben rammento, un tempo non ne facevi caso.

Francesco

Nè mai ebbi in minore estimazione che adesso. Di siffatti giudizi tanto mi cale che di quello d'una mandria di zebre.

Agostino

Or via, e che altro sì ti commuove?

Francesco

Nessuno, fra tutti i miei coetanei, allettò brame più discrete delle mie; e a nessuno, siccome a me, tante difficoltà s'attraversarono a contendere il passo: ciò è che amaramente mi cruccia. E se ponessi a troppo alto segno la mira, costei che del mio e di tutti i cuori è conoscitrice invoco a testimonio. Ella, che legge nel più chiuso dei pensieri, ben vede che, per quanto la mente trascorresse tutti i gradi onde si sale, giammai non ismarrii la tranquillità dell'animo, la quale stimo doversi anteporre ad ogni bene. Perciò, giurando odio a quelle condizioni che abbondano di affannose cure, ebbi ognora a preferire la mediocrità; nè co' detti solo, ma sì ancora co' fatti m'attenni a quella sentenza d'Orazio:

L'aurea mediocrità chi lieto abbraccia,

Non del povero tetto si contrista;

Ma il livor che dell'invido è martello

Dal tranquillo suo cor cauto discaccia.

E bella mi sembra la ragione che ne soggiunge:

Più spesso il tento degli eccelsi pini

Crolla le cime; le sublimi torri

Precipitando con maggior mina

Cadono al suolo, e il fulmine de' monti

L'aerea retta sfolgora e scoscende.

Nè io mi dolsi mai del modesto mio stato.

Agostino

E che mi risponderai, ove io ti persuada che quanto stimi esser mediocre è al di sopra della tua condizione? Che, se ti mostri siccome tu da gran tempo godi, e in buon dato ne godi, di codesta tua mediocrità? che, se ti dica qualmente te la lasciassi di buon tratto dopo le spalle? onde, più che di spregio, porgi argomento a molti d'invidia.

Francesco

Fosse anche ciò vero, a me parrebbe sempre il contrario.

Agostino

E questa tua matta opinione è sorgente di tutti i tuoi mali e di quello onde principalmente ora t'affliggi. A cansare pertanto da tal Cariddi vuolsi usar forza di remi e di vele.

Francesco

Ma dove fuggirmi? a qual porto dirizzare la prora? che altro debbo io credere, se non quello che tocco con mano?

Agostino

Tu non guardi se non innanzi a te; ma se ti mirassi da tergo, ravvisando la innumerevole turba che muove dopo i tuoi passi, non che essere nelle ultime file, conosceresti di camminar nelle prime. Ma la inflessibilità eccessiva del tuo proposto ti vieta di veder tanto.

Francesco

E il feci altra fiata, e posi mente ai tanti che mi venivano dietro, senza che arrossissi della mia sorte; e a buon diritto, perché

Di tante cure il pondo odio e detesto.

Che anzi, a valermi delle frasi dello stesso Orazio, mi tocca sempre

Pendere dalla incerta ora che fugge.

Ma, ove mi si tolga di dosso questa ansietà, ho abbondevolmente di che fornire al bisognevole; e dirò con buona pace, ciò che al luogo stesso soggiunge il poeta:

Forse troppo richieggo? A me sol basta

Ciò che possiedo, e forse men. Trascorra

Così del viver mio placida l'ora,

Se lunga vita ancor m'assente il nume.

Io, sempre in sospetto dell'avvenire e incerto nell'animo, non risento alcuna dolcezza de' favori della fortuna e, come vedi, vivo, più che a me, agli altri; cosa fra tutte la più miserabile. Oh almeno trovassi riposo nella vecchiaia! e, dopo essere stato tanto trabalzato dall'onde, morissi in porto tranquillo.

Agostino

E tu adunque, tra tante migliaia d'uomini, di mezzo al turbine delle umane vicende, ravvolto nella molteplice varietà di mille e mille casi, ed in così grande incertezza dell'avvenire, tu solo, a dir breve, posto come gli altri sotto l'impero della fortuna, vorrai passartela spensieratamente? Uomo mortale, guarda bene a che aspiri; guarda a ciò che tu chiedi. In quanto poi al lamentare che fai di non aver vissuto a te stesso, servaggio piuttosto che povertà è da chiamarsi il tuo. E sebbene codesto stato sia da riputarsi molto infelice, pure, se col pensiero tu scorra alquanto per le condizioni umane, riscontrerai pochissimi cui toccasse di vivere a sè stessi. Perché coloro altresì che hanno fama di più fortunati e tennero pronte a' proprii servigii infinite genti, deggiono poi anche essi, senza badare a veglie e a fatiche, soggiacere alle altrui voglie, secondo che le loro parole ne fanno testimonianza. Ed a convincertene con un illustre esempio, io ti recherò le parole di Giulio Cesare; il quale disse con altrettanta arroganza che verità: «Il genere umano è fatto per servire a pochi.» Pure, dopo ch'ebbe costretto l'intero mondo a non vivere altro che per lui, egli viveva per gli altri. Domanderai forse per chi? Per coloro, io ti rispondo, che lo uccisero; per quel Bruto e quel Cimbro e l'altra turba di perfidi congiurati, ad empiere le cui bramose voglie non bastò la munificenza d'un sì generoso benefattore.

Francesco

Le tue parole m'hanno vinto così che più io non isdegni d'essere nè povero nè servo.

Agostino

Sdégnati piuttosto che tu non sia divenuto ancora sapiente; il che solo può conferire libertà e ricchezza. Se non che devi sapere che colui il quale con tranquillo occhio vede allontanarsi le cause e poi si lagna perché gli vengano meno gli effetti, non s'intende per nulla della natura nè di quelle nè di questi. Ma va innanzi. Oltre al detto sin qui, è forse la fralezza del tuo corpo o qualche altro segreto affanno che tanto ti macera?

Francesco

Ogniqualvolta io penso alle gravi molestie che arrecommi il mio corpo, non posso non risentirne dispetto; ma quando mi paragono cogli altri, ho da consolarmi che il mio mi si mostri a sufficienza obbediente. Ed oh potessi dire lo stesso dell'animo! ma egli vuol dominare.

Agostino

Nulla è più da desiderare se non ch'esso viva soggettò all'impero della ragione. Ma tornando al corpo, quali gravezze ti cagiona?

Francesco

Quelle soltanto che ho comuni cogli altri. Quindi è che mi tormenti co' suoi dolori, m'aggravi col peso, astringa al sonno lo spirito vigilante, e ad altre necessità m'induca l'annoverare le quali troppo lungo e noioso sarebbe.

Agostino

Non te ne piglierai tanto affanno, ove ti sovvenga d'esser nato uomo. Or pognamo che ti cessi anche questa sciagura, dimmi se ti restino altre cagioni d'amarezza.

Francesco

E non ti giunse all'orecchio la spietata crudeltà della fortuna, a me vera matrigna, la quale in un sol giorno, con uno de' suoi ingiusti rovesci in un giorno solo atterrò nel fango me con ogni mia speranza e ricchezza, ed insieme la mia famiglia e la casa?

Agostino

Io ti veggo il pianto negli occhi: perciò mi taccio. Nè intendo ora d'ammaestrarti, ma sì d'ammonirti; e tanto mi basti. Perché, se tu richiami alla mente gli sterminii, non che di private famiglie, ma di famosi regni avvenuti in tutti i secoli (e ti gioverà non poco a tale effetto leggere le antiche tragedie), avrai molto meno a dolerti che la tua famigliola abbia corso una somigliante fortuna. Or via prosegui; e ciò a cui accenno di volo ti porgerà appresso materia a più mature considerazioni.

Francesco

Ove troverò parole a significare le noie e i giornalieri fastidi della mia vita? Come non mi rattristerò all'aspetto di quell'abbiettissima e tristissima fra tutte le città della terra, fangosa sentina ove s'accoglie la schiuma di quanto ha di più scellerato nel mondo? di che voci varrommi a ridirne le molte turpitudini che commovono a nauseoso disdegno? E le strade, a modo di fogne, riboccanti di rabbiosi cani e d'immonde scrofe, e lo strepito delle ruote che rasentano le muraglie, e i cocchi che coll'attraversarsi rendono disastroso il cammino, e le diverse guise d'uomini e di sembianti? Poi l'orrido aspetto di mendichi affranti dalla miseria, e le pazze smanie dei molti ricchi nuotanti in lascive delizie, e la discordia degli animi, e le difformi arti e lo schiamazzo di tante voci confuse, e il riurtarsi e il far pressa della trafelante ciurmaglia: le quali cose tutte contristano i buoni e, togliendo la quiete agli animi generosi, interrompono lo studio delle ottime discipline. Così Dio, finchè la nave è ancora intatta, mi scampi dal naufragio! perché davvero che sovente mi guardo attorno a vedere se, vivo ancora, io sia disceso nell'inferno. Ora come mai può l'uomo, in tali condizioni, consacrarsi tutto all'amore del bene?

Va dunque e scalda a' begli estri la mente!

Agostino

Questo verso d'Orazio mi dà a conoscere ciò che più di tutto t'affligga. A te disgrada troppo il menare la vita in luoghi tanto avversi ai tuoi studi; perché, come dice lo stesso poeta,

Chi delle muse ai cari ozi s'addice,

Le città fugge e ratto si rinselva.

E tu stesso in certa epistola, comechè con altre parole, sponevi un uguale concetto:

Al cittadino rumore s'invola il vate

Cui la cheta de' boschi ombra diletta.

Credimi però che, ove s'acchetasse in te l'interna battaglia del pensiero, l'assordante frastuono delle città percuoterebbe sì i tuoi sensi, ma non già l'animo. Ma, a non ricantarti ciò che già sai, ti ricorderò solamente la lettera che in questo proposito molto opportunamente scrisse Seneca e il suo libro Sulla tranquillità dell'animo. E del pari, acciocchè risani di cotal malattia, potrai leggere quanto dettò egregiamente Cicerone nelle Tusculane, nel terzo dei trattenimenti con Bruto.

Francesco

Non ti dovrebbe essere ignoto che io lessi, e attentamente, questi libri.

Agostino

Nè ti giovarono punto?

Francesco

Moltissimo fintantochè li teneva tra mano; ma non appena li poneva in disparte, eccomi l'uomo di prima.

Agostino

Costume è questo che tu hai comune con quanti leggono. Da che ne deriva quella brutta sconcezza, che torme di letterati uomini, i quali, qui e colà errabondi, non rifiniscono mai dal disputare intorno all'arte del vivere, non sanno porre ad effetto le dottrine che insegnano. Ora, a legger bene, vuolsi che tu apponga, a certi luoghi, opportune postille.

Francesco

Di che postille mi parli?

Agostino

Quando nel leggere ti cadano sott'occhio salutari sentenze che o ti commuovano l'animo o lo correggano, non fidarti alla prontezza dell'ingegno, ma sì fa di scolpirle ne' più chiusi recessi della memoria, affinchè, dal ruminarle entro a te, ti si rendano quasi domestiche. E ne avverrà che tu, a guisa dei medici, abbi scritto come a dire nell'animo il rimedio, acconcio alla circostanza od al luogo ogniqualvolta una o altra infermità all'improvviso ti assalga. Perché a quel modo negli umani corpi, così v'ha nell'animo passioni cui se indugi a curare, ogni speranza di salute è perduta. E si danno, a cagion d'esempio, secondo che a tutti è manifesto, movimenti d'una natura subita tanto che, ove non sieno imbrigliati sull'atto dalla ragione, menano a perdizione il corpo, l'animo e tutto l'uomo, e tardo giunge qualsivoglia rimedio. Il che è a dire principalmente, dell'ira; alla quale non a torto opinarono essere sovrapposta la sede della ragione quelli che, dividendo l'anima in tre parti, dissero la ragione stanziare, a guisa di rôcca, nel capo, l'ira entro il petto, la concupiscenza nei lombi. Ed io credo che alla ragione sia assegnato tal luogo affinchè temperi i violenti assalti delle passioni che a lei soggiacciono, e di là suoni come a raccolta: all'ira altresì, in tanta vicinanza, ella mette in bocca un necessario freno.

Francesco

Ben dici! ed acciocchè ti sia chiaro che io non solo dalle scritture dei fisici, ma sì ancora dai poeti traggo utili documenti, hai a sapere che in quei versi nei quali Virgilio, descrivendo l'imperversare dei venti che, costretti entro profonde grotte, fremono dattorno alle chiostre del monte, ci pone dinanzi l'imagine di Eolo, il quale, assiso in cima d'una rôcca, ne tempera la furia, mi parve affigurata la ragione, che regge e compone in pace gli sregolati movimenti dell'animo, onde spesso sono agitati gli umani petti. D'altra guisa,

Le terre, i mari ed il profondo cielo

Dal ratto impeto lor dispersi e tratti

Foran per l'aure ciecamente a volo.

E mi sembra che quest'esempio voglia essere dichiarato così: che le terre messe sossopra dai venti ne mostrino la terrena materia del corpo; i mari, quell'umore onde sì vive; e il cielo profondo, l'anima che alberga ne' più segreti recessi. Nella quale, come altrove si esprime lo stesso poeta, risiede un igneo vigore ed un'origine celeste. Quasi che egli dicesse esservi nelle passioni una tal potenza da sterminare affatto l'anima, il corpo e tutto l'uomo; siccome per contrario dai monti e dal re che sta loro sopra venirne significata la rôcca del capo e la ragione che alberga in esso. Eccone le parole:

Nell'antro spazioso Eolo de' venti

Le lotte infrena, e delle risonanti

Procelle il furiar governa, in ceppi

Li stringe e dentro a' più segreti spechi

Prigionieri ritienli. Essi d'intorno

Alle chiuse del monte orride chiostre

Aggiransi fremendo e mugolando.

Assiso a sommo delta rôcca intanto

Eolo sta immoto e in man regge lo scettro.

Io poi, ponderando una ad una queste parole, provai entro a me un non so quale tumulto e la lotta, il rombo e il fremito delle sonanti procelle; le quali cose ben possono riferirsi all'ira. E come lessi del re che, sedendo a sommo la rupe, stende lo scettro al comando ed i ribellanti avvince in carcere ed in catene, non dubitai punto che il poeta non intendesse tutto questo della ragione. Infine, a significare più apertamente che favellava della ragione e dell' ira, la quale intorbida lo spirito, soggiunse:

« Ei ne acqueta gli spiriti e tempra l'ire. »

Agostino

Assai bene t'addentri nei segreti intendimenti della poetica narrazione, e te ne lodo. Perché, sia che Virgilio medesimo a ciò mirasse nello scrivere, sia che, lontanissimo pur dal pensarvi, non altro si proponesse che di descrivere una burrasca di mare, v'è assai di buon senno in tutto quello che dicesti intorno alla veemenza della collera ed all'impero della ragione. Ma, a ripigliare l'interrotto discorso dell'ira e dell'altre passioni, e principalmente a tener proposito di questa peste di cui parliamo, io non posso mai esortarti abbastanza affinchè t'adoperi a ritrarre da un'attenta lettura il frutto di somiglianti pensieri. Apponi, come dissi, alle utili sentenze certi segni, che ti giovino come d'uncini onde rattener la memoria, ed anche questa ti varrà quale una buona guardia contro ogni sorta di nemici, particolarmente la tristezza; la quale aduggiando della sua mortifera ombra i semi della virtù e i frutti dell'ingegno, li mena a morte. «In essa, dice elegantemente Tullio, avvi il fonte e il capo d'ogni miseria. » E lasciando anche stare che non v'è uomo il quale non abbia molte cagioni di piangere, e che la memoria delle tue colpe a buon diritto ti rende mesto, la qual maniera di tristezza, purchè non s'ammogli alla disperazione, è la sola che torni a salute; dovrai confessare che, ove ti faccia ad esaminare minutamente te stesso, conoscerai siccome la divina provvidenza, pur tra la turba de' dolorosi e degli afflitti, ti desse non una sola gioia e conforto. Che se poi ti duoli e di non esser vissuto a te stesso e dell'increscevole tumulto cittadino, ristora l'abbattuto tuo spirito col richiamarti al pensiero che questo lamento ti è comune con uomini sommi e che altri non hai da incolpare che te medesimo, se i tuoi passi vanno smarriti per cosiffatti labirinti; dai quali però t'è libera l'uscita ove prima t'aggradi. E molto eziandio ti gioverà a tale effetto l'avvezzare l'orecchio ai clamori del volgo, il cui frastuono ti parrà siccome rumore d'acque precipitanti dall'alto. Fa adunque, come altra volta ti dissi, d'attutare i tumulti che ti fanno guerra da dentro, e n'andrà in dileguo ogni tristezza; perché indarno è ottenebrato da peregrine nubi o assordato dal rombare del tuono un cuore tranquillo. Allora, non diverso da chi guarda dal porto l'altrui naufragio e ode le voci di soccorso dei pericolanti tra i flutti, tranquillo volgerai intorno lo sguardo, e quanto maggior pietà si desterà nell'animo al triste aspetto delle sciagure altrui, e tanto maggior compiacenza ti verrà dal sentirti sicuro. Così adoperando, riavrai, siccome spero, la pace del cuore.

Francesco

Sebbene molte lusinghevoli cose tu mi sia venuto dicendo, fra cui sopra ogni altra mi piace la facilità con che giudichi essermi lecito d'abbandonar la città; pur tutta volta, dacchè con parecchi argomenti mi hai persuaso, prima che tu mi sconfigga del tutto, amo meglio di deporre qui le armi.

Agostino

Or su via, bandisci una volta siffatte malinconie e tornatene in pace colla tua fortuna.

Francesco

Certo sì; ove pure codesta fortuna sia qualche cosa. Giacchè, come t'è noto, tra il greco e il latino poeta s'agita intorno a lei una gran lite; a tal che, sdegnando quegli di non mai nominare nelle sue opere la fortuna, come se punto non esistesse, questo nostro più volte ne fa menzione, invocandola anche quale onnipotente; ed alla opinione di lui aggiunge autorità un nobile storico ed egregio oratore. E di vero Crispo Sallustio afferma in ogni evento aver dominio la fortuna, e Tullio non istette in forse di chiamarla signora delle umane cose. Di che avviso poi io mi sia, dirollo ad altro tempo e luogo; ma in quanto ha riguardo al nostro proposito, di tanto mi valsero le tue ammonizioni che, ov'io mi confronti colla maggior parte degli uomini, non so più stimarmi tanto infelice.

Agostino

M'è dolce il farti bene in alcuna parte, e sì il vorrei in tutte. Ma posciachè il nostro discorso si allungò oltremisura, rimetteremo al terzo giorno la trattazione di quanto ne resta. E così daremo fine.

Francesco

Ed io da questo numero ternario traggo buon augurio; non tanto perché tre sieno le Grazie quanto perché sommamente piace alla Divinità. Il che è chiaro sì a coloro che, professando la nostra religione, pongono nella Trinità ogni loro speranza, sì ancora ai filosofi gentili, che nelle feste religiose de' numi lo riguardavano siccome sacro. E sembra che a ciò mirasse il mio Virgilio là dove dice:

Al nume il disugual numero piace.

E ch'egli parlasse del ternario, è dimostrato dagli antecedenti. Aspetto pertanto che la tua bontà metta il colmo a questa triparita fatica.

 

EXPLICIT LIBER SECUNDUS