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renato corti: lettera pastorale 2003-2004 "un giovane diventa cristiano"

 sant'Ambrogio in un dipinto di Michael Pacher

Michael Pacher: sant'Ambrogio

 

 

 

AMBROGIO

"Mi accolse in modo paterno"

 

 

Il primo volto che vorrei ricordare è quello di un vescovo. Si chiamava Ambrogio. Era nato a Treviri, un'altra delle capitali dell'impero romano, attorno al 334. Era poi cresciuto a Roma e aveva fatto carriera come magistrato. Verso il 370 divenne governatore della Liguria-Emilia con sede a Milano. Alla morte del vescovo Aussenzio, che era ariano, Ambrogio acclamato dal popolo, ne divenne il successore. Non era ancora battezzato e ricevette questo sacramento il 30 novembre 374. Pochi giorni dopo, il 7 dicembre, venne consacrato vescovo. Morì il sabato santo del 397.

 

 

1. QUALE RELAZIONE TRA AMBROGIO E AGOSTINO?

 

Tra Agostino e Ambrogio, pur così diversi per storia personale, studi compiuti, responsabilità portate (e anche per età), si stabilì una relazione significativa.

Ciò che maggiormente colpiva Agostino nella figura di quel vescovo era la ricchezza di nutrimento che offriva al popolo cristiano. Agostino vi coglieva forza e bellezza, gioia e consolazione, addirittura una sobria ebbrezza: quella donata dallo Spirito Santo e dalla partecipazione al sangue di Cristo nell'Eucaristia. Scrive infatti: «Andai a Milano, dal vescovo Ambrogio, personaggio stimato tra i migliori del tempo e tuo servo devoto, la cui eloquenza dispensava con forza al tuo popolo il fiore del tuo frumento, la gioia dell'olio e la sobria ebbrezza del tuo vino». [1]

Forse possiamo rimanere sorpresi dal linguaggio qui usato da Agostino. Sono termini che paiono lontani. Ma va ricordato che sono tutti termini biblici ricorrenti nei Salmi e nei Profeti. Tutto il libro de Le Confessioni è un intarsio di testi ricavati dalle Sacre Scritture, non sempre esplicitamente citati. Va pure tenuto presente che Agostino scrive il racconto qualche anno dopo essere diventato cristiano. Ha perciò oramai la capacità di recuperare e di assumere come linguaggio proprio quello biblico per indicare le ricchezze di luce, di profondità e di gioia che, in quegli anni, Ambrogio comunicava al popolo spiegando le Sacre Scritture.

 

La delicatezza del vescovo e l'affetto del giovane

La loro relazione è stata incoraggiata dall'accoglienza cordiale riservata da Ambrogio a questo giovane: «Quell'uomo di Dio mi accolse in modo paterno e, con una benevolenza degna di un vescovo, si rallegrò della mia venuta. Cominciai ad amarlo, ma non subito come maestro di quella verità che non speravo proprio di trovare nella tua Chiesa, ma come uomo che aveva avuto delle delicatezze per me». [2]

Da parte di Agostino la relazione diventa soprattutto coltivazione dell'ascolto: «Stavo tutto assorto ad ascoltarlo quando istruiva il popolo, non però con l'intenzione che avrei dovuto avere, ma quasi per verificare se la sua eloquenza era pari alla fama, oppure se era superiore o inferiore a quanto si andava dicendo. Rimanevo incantato dalle sue parole; ascoltavo invece i contenuti con indifferenza e senza interesse; mi piaceva molto il suo modo di parlare così dolce. […] Se non che la salvezza è lontana dai peccatori, ed io ero uno di questi, allora. Ma lentamente, senza saperlo, mi stavo avvicinando ad essa». [3]

 

Dalla forma ai contenuti

E infatti, all'interno di questa relazione e di questo ascolto, si avvia un lento cammino verso la fede: «Per quanto non badassi ad apprendere le cose che diceva, ma solo ad ascoltare come le diceva (era questo l'unico vano interesse che mi era rimasto dopo che avevo perso la speranza di vedere aprirsi per l'uomo una via verso di te), mi scendevano nell'anima, assieme alle parole che amavo, anche i contenuti a cui non davo alcuna importanza. Non riuscivo più, infatti, a separare le une dagli altri. Così, nel cuore che si apriva ad accogliere l'eloquenza della sua parola, cominciava ad insinuarsi, sia pure lentamente, anche la verità della sua parola». [4]

 

La guida vera di Agostino

Protagonista di questo pellegrinaggio interiore rimaneva Dio stesso: «Senza che lo sapessi, eri tu a guidarmi da lui, perché attraverso di lui, sapendolo, fossi guidato da te». [5]

Solo lentamente il cammino spirituale di Agostino si svilupperà. Il primo passo diventa quello di dubitare delle sue certezze di prima e poi di aprirsi, piano piano, alla fede cristiana: «Se la fede cattolica non mi appariva più vinta, mi sembrava però che non fosse ancora vincitrice". [6] Da qui la sua risoluzione: "Decisi di restare catecumeno nella Chiesa cattolica, alla quale mi avevano educato i miei genitori, fino al momento in cui una luce non mi avesse indicato qualcosa di certo verso cui orientare i miei passi». [7]

Appaiono da queste parole due tratti dell'esperienza agostiniana. Il primo è che il cammino di conversione può essere, per i giovani di oggi come già per lui, bisognoso di molto tempo per una sufficiente chiarificazione interiore. Il secondo è la rilevanza di una sincera disponibilità a perseverare nella ricerca della verità, a costo di lasciarsi mettere profondamente in questione.

 

 

MI SENTO CHIAMATO IN CAUSA

 

La relazione tra Ambrogio e Agostino mi chiama in causa direttamente. Mi spinge a considerare se, nel mio modo di esercitare il ministero, io riesca a riconoscere alcuni tratti del suo stile di lavoro.

 

Il ministero della parola

Un primo punto riguarda la sostanza (o i contenuti) della predicazione di Ambrogio. Egli - si potrebbe dire - non faceva altro che spiegare le Sacre Scritture dell'Antico e del Nuovo Testamento. Non diceva parole sue, meditava la Parola di Dio e a quella dava voce.

C'è un documento importante del Concilio Vaticano II a cui ripenso in questo momento: la costituzione Dei Verbum. Nel 2002 vi abbiamo dedicato la "Tre Giorni" di formazione permanente teologica dei sacerdoti. Mi domando se gli inviti illustrati in quel testo siano diventati effettivamente normativi per tutti noi cristiani, e anzitutto per me, vescovo, e per i sacerdoti. O se non succeda di essere rimasti ancora al di qua perché, in realtà, la Parola di Dio non è il nostro nutrimento quotidiano, né il pane che offriamo costantemente al popolo cristiano, giovani compresi.

Appena arrivato in questa nostra cara diocesi mi sono sentito fortemente sospinto a mettermi sulla strada di Ambrogio, anche perché venivo dall'aver vissuto per undici anni con un suo successore, il card. Martini. Per ben ventidue anni, egli si è fatto assiduo predicatore della Parola di Dio a Milano. Per parte mia, vorrei sostenere in particolare l'esperienza dell'incontro, da parte dei giovani, con "Dio che parla" perché giungano a dare risposta a Lui. Ma vorrei tanto che questa mia persuasione fosse da tutti condivisa.

 

Nella predicazione di Ambrogio non è secondaria nemmeno la forma del suo dire. Parlava bene. Era affascinante. Agostino incominciò ad andare ad ascoltarlo, lui che era un professore di eloquenza, proprio perché correva voce che Ambrogio fosse uno straordinario parlatore. Il motivo era discutibile, ma che Ambrogio parlasse in modo limpido e accattivante era di grande giovamento per tutti, dai più semplici, come la madre di Agostino, alle persone dotte e raffinate, come Agostino stesso.

Certo, nemmeno oggi si dovrebbe andare in Chiesa per ascoltare l'omelia di un sacerdote piuttosto di un altro perché "quello parla bene". Ma l'impegno di fare della predicazione un luogo ricco di interesse dovrebbe diventare un sacrosanto puntiglio per me e per tutti i sacerdoti. Ciò richiede disciplina nel lavoro di preparazione, autocontrollo mentre si espone l'insegnamento del Signore, sguardo negli occhi degli ascoltatori, con il desiderio che succeda quel che avvenne quando l'apostolo Pietro predicò sulla piazza di Gerusalemme. Si legge nel libro degli Atti che quelle persone «si sentirono trafiggere il cuore» (At 2,37).

 

Cor ad cor loquitur

C'è anche un altro aspetto che mi interpella quando medito sulla figura del vescovo Ambrogio. È ciò che Agostino dice di lui quanto alla relazione personale che ha potuto instaurare. Non è che siano stati frequenti i colloqui fra i due. Anzi, sono stati piuttosto rari. Ambrogio era assediato ogni giorno, come scrive lo stesso Agostino, da molte persone che cercavano di parlare con lui per le più disparate questioni. [8] Non è escluso nemmeno che Ambrogio non si sentisse del tutto a proprio agio nel trattare con un giovane intellettuale, molto problematico e certamente non facile da guidare. Agostino tuttavia è colpito dalla benevolenza di Ambrogio nei suoi confronti, e anzi dalla sua delicatezza. Trova peraltro normale che egli testimoni questo atteggiamento: gli sembra quello più appropriato per un vescovo.

Questi particolari mi fanno ripensare al motto episcopale che ho scelto prendendolo dal card. J.H. Newman: Cor ad cor loquitur. La direzione nella quale queste parole mi spingono è evidente. Confesso che quando le ho scelte le ho intese soprattutto come un proposito. È così anche adesso. Ciò che in questo ambito dovrei fare è molto di più. Mentre chiedo scusa di tutte le lacune da me mostrate in questi anni a tale riguardo, riaffermo che la prospettiva mi affascina e che rinnovo pubblicamente per il futuro il proposito fatto in passato.

 

È Dio che fa crescere

C'è infine ancora un aspetto importantissimo che Agostino sperimenta nel contatto con Ambrogio. È un fatto paradossale. Per un verso, infatti, Ambrogio ha certamente un peso specifico notevole in rapporto alla sua conversione. Nel medesimo tempo, però, egli comprende sempre più che, dietro ad Ambrogio e attraverso di lui, chi sta bussando alla porta della sua vita è Dio.

Lo diceva già l'apostolo Paolo ai Corinti quando, in presenza delle divisioni nella comunità perché alcuni si dicevano del gruppo di Cefa, altri di Paolo, altri di Apollo, li rimproverò duramente ricordando loro che lui, Apollo e gli altri, erano soltanto servitori di Dio e che il loro grande onore era quello di collaborare con Dio, e non certo di sostituirsi a lui o di farne a meno. Diceva infatti: «Ma che cosa è mai Apollo? Cosa è Paolo? Ministri attraverso i quali siete venuti alla fede e ciascuno secondo che il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere» (1 Cor 3,5-6).

Queste parole di Paolo risuonano forti anche per me. Altrettanto spero che vengano percepite da tutti i sacerdoti. Noi siamo preziosi e, nel medesimo tempo, rimaniamo servi inutili. Il Regno di Dio, che noi siamo chiamati ad annunciare, non solo è "di Dio", ma (anche e prima) è "da Dio": lui ne è l'unico possibile protagonista. Il Regno di Dio annunciato da Gesù, generato nel grembo di Maria per opera dello Spirito Santo, introduce infatti nella sua stessa condizione filiale. Solo su questo fondamento diventa possibile chiamare Dio, con verità, "Abbà, Padre".

La conseguenza semplice che deriva da questo modo di vedere il ministero del vescovo e del sacerdote, è di considerare decisivo in tutto il nostro lavoro il "discernimento spirituale". Esso va esercitato ogni giorno. E ciò avviene effettivamente quando noi affrontiamo ogni incontro e ci dedichiamo ad ogni attività emergendo dalle profondità del dialogo e della comunione con il Signore, per poi immergerci di nuovo nelle acque di Dio.

 

 

[1] Conf., V, 13.23. Utilizzo, con qualche variazione, la traduzione di G. Vigini in SANT'AGOSTINO, Le Confessioni, a cura di G. Vigini, Milano 2001(Spiritualità Maestri, 51). I passi de Le Confessioni sono citati senza riferimento alle pagine di tale edizione, ma secondo la partizione dell'opera e in forma abbreviata (Conf.) cui segue l'indicazione dei libri e dei paragrafi.

Tutto il testo de Le Confessioni, scritto dieci anni dopo la conversione e il battesimo, ha la forma della preghiera. Molte delle citazioni che verranno fatte vanno intese proprio così.

[2] Conf., V, 13.23.

[3] Conf., V, 13.23.

[4] Conf., V, 14.24.

[5] Conf., V, 13.23.

[6] Conf., V, 14,24.

[7] Conf., V, 14.25.

[8] Cfr. Conf., VI, 3.3.