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Giulio Belotti: L'educazione in sant'Agostino

 Milano: Agostino illuminato dalla grazia divina

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Capitolo 2

L'EDUCATORE - I CASTIGHI

di Giulio Belotti

 

 

"In scholam datus sunt ut discerem

litteras, in quibus quid utilitatis esset

ignorabam, miser... "

(Conf. Liber I, Caput IX, 14)  

"In scholam datus sum ...": Agostino poteva avere allora sette anni, età nella quale, comunemente, le scuole dei Romani ammettevano i fanciulli alla scuola elementare.

 

 

ASPETTI FONDAMENTALI DELL'EDUCAZIONE PAGANA

Ben poco si sa dell'educazione pre-cristiana in genere e, quasi nulla, dell'educazione primaria, all'infuori del riconoscimento da parte di Platone (PLATONE, Leg. VII, 809), di Quintiliano (QUINTILIANO, Inst. or. I, 1035) di Sant'Agostino (Confess. I, 13) della sua necessità. Scrive Hans von Schubert: "Speciale sorgente d'errore è il dare alle considerazioni teoriche di Platone e di Aristotele, di Plutarco e di Quintiliano, nonché dei Padri della Chiesa, il posto che spetterebbe invece alla rappresentazione delle condizioni reali." (E con ciò lamenta la troppa facilità con la quale "le nostre storie della pedagogia, ove non vogliano allentare la briglia alla fantasia, arieggino più a raccolte di notizie che ad esposizioni sistematica ... e convoglino una quantità di materiali scarsamente attestati"). Per questo anche quel poco che ci è stato tramandato dai pedagogisti, non può essere accettato che con riserva e con cautela. Oggi, e a ragione, non si fa più alcuna distinzione fra educazione e istruzione (A. GAMBARO, Asili infantili, Dispense a.a. 1944-1945), perché qualunque sapere che viene dato all'alunno, producendo necessariamente in lui una modificazione d'ordine spirituale, lo educa. Ma se questo è sicuramente vero per l'educazione come oggi viene impartita, potremo dire altrettanto dell'educazione pagana, della quale ci parla Sant'Agostino? Come si vedrà, essa si riduceva piuttosto [26] a mera informazione intellettuale, diseducando, per il resto, l'alunno, anziché educarlo.

"A che mi valsero - sono sue parole - o mia vera vita, o mio Dio, quelle acclamazioni che riscotevo quando recitavo, più dei miei coetanei e condiscepoli? Ecco, non è stato tutto fumo e vento? Non v'era proprio altro campo, in cui esercitare il mio ingegno e la mia lingua? .." e, dopo aver parlato di "vuote ciance", conclude che "non v' è una maniera sola di far sacrificio di se stessi agli angeli ribelli" (Confess., L. I, cap. XVII (27) pag. 31 Tescari). Ancora lo Schubert lamenta a questo proposito che non si fa "la debita distinzione tra i concetti di educazione (Erziehung) e formazione intellettuale (Bildung) e rispettivamente insegnamento e tra l'educazione domestica e la formazione scolastica" (HANS VON SCHUBERT, Istruz. ed educaz. alle origini del Cristianesimo, traduz. di Sanna, pag. 3). Ciò che è sicuro, perché attestatoci da Sant'Agostino (Confess. I, 9, 14) è che già allora s'insegnava a leggere e a scrivere, perché, avendo gli uomini riconosciuta la necessità di distinguere "omnibus oris ac linguae fonis", la ragione inventò le lettere e "vidit esse imponenda rebus vocabula, id est significantes quosdam sonos", come pure di fissare, attraverso i numeri, un certo limite alle cose. "Quibus duobus repertis, nata est illa librariorum et calculorum professio, velut quaedam grammaticae infantia, quam Varro litterationem vocat" (De Ordine, II, 12 35), che era insegnata da un "litterator" o "grammatistes" e che Sant'Agostino frequentò appunto dai 7 ai 12 anni (Per l'ordine degli studi di grammatica e di retorica vedasi la terza parte del presente lavoro) per imparare la lettura, la scrittura e il calcolo scritto.

Ellenizzandosi Roma, come vuole Orazio ("Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio") o, meglio, romanizzandosi la grecità, i romani dal secolo II in poi avevano anche una scuola del tutto simile a quella ellenistica. La famiglia è la prima scuola per il fanciullo, il tempio in cui si venera come un dio il focolare, nella quale il padre esercita la massima autorità e la madre rappresenta l'esempio della virtù. Per la maggior parte dei cittadini v'erano scuole pubbliche, e pochi erano i fanciulli che, per essere di grande casato, non le frequentavano. Per questi pochi - dice Plinio - i loro padri dovevano servire loro da maestri: "suus cuique parens pro magistero". Ma rari erano i padri sul tipo di Catone il quale, per istruire suo figlio, gli preparò addirittura un'enciclopedia [27] delle scienze. Di solito, invece, comperavano uno schiavo, al quale davano l'incarico di far scuola. Purtroppo, l'autorità del pedagogo - così era chiamato quello schiavo - era assai limitata nei confronti dell'educando, se dobbiamo credere a quanto narra Plauto (PLAUTO, Bacch. I, 2). Egli rappresenta un giovane viziato, di nome Pistoclero, che vuol trascinare il suo pedagogo, Lido, dalla sua padrona. Lido resiste, protesta, ma, quando ha ben parlato, il suo scolaro si contenta di dire: "Vediamo, sono io il tuo schiavo, o tu il mio?". E Lido, che non può obiettare nulla, lo segue, imprecando (BOISSIER, La fin da paganisme, pag. 186). Senonché, anche la borghesia agiata e la plebe industriosa vuole istruirsi, ed ecco nascere le scuole pubbliche. Di esse, però, come s'è detto, gli storici ci danno assai scarse notizie. Dalla famiglia, alla scuola. Accompagnato dallo schiavo, il fanciullo assiste alle lezioni dei "pedagoghi" che siedono al centro dell'aula, avendo ai lati gli scolari più giovani separati da quelli di maggior età. Conviene subito osservare che l'organismo scolastico, essendo nei suoi primordi, lasciava molto a desiderare.

Quintiliano nelle sue Istituzioni Oratorie (QUINTILIANO, Inst. Orat. I, 2, 1), dopo aver detto pro e contro l'insegnamento privato e quello pubblico, si dichiara in favore di quest'ultimo. Il Boissier (BOISSIER. op. cit., pag. 18) osserva ch'egli però non ha voluto dir tutto, e soprattutto non ha messo in evidenza il pericolo che tale insegnamento presenta di soffocare l'originalità dello spirito con l'imporre agli alunni gli stessi esercizi, da parte degli stessi insegnanti, sottomettendo gli animi ad una disciplina troppo uniforme. E non aveva torto, perché da questo soffocamento dell'originalità, dovevano poi derivare scrittori monotoni e pesanti. D'altro canto riconosce che una ragione, diremmo così d'ordine morale e sociale insieme, depone a favore dell'insegnamento pubblico: l'accomunare ricchi e poveri nella stessa scuola, attenua il contrasto, sempre doloroso per chi non è stato favorito dalla fortuna, accorcia le distanze fra il ceto povero e quello benestante; infine, giova a mettere a contatto i futuri reggitori della cosa pubblica con il popolo, per abituarli a comprenderlo. Dal contrasto delle idee, dall'osservazione dello stato di vita degli umili, l'animo del fanciullo di famiglia nobile sarà portato a riconoscere il disagio di chi soffre la povertà, per cui egli modificherà le sue idee e non vedrà più come [28] nemici coloro che non la pensano come lui, ma sopporterà di essere contraddetto, capirà che il parere di molti è migliore di quello d'uno solo: insomma se la scuola può formare l'oratore, la scuola pubblica può formare il cittadino, fine, questo, certamente superiore a quello. Queste ragioni non venivano che a suffragare, però, un'esigenza di carattere pratico ed economico, oltre che morale.

Quando l'educazione volle l'insegnamento della grammatica e della retorica, anche gli aristocratici si trovarono in difficoltà a sopportare la spesa d'un professore specializzato; e questi, a sua volta, ritenne più utile e vantaggioso riunire più alunni, onde trarre dall'insegnamento un guadagno sufficiente a vivere. E nacque così la scuola pubblica. Diremo fra poco com'essa era ordinata: per ora limitiamoci ad osservare che anche le scuole pubbliche erano spesso istituite da privati cittadini senza contributi statali: tutt'al più lo Stato le esentava dal pagamento di tasse. Gli insegnamenti non avevano alcun riconoscimento giuridico, per cui non erano garantiti di rimunerazione sicura, e ciò per ogni ordine di scuole. Sant'Agostino stesso ha modo di dimostrarcelo, per sua personale esperienza, nel quinto Libro delle Confessioni, quando, insegnante di retorica a Roma si accorse che, se gli scolari di Cartagine erano molto indisciplinati e sempre pronti a tafferugli, quelli romani "ne mercedem magistro reddant, conspirant ..., transferunt se ad alium, desertores fidei, quibus prae pecuniae charitate justitia vilis est" (Confess. V, 12, 22). "Aveva aperto una scuola di retorica e non gli mancavano gli scolari - scrive il Papini nel suo Sant'Agostino - ma non andò molto che s'accorse di aver fuggito un malanno per incappare in un altro, forse peggiore. A Cartagine gli studenti erano teppisti, a Roma erano ladri" (G. PAPINI, Sant'Agostino, seconda edizione, pag. 101).

Ma vediamo di precisare meglio, dando uno sguardo rapido e panoramico alla scuola nascente in Roma, non solo per una doverosa impostazione del problema dell'educazione da un punto di vista storico, ma soprattutto per vedere poi come hanno potuto mescolarsi le idee pagane con quelle cristiane fatto, questo, provvidenziale, che ci permette di possedere oggi quanto di meglio vi era nel mondo antico. "Omnes idolatria obstetrice nascuntur" dice Tertulliano nel De Anima (TERTULLIANO, De Anima, 39): la vita pubblica e privata, e quindi anche l'educazione si attua in un ambiente pregno di idolatria. "Ed è senza dubbio [29] quest'educazione che ha fatto entrare il paganesimo nel cuore dei giovani cristiani delle classi colte, e di là, senza ch'essi se ne siano accorti, nel loro modo di concepire e di esprimere le loro credenze religiose". Così afferma il Boissier (BOISSIER, op. cit., Tomo I, pag. 172). Questo sistema d'educazione influirà grandemente sul cristianesimo, e a tal punto s'afferma, che questi, non potendolo vincere, si rassegnerà a subirlo. Scuole a Roma ve ne dovettero essere, perché i giovanetti che potevano avere un pedagogo - lo abbiamo già detto - non potevano esser molti; tutti gli altri frequentavano le scuole pubbliche, che erano comuni ai due sessi. Nelle Floride di Apuleio si legge questo passo: "Dans un repas, la première coupe est pour la soif, la seconde pour la joie, la troisième pour la volupté, la quatrième pour la folie. Au contraire dans les festins des Muses, plus on nous sert à boire, plus notre âme gagne en sagesse et en raison: la première coupe nous est versée par le "litterator" (celui qui nous apprend à lire), elle commence à polir la rudesse de notre esprit; puis vient le grammarien, qui nous orne de connaissances variées; enfin le rhéteur nous met dans la main l'arme de l'éloquence » (APULEIO, Floride, 20). Non era, questa, la migliore educazione; né la più adatta per formare un filosofo. Si preoccupava invece di fare degli uomini di azione (i Romani sono sempre stati uomini pratici), e in più, aveva il vantaggio di farli presto.

A 20 anni l'uomo che, seguendo il motto di Cicerone, aveva avuto per scuola il foro e per maestra l'esperienza, che aveva assistito a qualche battaglia e ascoltato grandi oratori, era maturo per la vita pubblica. Così ci fa sapere il Boissier. A noi, per ora, interessa particolarmente precisare le caratteristiche fondamentali del primo grado soltanto di questi studi: e cioè l'educazione popolare e primaria. Popolare perché un po' tutti la frequentavano - gli altri due gradi essendo riservati a coloro che avevano le necessarie possibilità economiche -, primaria in quanto non era preceduta da alcun'altra scuola. La legge proibiva ai maestri di dirsi professori e li proteggeva, esigendo dai governatori delle province che non fossero loro applicate tasse, per un dovere d'umanità, tanto erano poveri. Essi facevano scuola sotto dei portici che venivano chiamati "pergulae"; tiravano delle tende perché gli alunni non vedessero i passanti ma non riuscivano ad impedire che questi sentissero l'odiosa cantatio - come la definisce Sant' Agostino - dell'uno [29] e uno fanno due, due e due fanno quattro (Confess. I, 13, 20, pag. 23, Tescan). L'arredamento era assai modesto; la più parte delle classi era dotata solo di banchi e della sedia per il maestro; alcune possedevano anche sfere e cubi per lo studio della geometria; nelle più ricche, infine, si potevano vedere carte geografiche appese alle pareti. Un affresco rinvenuto a Pompei e attualmente in dotazione al Museo di Napoli, ci dà un quadro della scuola del tempo di Traiano e Marc'Aurelio: il portico è sorretto da eleganti colonne infiorate; la scuola è all'aperto, e gli scolari possono osservare i passanti. Essi portano indosso una lunga tunica, sul capo hanno capelli lunghi e tengono sulle ginocchia il libro. Il maestro è un uomo dall'aspetto autorevole e grave, con una lunga barba.

Vi si nota anche - e questo soprattutto c'interessa -, una di quelle scene che erano all'ordine del giorno anche nella scuola frequentata da Sant'Agostino. Uno scolaro, spogliato completamente delle vesti e recante soltanto una cintura a metà corpo, sta sul dorso d'un suo compagno, mentre altri scolari gli tengono strette mani e piedi perché non si muova e infine il maestro che alza la verga per percuoterlo. Questo metodo di punizione persisterà fino alla fine dell'Impero, per quanto Quintiliano fosse insorto contro di esso (QUINTILIANO, I, 3, 13) dichiarandolo ripugnante e contrario al senso morale. Ma di questo riparleremo in seguito. Torniamo a Sant'Agostino. Fui mandato a scuola - egli ci dice - affinché imparassi le lettere "in quibus quid utilitatis esset, ignorabam ..." (Confess. I, 9, 14, pag. 16, Tescari). Già! Non poteva spiegarsi quale vera utilità gliene derivasse. Ecco un altro aspetto negativo, forse il fondamentale, di quella educazione: la mancanza di un fine, e, soprattutto, d'un fine morale. Il che ci porta a concludere che non diversi da quelli che Sant'Agostino ci descrive potevano essere i metodi usati dai pedagoghi, e inevitabili le conseguenze morali d'una siffatta "educazione". Conseguenze morali e materiali insieme. Ché, come non v'era una legge che riconoscesse l'opera dell'insegnante, così non v'era un programma preciso di studi al quale egli dovesse attenersi; e alla libertà del maestro corrispondeva una libertà - seppur diversa - da parte dell'alunno, d'andare o non andare a scuola, non essendo prescritto alcun obbligo scolastico. In questa scuola pagana non trovava posto l'insegnamento di una religione e soltanto il [30] Vescovo d'Ippona porrà al primo posto questa disciplina che è in così stretto rapporto con l'educazione del carattere e la formazione della personalità. Per forza la scuola non riusciva a dominare i discepoli, come aveva dovuto purtroppo esperimentare il nostro professore di retorica! Non possedeva questo intimo potere né avrebbe potuto del resto esercitarlo su degli spiriti impreparati a comprenderlo e incapaci d'esserne scossi, perché insensibili allo stimolo morale, stimolo che non giungeva ad essi mai direttamente e solo rare volte, attraverso semmai a qualche nobile pensiero, letto qua e là, negli autori classici. "E che cosa - afferma Seneca - l'enumerazione delle sillabe e la prosodia, le storielle e gli avvolgimenti oratori hanno di comune con la forza di vincere la paura, di contenere gli appetiti e di aprire la strada alla virtù?" (SENECA, Epist., 88, 3)

 

 

I CASTIGHI

Era necessario, quindi ricorrere ai castighi materiali. E quali castighi!

Leggendo le "Satire" di Orazio (ORAZIO, Satire I, 3, 119) sappiamo che i "pedagoghi" usavano una verga detta "ferula", ricorrevano alla tortura e battevano sulle spalle; fra i neoterici, nella storia della letteratura latina (TERZAGHI, op. cit., vol. I, pag. 239) troviamo un Furio Bibaculo che prende di mira i maestri di scuola e all'indirizzo di Orbilio Pupillo da Benevento, "colui che faceva imparare gli autori a suon di nerbate", lancia un frizzo: "dov'è Orbilio, oblio delle lettere?". La costrizione, la minaccia continua di severi castighi, finiva col togliere anche al giovane Agostino il piacere di ciò che ascoltava. Eppure, non sempre gli si faceva imparare l'odiosa canzone, uno più uno fa due. "Cur ego graecam etiam grammaticam oderam talia cantantem? Nam et Homerus peritus texere tales fabellas et dulcissime vanus est, et mihi tamen amarus erat puero » (Confess. L. I, 14, 23 a). Si capisce. Quando l'ambiente non è sereno, quando incombe minacciosa ad ogni istante la "ferula", non si può attendere con animo tranquillo allo sforzo intellettuale, col quale rientrare in se stessi per scoprire la Verità. Allora, anziché aiuto e provvidenziale stimolo, l'educatore diventa per lo scolaro un freno, un ostacolo al libero effettuarsi della possibilità educativa, o meglio, autoeducativa. Ed a ragione Agostino osserva "Credo etiam graecis pueris Virgilius ita sit, cum eum sic [31] discere coguntur, ut ego illum" (Confess. L. I, 14, 23 b). Da fine psicologo qual è, il Nostro acutamente precisa che la costrizione arresta, blocca questa possibilità d'apprendere, tanto se la materia è facile, quanto se la materia è difficile. Anche per gli scolari greci, se costretti, torna difficile imparare.

Eppure, osserva più oltre: "nam et latina aliquando infans utique nulla noveram; et tamen advertendo didici sine ullo metu atque cruciatu" perché al posto della ferula, v'erano le "blandimenta nutricum, et joca arridentium et laetitias adludentium". Carezze, scherzi, sorrisi, feste, giochi. Così imparò a parlare; senza la minaccia dei castighi, senza percosse. E questo lavoro difficile, duro, ma lieto e sereno "aiutò il mio cuore a partorire i suoi concetti" (Confessioni, 1, 14). Sant'Agostino, anticipando l'ammonimento del Lambruschini "l'autorità sui cuori ci è consentita, la non si estorce; e chi la pretende non la ottiene" (R. LAMBRUSCHINI, Dell'Educazione, ediz. citata, pag. 118), affermava qui implicitamente il fondamentale errore dell'educazione pagana che toglieva al discepolo la libertà, e lo faceva in un tempo in cui, come ci ha tramandato Temistio "gli insegnanti misuravano i colpi secondo la capacità di pagare degli uditori" (TEMISTIO, Or. XXI, pag. 261 C.)

"Hinc satis elucet majorem habere vim ad dicenda ista liberam curiositatem, quam meticulosam necessitatem" (Confesso I, 14, 23 b). Ma allora, ci chiediamo noi, Sant'Agostino esclude l'utilità del castigo corporale? Affatto. Alla fine del dodicesimo capitolo del primo libro delle Confessioni leggiamo: "Così tu facevi il mio bene valendoti dell'opera di coloro che non operavano bene, e davi a me stesso la giusta retribuzione dei miei peccati. Ché tu comandasti, e così è, che sia castigo a se stessa ogni anima disordinata" (Confess. I, 12 (19), trad. Tescari, pag. 22). Il male trova la sua prima condanna da parte della coscienza, la quale, mediante il rimorso vede la sua colpa e ne soffre. Colui che pecca, condanna se stesso alla sofferenza, perché peccare significa rinunciare alla felicità. Da questo punto di vista, il peccato si può dire sia nello stesso tempo colpa e pena (De Genesi ad Litt. 8, 13 (44): «nam in se ipsis malae voluntates habent interiorem penam suam, eamque ipsam iniquitatem suam») perché Sant'Agostino identifica moralità e felicità, perché ciò che ci rende buoni, ci fa anche felici (Cfr. BOYER, De fundamento moralitatis secundum S. A.). Dio è [33] il solo essere che può farci felici: «Hoc est enim gaudium de te, qui Veritas es» (Confess., 13, 8, 9). Eppure in molti casi - e fu così anche per il nostro Santo - il pentimento è improduttivo, il rimorso inefficace, l'amarezza del cuore, l'insoddisfazione e l'infelicità, non hanno per lungo tempo la forza sufficiente per trarre l'uomo caduto nell'errore "dal pelago alla riva" come direbbe Dante. E chi più di Sant'Agostino può darcene la prova?

Chi più di lui ha sofferto il lungo travaglio che porta dalle tenebre alla luce? Amava la felicità, eppure temeva d'accostarsi a Dio, felicità: "amans beatam vitam, timebam illam in sede sua; et ab ea fugiens quaerebam eam" (Confess., 6, 11, 20). Ne risulta che talora il rimprovero non basta ed è necessario che alla corrotta natura umana, alla volontà debole, perché inferma del peccato originale, soccorra anche il castigo corporale. Sant'Agostino preferisce, lo abbiamo visto, evitare nell'educazione la costrizione intimidatrice (Confess., I, 14, 23); egli ama la moderazione e per questo ha parole di lode per il tribuno Marcellino che, dovendo ricorrere a mezzi estremi per far confessare un colpevole, anziché gli uncini di ferro, come si usava ai suoi tempi, usa semplici verghe (Epistol. CXXXIII, 272). Ma, pur condannando in generale i castighi corporei, ritiene che - come eccezione - non si debbano non usare. « Se si dovesse lasciare a briglia sciolta la libertà, non ci sarebbe la sacra Scrittura a correggere i figli testardi - scrive Sant'Agostino in un'Epistola - non solo con i rimproveri, ma anche con la materiale coazione » (Epistol. CLXXIII, 3). E in un'altra lettera: "l'amore non ha efficacia per tutti; per taluni c'è bisogno del timore". E se, per incutere questo timore, è necessaria la verga, il padre sia pure crudele, se per crudeltà s'intende amore vero verso il figlio che si vuol salvare, e che il perdono danneggerebbe (Sermo XIII, 9).

"Per poco che tu vi fissi l'attenzione - scrive Padre A. Neno nel commento al "De Moribus" - vi scorgerai accennati i principi di pedagogia cristiana ... Si aspetterà che l'istruzione produca i suoi frutti dopo che il male avrà messo radici nell'anima del fanciullo? La repressione intesa come la intende Agostino, cioè come opera ispirata dall'amore, si riduce ad una forma preventiva tanto più sicura nei suoi effetti, quanto più pronta all'azione; è, insomma, [34] il primo passo verso lo stato perfetto. Teoria prettamente agostiniana considerare il genere umano come un sol uomo, che ha il suo principio in Adamo, e la sua fine nell'ultimo che esisterà alla caduta del mondo; nasce e cammina fanciullo fino a Gesù Cristo e procede maturo da Gesù Cristo al termine dei giorni. All'uomo, così considerato vivente in tempi diversi e lontani, ma nei diversi stati di fanciullo e di adulto, furono imposte due leggi, sapientemente adattate alle due età" (SANT'AGOSTINO, De moribus eccl. et Man., a cura di A. Neno, 1935, Firenze): "Haec tamen disciplina de qua nunc agimus, quae animi medicina est, quantum Scripturis ipsis divinis colligi licet, in duo distribuitur; coercitionem et instructionem. Coercitio timore, instructio vero amore pernicitur ..." (SANT'AGOSTINO, Ibidem, L. I, XXVII, 56, col. 892). Nella prima o della fanciullezza, domina la repressione, nella seconda o della maturità, l'istruzione occupa il primo posto. E poiché tanto il reprimere, quanto l'istruire, sono parti di un sol tutto, e chi l'esercita è Dio stesso, se ne inferisce che il solo amore ha presieduto alla istituzione dell'una e dell'altra; giacché quegli è Padre di tutta l'umanità, sì nel reprimere e sì nell'istruire, o altrimenti, così sotto la legge di servitù, come sotto la libertà della grazia, non opera, quantunque in diversa maniera, che con l'amore e per l'amore. Agostino pertanto, interprete sicuro del sentimento umano e della divina provvidenza, sta di mezzo tra gli adoratori di ogni libertà e gli eterni agitatori della sferza.

Ad Adamo peccatore Dio ha tolto la felicità. "Se dunque Dio stesso, per impedire il male a tempo, e destare l'amore al bene, ha preso in mano il "bastone pedagogo", poteva Agostino condannare, anzi, non ammirare la divina lezione?" (Confess. 6, 14).

 

 

ASPETTI MODERNI DEL PROBLEMA

Oggi, a distanza di tanti secoli, vediamo trionfare nella moderna pedagogia la stessa concezione che il fondatore dell'educazione dell'amore, dell'educazione cristiana, aveva avuto del castigo e della punizione corporale. Cristianesimo e Idealismo convengono sulla validità perenne e indiscutibile del precetto agostiniano e si trovano d'accordo nelle linee generali su questo importante problema della pedagogia la stessa concezione che il fondatore dell'educazione ad una pretesa autonomia e libertà sconfinata del fanciullo, e che sminuiscono o anche sopprimono l'autorità e l'opera dell'educatore, attribuendo al fanciullo un primato esclusivo di iniziativa ed [35] un'attività indipendente da ogni legge superiore naturale e divina, nella opera della sua educazione» (PIO XI, Divini Illius Magistri, Enciclica del 31-12-1929). Dall'altra, Giovanni Gentile, il quale parla addirittura di un «diritto» dell'uomo al castigo: «Il giudice che castiga dimostra di essere l'amico del colpevole in quell'atto appunto del castigo, qual esso sia, se ottiene lo scopo.

Quale poi il castigo debba essere, non si può dire in astratto, poiché, caso per caso, si deve adattare e proporzionare a una certa situazione determinata, la quale è sempre diversa. Né veramente si può rispondere alla vecchia domanda circa il valore educativo dei castighi corporei, che non per nulla da secoli resta una domanda. Non si può, perché questo che si dice corpo è un'astrazione; laddove il corpo, in concreto, è spirito, è corpo nostro, e però fa parte di noi, e se non si potesse castigare nel corpo, non ci sarebbe modo d'infliggere castigo di sorta. Antieducativo è trattare il corpo come corpo, non trattarlo come spirito; antieducativo, quindi, non riconoscere anche ad esso il diritto al castigo». Giacché il castigo è un vero diritto del colpevole, la cui natura non consiste in quella che si è già realizzata, ma in quella che si realizza, e che impegna il futuro. E' il futuro uomo che chiede al maestro e all'educatore in generale il castigo che lo redimerà, sottomettendolo alla disciplina. E' il futuro redento, che già ci accenna da lungi il castigo a cui egli ha diritto» (G. GENTILE, op. cit., par. 25 a pag. 54, vol. II). Castigo ch'egli gradirà d'aver subito, quando, superata la crisi, esclamerà con Sant'Agostino: «tu bene faciebas mihi» (Confess. I, 12, 19) eri tu che facevi il mio bene, o mio Dio, tramite i miei maestri. Nel De Moribus - lo abbiamo visto - per il nostro Santo due sono gli aspetti della disciplina: reprimere e istruire.

«Coercitio timore, instructio vero amore perficitur, eius dico cui per disciplinam subvenitur: nam qui subvenit, nihil horum duorum habet, nisi amare» (De Moribus Eccl. Cath. L. I, capit. 27 (56), col. 829). Ecco il segreto: l'amore! Insisteranno tanto su questo punto, veramente fondamentale, un po' tutti gli educatori e, fra essi, basterà ricordare Raffaello Lambruschini e Don Bosco. Lo vediamo in pratica, nella quotidiana fatica della scuola: se il fanciullo si sente amato e compreso dal maestro, lo segue volentieri perché lo sente partecipe della sua vita. Amarlo il fanciullo, bisogna! Non solo, ma fargli anche vedere che lo si ama. Cosi Don Bosco oggi, cosi Sant'Agostino, ieri. Allora solamente potremo rendere produttivi i [36] nostri sforzi e raramente saremo costretti a ricorrere alla verga: appunto perché si può far leva su un sentimento radicato nell'animo dello scolaro, su quell'amore che l'amore genera. Ecco l'educazione morale che mancava nelle scuole di Tagaste, di Madaura, di Cartagine e di Roma. Da questa deficienza, - l'abbiamo già detto - nasceva la necessità, unica, della "coercitio timore".

Non si era compresa la ben più alta efficacia di quell'educazione che «amore perficitur». Osserva acutamente G. Gentile, nella citata opera: "Lo scolaro che si è fatto un solo spirito col maestro, posa lo sguardo nell'occhio del maestro, e l'anima nella sua parola: nel maestro vede lo specchio della propria anima; o, meglio lo ha nell'anima." Allora sì, quando il fanciullo si sente amato, ama e stima il suo maestro e perciò gode delle gioie di lui e soffre delle sue stesse sofferenze, per quella fusione di spiriti che l'amore opera, allora sì che ha efficacia l'ammonimento, la punizione morale!

"Quando quell'occhio - continua G. Gentile - respinge il suo sguardo, quando quella parola sferza la sua anima che non l'ascolta, dentro allo scolaro si produce una scossa e si apre una ferita dolorosa che è il castigo. Sarà lo sguardo, sarà la parola, sarà un atto qualsiasi: ma attesterà e additerà sempre una scissura; anzi, sarà la stessa scissura prodottasi nell'unità di prima, perché quell'unità si determina in quella legge che lo scolaro non ha riconosciuta. Il castigo deve far sentire questa scissura, e non andare più in là." (G. GENTILE, op. cit.).

Così, l'avversario della classica "ferula", e al tempo stesso della colpevole debolezza che tollera indiscriminatamente l'errore, interprete dello spirito della Scrittura - così come da fine psicologo conosce l'animo umano - giunge ad una felice sintesi delle varie esigenze dell'educazione. proponendo una saggia soluzione che è cristiana appunto perché fondata sulla carità; ma sulla carità vera, su quell'amore che non ammette compromessi quando si tratta di salvare l'uomo.