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Giulio Belotti: L'educazione in sant'Agostino

 Milano: Agostino illuminato dalla grazia divina

Milano: Agostino illuminato dalla grazia divina

 

 

 

Capitolo 4

"VIVERE BENE" "VIVERE BEATE" - L'ORDINE

di Giulio Belotti

 

 

"Haec autem disciplina ipsa Dei lex

est, quae apud eum fixa et inconcussa

semper manens, in sapientes animas

quasi trascribitur, ut tanto se sciant

vivere melius, tantoque sublimius,

quanto et perfectius eam contemplantur

intelligendo et vivendo custodiunt diligentius."

(De Ordine II, 8, col. 409)

 

Poco più di quattro secoli contava il Cristianesimo, quando Sant'Agostino traeva dai postulati morali del Vangelo gli elementi necessari per la costruzione di quella salda e vigorosa dottrina, cristiana nei principi altrettanto che nella pratica della vita, destinata a far tanta luce sul vero fine che l'uomo deve raggiungere nella sua terrena esistenza. Il santo Vescovo d'Ippona, che usciva dalla tremenda lotta delle passioni contro lo spirito, portava scolpite nel cuore le ferite prodotte da tante amare delusioni, dall'esperienza viva del disordine morale, che trae l'uomo a inevitabili sconfitte, della inebriante soddisfazione dei sensi in vista d'un piacere effimero e irreale, destinato a volgersi in insoddisfazioni e in più grandi amarezze. Egli sapeva che soltanto nell'ordine si può raggiungere quella felicità che significa beatitudine, cioè godimento dell'eterno che non delude, che non si può perdere mai, che risponde, insomma, a tutte le esigenze della felicità cui l'uomo anela. Ed ecco, lui che ha scoperto la via della beatitudine che conduce a Dio, farsi maestro perché anche il suo prossimo - che la sua fede gl'impone d'amare quanto se stesso - illuminato sul suo vero bene, giunga quanto lui alla beatitudine. I precetti sono molti; la religione che c'impone di seguirli è una: l'uomo non è veramente tutto l'uomo, se non diviene padrone [54] della sua volontà, dominatore dei propri istinti: "mandata eius observa, hoc est enim omnis homo" (Eccl. XII, 131).

 

 

I BENI TERRESTRI: MEZZO E NON FINE

Dio gli ha concesso in uso molti beni; l'uomo deve servirsi di quanto la Provvidenza gli ha elargito, senza abusarne, e soprattutto non scambiando essi, che sono semplici mezzi, col Fine. Il Fine è superiore, soprannaturale; i mezzi sono umani. Essi sono necessari, taluni addirittura indispensabili, ma mai fine a se stessi. Eppure quanti uomini organizzano la loro vita non dal punto di vista di Dio, ma da quello della materia! S'affannano tutta la vita in cerca di piaceri, di gloria, di ricchezza. Ecco l'errore, il disordine che Sant'Agostino lamenta nella società e nello spirito umano: l'erronea valutazione da parte dell'uomo dei beni messi a sua disposizione per un fine buono, che Egli volontariamente e più sovente per ignoranza, confonde col Fine stesso, diventando così adoratore della materia, né più né meno com'erano i pagani idolatri. Esamina quindi i vizi della società, e addita nella vittoria degli uomini su di essi, il solo rimedio all'imbarbarimento della società: "solo le menti pervertite ed accecate - dice Sant'Agostino - possono credere che l'umanità progredisca se splendono i tetti degli edifici e si costruiscono grandiosi teatri; mentre frattanto si lascia libero sfogo alla corruzione degli animi e si abbattono le basi della virtù" (Epist. CXXXVIIl, 14 PL tomo 33, col. 531).

 

 

IL CASTIGO DELLA RICCHEZZA

Noi esaminiamo qui quale sia, per Sant'Agostino, l'ordine della vita cristiana dell'uomo, nella famiglia, nella società. Anzitutto - dice sant'Agostino rivolgendosi agli adolescenti – "amorem pecuniae totius suae spei certissimum venenum esse credano" (De Ordine II, 8, (25) col. 409). Non diversamente si esprime Giovanni Papini, nella sua Storia di Cristo: "La ricchezza è un castigo come il lavoro. Ma un castigo più duro, più vergognoso. Chi è marchiato col segno della ricchezza ha commesso, forse senza saperlo, un infame crimine, uno di quei delitti misteriosi ed inimmaginabili che non hanno un nome nelle lingue degli uomini [55]. Il ricco è sotto il peso della vendetta d'Iddio o Iddio lo vuol mettere a prova per vedere se riesce a risalire alla divina Povertà. Perché il ricco ha commesso il peccato massimo, il più abbominevole e imperdonabile. Il ricco è l'uomo che è disceso perché ha barattato.» (G. PAPINI, Stona di Cristo. Vallecchi. Firenze, seconda edizione). Parrebbe che la ricchezza fosse totalmente da condannare in quanto tale, ma il Vangelo non arriva a questi estremi, limitandosi a dire che non si deve abusare di essa, che vi deve essere una regola nell'uso che l'uomo ne fa: "Non vogliate ammassar beni sulla terra, dove sono corrosi dai tarli e sottratti dai ladri; ma ammassateli per il cielo dove sono a riparo del tarlo e del ladro» (Vangelo). E' un'esortazione a tenere nel suo giusto valore un bene terreno, che deve servire soprattutto a un fine superiore.

Non diversamente considera la ricchezza il Nostro, il quale non dimentica mai che l'uomo è spirito ma anche materia, anima ma anche corpo, che, quindi, ha bisogno di alleviare in questa vita terrena - fatta di triboli e di fatiche - per la colpa d'Adamo - le sue sofferenze con un giusto godimento, con una giusta soddisfazione delle esigenze umane, possibile solo con il denaro." Domus autem hominum, scrive nel De Civitate Dei, ex fide viventium, expectat ea quae in futurum aetema promissa sunt, terenisque rebus ac temporalibus tamquam peregrina utitur, non quibus capiatur et avertatur quo tendit in Deum, sed quibus (capiatur et avertatur quo tendit in Deum) sustentetur ad facilius toleranda minimeque augenda onera corporis corruptibilis, quod aggravat animam. Idcirco rerum vitae huic mortali necessarium utrisque hominibus et utrique domui communis est usus; sed finis utendi cuique suus proprius, multumque diversus» (De Civit. Dei, XIX. 17 PL tomo 41, col. 645). E nei Sermoni così ci mette in guardia dai pericoli della ricchezza: "È veramente grave e orrenda cosa l'aggrapparsi alla terra, quando a Dio diciamo: "Pater noster qui es in coelis ", a Dio, di fronte al quale sono vili le cose di quaggiù... Ci siano esse per le esigenze necessarie, non per fomentare alla terra; ci siano quali alberghi del viandante, non quali poderi di proprietari. Rifocìllati e passa. Cammina, attendi a chi sei venuto, perché è grande colui che a te si volse. Abbandonando questa vita, tu cedi il posto ad altri. Siamo in un albergo. Te ne andrai perché altri venga» (Sermo CLXXVII, 2, PL torno 38, col. 954). [56]

 

 

SIAMO SEMPLICI USUFRUTTUARI, E NON PADRONI

L'ultima parte di questo passo mi pare si possa collegare con un'altra chiara espressione agostiniana, riportata sempre nei Sermoni. Questa: «l'oro e l'argento non è cosa dell'uomo, ma di Dio. Che i miseri comprendano, che Iddio disse col profeta Aggeo: Meum est aurum, et meum est argentum, affinché anche chi è restio a comunicare i suoi beni, ascoltando i precetti sulla Carità, capisca che Iddio comanda di dare ciò di cui egli stesso è padrone. Colui che offre qualche cosa al povero, non creda che dia del suo, affinché non si gonfi di vanità, invece di consolidarsi nella misericordia. È mio, Dio dice, l'oro e l'argento, non vostro, o detentori della ricchezza. Perché esitare a donare del mio all'indigente? E perché gonfiarvi se largheggiate del mio? » (Sermo L, 2, PL tomo 38, col. 326-327). Sant'Agostino, che ha scoperto, leggendo San Paolo, qual è il vero fine della vita, paragona l'umana esistenza a un albergo del quale siamo ospiti. Proprietari non siamo noi, ma un signore che generosamente elargisce oro e argento, la ricchezza, chiamandoci a goderne l'usufrutto per gli anni in cui Egli vorrà che viviamo. Un giorno ci chiamerà a sé e vorrà che lasciamo l'albergo terreno con tutti i suoi beni, che verranno goduti da coloro che ci succederanno nel mondo. Elargire al povero ricchezze e beni che erroneamente diciamo nostri, non è altro che anticipare per spontanea generosa volontà di bene, ciò che è di Dio e che un giorno saremo costretti a cedere per forza.

Quale forza educativa in una siffatta concezione della ricchezza! Comprenderla in tutto il suo alto valore, in tutto il profondo significato che le è proprio, vuol dire per chi ha buona volontà di capire, divenire senz'altro e senza riserva alcuna, perfetto cristiano. Infatti, valutando la ricchezza quel che è, vuol dire elevarsi al di sopra delle cose umane, per considerare Iddio l'unico vero Bene, ed ecco adempiuto il primo precetto: «amerai il Signore Iddio tuo»; considerandoci poi semplici usufruttuari della proprietà e dei beni terreni, si spegne in noi l'erronea indisciplinata corsa all'accaparramento di beni superflui, e nasce in noi la Carità che ci fa generosi verso i poveri, permettendoci così d'adempiere anche al secondo precetto: «amerai il prossimo tuo come te stesso». Così quello che, male usato, sarebbe un danno, diventa un bene quando è in vista di fini buoni, quando è valutato nella sua vera importanza e nella sua reale funzione. Proprietario assoluto è solo Dio: «fons omnium bonorum et creator et [57] recreator universorum." ( Enarr. in Ps. LXVI, 2, PL tomo 36, col. 80g).

Tutti i beni che l'uomo possiede sono dunque un regalo (Enarr. in Ps. XXXV, 7, PL tomo 36, col. 346) di questo distributore "d'ogni bene" (Enarr. in Ps.), il quale li concede per un fine buono: perché servano all'uomo per vivere, per costruirsi una propria casa dotata di un proprio patrimonio col quale sostenere la famiglia (Epist. CLVII, 30, PL tomo 33, col. 688-689) ma, al tempo stesso, Sant'Agostino non esita, come abbiamo detto all'inizio, a mettere in guardia i giovani dai pericoli di una ricchezza di cui si fa cattivo uso. Essa, in un animo che non sia superiore ed elevato, genera superbia (Sermo XXXVI, 2 PL tomo 38, col. 215), è causa di tanti mali, come discordie tra uomini e tra popoli, odii e gelosie, scandali e tumulti (Enarr. in Ps. CXXXI, 5, PL tomo 37, col. 1718). Infine essa genera quasi sempre egoismo e allontana dalla carità: "datemi un uomo del secolo che chieda a Dio le ricchezze. Gli siano concesse. Ed eccolo circuito da una folta rete di lacci. Ed ecco che schiaccia il povero e si eleva orgoglioso, lui, uomo caduco, sul suo uguale." (Sermo XXXII, 20 PL 38, col. 203). Compito dell'educatore è mettere nella sua giusta luce la ricchezza, farne riconoscere al giovane la legittimità dell'uso, in vista dei fini sopra indicati, sottolineare il fatto che l'uomo soltanto relativamente è padrone dei beni terreni e infine indicare nei pericoli immediati che l'abuso del denaro può provocare, il ben più grande pericolo della deviazione dell'uomo dalla retta via che lo porta alla beatitudine.

 

 

LA CARITA' UMANA E LA CARITA' CRISTIANA

"Suos putent omnes in quos sibi

potestas data fuerit.

Ita serviant, ut eis servire delectet »

(De Ordine II, VIII, col. 409)

 

L'ordine della vita vuole che si attui l'ideale della fraternità di cui parla il Vangelo, identificando il padrone col servo, il comando con il servire: Il Suos putent omnes, in quos sibi potestas data fuerit. Ita serviant, ut eis dominari pudeat; ita dominentur, ut eis servire delectet." (De Ordine, Il, VIII (25), col. 409). Ma, anche senza restringere nei limiti dei rapporti servo [58] padrone, Sant'Agostino ha parole più che sufficienti a giustificare la necessità della mutua comprensione e della fraternità fra tutti gli uomini. L'uomo ha bisogno, composto com'è non solo di spirito, ma anche di corpo, dell'aiuto degli altri uomini. Al cristiano, quindi, incombono alcuni doveri ai quali non può sottrarsi senza venir meno alla legge divina: l'elemosina di chi più ha a chi meno ha (Epist. CLXXXV, 35 PL tomo 33, col. 809); la benevolenza, la bontà che favoriscono la concordia (Epist. CXXXVIII, 11, PL tomo 33, col. 529); la cura e l'assistenza a quanti soffrono e sono incapaci di difendersi da soli (Epiçt. CCLII, PL tomo 33, col. 106) e infine il perdono dei nemici, sull'esempio di Cristo e in obbedienza alla sua legge, che comanda di perdonare, se si vuol essere perdonati (Sermo XLXVIl, 7, PL tomo 38, col. 299). Concetti di umanità e di vicendevole aiuto in tutti i tempi concorsero ad alleviare le sofferenze dei miseri e specialmente Cicerone aveva predicato la virtù della solidarietà.

"Non vi è forse fra i buoni - scrive l'oratore romano - una carità naturale? Il nome così caro di amore donde deriva quello di amicizia, esprime disinteresse. Non si amano infatti gli amici come si amano i campi e le greggi, sol perché sono redditizi" (De natura deorum, L. IV, 44), per cui - scrive nel De Finibus – "nulla vi ha fra le virtù di più grande e splendido che l'unione degli uomini e la comunanza d'ogni loro particolare interesse, et ipsa caritas generis humani, ossia l'amore universale; il quale si inizia con la famiglia, indi si dilata gradualmente fuori della casa sui parenti, gli amici, i vicini, i concittadini, gli alleati; per finire sull'intera umanità." (De Finibus bonorum et malorum, L. V, 23).

 

 

LA SCHIAVITÙ

Ma si trattava pur sempre di una carità "naturale" e non cristiana. L'animo umano, tendente all'egoismo, aveva bisogno di ben altro per sottostare alla legge dell'amore, e l'apporto di Sant'Agostino sarà perciò considerevole. Egli trasformerà quel vuoto umanitarismo in un fervente cristianesimo operante nella carità vera. E quindi merita un cenno il grande contributo dato dal santo Vescovo d'Ippona al problema della schiavitù che, alla fine del secolo IV, era ancora ben lontano dall'essere risolto. L'istituto della schiavitù, che Aristotele aveva costruito sul diritto naturale, escludeva quella che era "la [59] proprietà animata" cioè lo schiavo dal consorzio civile (Polito VII, v, 10), proclamando che nessun legame d'amicizia poteva esservi fra servo e padrone (Ethica Nicomachea VIII, XI, 7); Platone non discordava molto da lui e, pur affermando il dovere di trattare anche gli schiavi con giustizia (SALVATORE TALANO, Il concetto della schiavitù da Aristotele ai dottori Scolastici , Roma, 1908, pag.) ammetteva sanzioni penali ben diverse per gli schiavi e per gli uomini liberi; a Roma pure Cicerone legittimava la schiavitù, almeno nei confronti degli inetti (CICERONE, De Republica 111, 25). Quando Agostino predicherà l'amore tra gli uomini combattendo la schiavitù nelle idee, onde mitigarla almeno - poichè proibirla in quel tempo sarebbe stato impossibile - essa era ancora protetta dalle leggi e ritenuta dai più un diritto insopprimibile della società, per quanto gli imperatori tendessero a far alleviare le pene che i padroni infliggevano ai loro servi (ibidem).

In siffatte condizioni sociali, non parrà debole il richiamo che il Santo fa giungere ai suoi contemporanei. Ecco come commenta il noto passo del Sermone della Montagna: "Et ei, qui vult tecum iudicio contendere, et unicam tuam tollere, dimitte ei pallium" (Cod. Theod. Il, tit. XXV): per tunica e pallio si deve intendere tutto ciò che può essere oggetto di contestazione giuridica, in guisa ch'esso si sottragga al nostro diritto per trasferirsi nel diritto della parte contendente, come l'abito, la casa, il giumento, in genere ogni somma di denaro. Se si debba, poi, qui annoverare anche lo schiavo, è questione assai grave. Poiché al cristiano non è lecito possedere uno schiavo ... (Matth. V, 40) così come si possiede un cavallo o del denaro.

Senza dubbio può darsi che il valore venale di un cavallo oltrepassi quello di uno schiavo ... ma se questo schiavo da te può ricevere una più sana educazione morale e religiosa, che non da colui che vorrebbe togliertelo, io non credo allora che potrà trovarsi chi oserà dire di fare dello schiavo lo stesso conto, che si farebbe di un vestito. L'uomo, alla fine, deve amare l'uomo come se stesso, quell'uomo a cui dal supremo Sovrano è imposto di amare finanche i nemici» (De Sermone Domini in Monte, I, 60, PL tomo 34-35, col. 1260). Sant'Agostino, che vede l'uomo nel suo duplice aspetto. corpo e anima, che lo considera fatto a immagine e somiglianza di Dio, anzi figlio stesso di un Dio che è padre a tutti gli uomini, non poteva [60] certo giustificare e approvare un regime che poneva l'uomo al livello delle bestie e lo considerava come oggetto, come cosa, come strumento puro e semplice di lavoro. Nel 416 così commenterà la Genesi, là dove si dice che Dio concesse all'uomo d'esser sovrano sulla terra: «Dio ha detto: che l'uomo eserciti il suo impero sugli uomini? No. Che eserciti l'impero è un potere conforme alla sua natura. Su chi deve esercitarlo? Sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sui rettili che strisciano sulla terra, perché questa potenza naturale dell'uomo sugli esseri creati? Perché è stato fatto a immagine di Dio.

E in qual parte del suo essere questa immagine è stata impressa? Nella sua intelligenza, nella sua anima, nell'uomo interiore; là dove egli può comprendere la Verità, discernere la giustizia dall'ingiustizia, conoscere Colui che l'hà fatto, comprendere e lodare il suo creatore." (Epist. ]oann. VII, 6 PL tomo 35, col. 2039). E nel libro «Quaestionum in Haeptateucum », così scrive: «Senza alcun dubbio giusta servitù e giusto dominio si ha solo allorquando l'animale serve all'uomo e l'uomo domina sull'animale. Infatti così disse Iddio nel momento della creazione: Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram et habeat potestatem piscium maris et volatilium coeli, et omnium pecorum, quae sunt super terram (Genesi l, 26); qui s'insinua che la ragione deve dominare sulla vita irrazionale» (Quaest. in Haeptat. I, CLIII PL tomo 34, col. 589-590). Da tutte queste affermazioni non si può certo ricavare - come ha fatto erroneamente il Cabiati (CABIATI, Critica Sociale, 16 febbraio 1905) - che Sant'Agostino abbia giustificato il regime schiavistico. Vero è che esso per il santo dottore è un male derivante dalla colpa: «Conditio quippe servitutis jure intelligitur imposita peccatori. Proinde nusquam Scripturarum legimus servum, ante quam hoc vocabulo Noe iustus peccatum filii vindicaret. Nomen itaque istud culpa meruit, non natura» (De Civitate Dei, L. XIx, caput 15, tomo 9, col. 736). Per quanto fosse un male, ritenuto in quei tempi necessario, non per questo Sant'Agostino evita di levar alta la sua voce a predicare la fratellanza fra gli uomini, la carità che considera tutti figli dello stesso Padre, e che evita pertanto quei dislivelli sociali che sono causa di discordie e di lotte. Altri vizi il santo Dottore combatte nel De Ordine, dove così si esprime: «Pertanto gli adolescenti che amano questa legge devono vivere in modo da evitare le cose veneree, gli allettamenti del ventre e della gola, la cura immoderata del corpo e dell'ornamento ... ». [61]

Analizziamo brevemente questo passo alla luce delle sue opere. Nel De Ordine (Libro II, Cap. IV) leggiamo una espressione che potrebbe indurci a pensare che Sant'Agostino abbia tollerato la prostituzione, problema al quale vogliamo accennare, sia perché ce ne viene offerta l'occasione dal passo in esame, sia perché è sempre di viva attualità. Egli fa dire a Trigenzio: "Quid sordidus, quid inanius decoris et turpitudinis plenius meretricibus, lenonibus, ceterisque hoc genus pestibus dici potest? Aufer meretrices de rebus humanis, turbaveris omnia libidinibus. Constitue matronarum loco, labe hac dedecore de honestaveris. Sic igitur hoc genus hominum per suos mores impurissimum, vita per ordinis leges conditione vilissimum." (De Ordine, VIII, 4 (12). Questo ha fatto scrivere a Giovanni Papini: "L'autore del Liber de sancta virginitate, che ha difeso sempre la continenza, è lo stesso che ammette la necessità della prostituzione: "aufer meretrices de rebus humanis, turbaveris omnia libidinibus". Sin qui il Papini (G. PAPINI, Sant'Agostino, Vallecchi, Firenze, 2.a ed., pago 344). V'è dunque contraddizione fra quello che il santo Dottore scrive nel capitolo IV e nel capitolo VIII dello stesso libro De Ordine? Intanto è assurdo ritenere che un moralista come Sant'Agostino possa tollerare, anzi ammettere la necessità d'un sicuro male; poi, bisogna osservare che il De Ordine fu scritto quando il Santo non era ancora battezzato; infine il passo non va letto a sé, ma inquadrato nel complesso del ragionamento, che è volto a risolvere per via di contrasti il problema del male. Dimostra che anche quello del carnefice è un atto brutto, ma necessario per punire i malvagi onde evitare più grandi mali: "quid tetrius, quid illo animo truculentius atque durius?".

Eppure "inter ipsas leges locum necessarium tenet, et in bene moderate civitatis ordinem inferitur, estque suo animo nocens, ordine autem alieno poena nocentium." (De Ordine, VIII, 4, 12). Non c'è dubbio: quel che ha detto pel carnefice vale anche per le meretrici. Né poteva essere diversamente se lo troviamo intransigente difensore della virtù, anche a proposito di manchevolezze, più vicine alla leggerezza che alla colpa.

A proposito della necessità di evitare la "cura immoderata dell'ornamento", che ci corre l'obbligo di commentare, citeremo soltanto alcune espressioni di Agostino: "Lasciamo quelle che hanno la mania di piacere o con abiti di una eleganza inadeguata alla loro professione, o con vistosi ornamenti al capo, o con assai [62] gonfie volute delle chiome o con sì tenui veli coperte, da scorgersi le sottostanti reticelle: a costoro non di modestia bisogna dar precetti, ma di castità e di pudore." (De sancta virginitate XXXIV PL tomo 40, col. 415 e Sermo XXXII PL 3).

E altrove: «Adoperare la polvere per dare un più candido o più rubicondo colore al volto è un inganno adulterino, che dispiace agli stessi mariti ... Il vero ornamento, soprattutto per i Cristiani, non deve essere il mendace belletto, né l'ostentazione dell'oro e della veste, ma il buon costume." (Epist. CCLV, I, PL 33, col. 1060). E questo basta, al nostro scopo, per dimostrare come la pensasse il santo Vescovo di Ippona e qual valore desse anche a questo precetto della vita cristiana.