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Giulio Belotti: L'educazione in sant'Agostino

 Milano: Agostino illuminato dalla grazia divina

Milano: Agostino illuminato dalla grazia divina

 

 

 

Capitolo 5

IL LINGUAGGIO E L'INSEGNAMENTO

di Giulio Belotti

 

 

"Et id maxime tibi mitor persuadere

si potero, per ea signa quae verba appellantur,

nos nihil discere».

(De Magistro, X, 24)

 

Nella critica all'educazione pagana prima, e nell'esame dei principi pedagogici e morali della dottrina agostiniana dell'educazione poi, abbiamo avuto occasione di sottolineare fra i tanti meriti dell'Ipponense, quello di aver posto per primo un problema etico-religioso, d'aver dato precetti e norme per un ordine della vita, e ciò in un tempo in cui il sistema formativo era assai deficiente, la forma prevaleva sulla sostanza; in un ordinamento disciplinare fondato sulla coazione e non sulla libera volontà, sulla sola forza dei mezzi estremi, per la mancanza appunto d'un principio morale sul quale l'educatore potesse far leva. Ma se i meriti di Sant'Agostino nel campo educativo sono già grandi sotto quest'aspetto e sotto quello che sarà oggetto d'esame nella quarta parte del presente lavoro, egli può essere giustamente classificato fra i massimi esponenti della pedagogia perennemente valida dal quarto secolo ad oggi, per aver posto e discusso per primo il problema filosofico dell'educazione. Diamo anzitutto uno sguardo retrospettivo per vedere a quali fonti egli abbia attinto o, meglio, da quali pedagogisti sia stato influenzato.

Nei Soliloqui (Soliloquia I, 13, 23, t. 32, col. 881-88) e nel De Civitate Dei (De Civitate Dei, XI, 25, t. 41, col. 338) troviamo chiari accenni a Platone, soprattutto al paragone ch'egli fa del bene, che chiama sole del mondo intelligibile (Ibidem), con il sole che illumina la terra. Inoltre, egli stesso ci confessa d'aver appreso e anche insegnato questo principio di natura spirituale, insito in ogni cosa di cui è creatore, [66] luce della conoscenza e regola di vita; principio che ha appreso da Platone, attraverso la dottrina neoplatonica (PLATONE, Repubbl. VII, 514).

Leggiamo infatti nel De Civitate Dei: «saepe multumque Plotinus asserit, sensum platonis explanans, ne illam quidem, quam credunt esse universitatis animam, aliunde beatam esse quam nostram: idque esse lumen quod ipsa non est, sed a quo creata est, et quo intelligibiliter illuminante intelligibiliter lucet. Dat etiam similitudinem ad illa incorporea de his coelestibus conspicuis amplisque corporibus, tamquam ille sit sol et ipsa sit luna. Lunam quippe solis objectu illuminari putant » (De Civ. Dei, X, 2, t. 41, col. 279). «Tuttavia - osserva il Moschetti nel suo commento al De Ordine - sarebbe un gravissimo errore considerare il Nostro come un pedissequo epigono di Plotino, di cui ripeterebbe tutti i concetti filosofici e a cui dovrebbe, in parte, la stessa conversione al cristianesimo, per l'affinità che esiste tra Intelletto neoplatonico e il Verbo cristiano; come, purtroppo, molti hanno sostenuto, mostrando così, malgrado la loro erudizione, una spaventosa cecità mentale.

Nessuno invece più originale di Agostino, perché nessuno più genio di Lui, che è l'aquila dei Dottori, come degnamente lo definì il Bossuet. Personalità vigorosa e totalitaria, umile ed ardente, egli si stacca, inconfondibile, di fronte a tutte le figure, sempre unilaterali, dei saggi pagani e, in particolare, dei neoplatonici, che rinnovano, malgrado i conati mistici, la freddezza orgogliosa e apatica dei filosofi stoici. Ora questa originalità di temperamento non può non esprimersi nella dottrina; ma naturalmente quella sola originalità, che è possibile in ogni opera di pensiero, la quale si riallaccia al movimento culturale e alle molteplici esperienze dei suoi tempi ne ritrae quei motivi che rispondono alle interiori esigenze del pensatore e, per attività trasfiguratrice dello spirito, nasce come sintesi nuova. In caso contrario non vi è originalità, ma stravaganza e follia" (SANT'AGOSTlNO, De Ordine, a cura di A. M. Moschetti, pag. 74).

E lo Jolivet aggiunge: «Non fu Agostino che divenne neoplatonico, ma Plotino che divenne cristiano" (R. JOLIVET, Le problème du mal d'après S. A., pag. 136). «Egli dunque - conclude il Moschetti - come avrebbe fatto ogni altro filosofo di genio, osservò Plotino dal suo prisma, cogliendovi ciò che vi volle cogliere, per la intelligibilità della sua fede; e però fu platonico nello stesso modo in cui Platone fu socratico, Aristotele [67] platonico, San Tommaso aristotelico e Fichte kantiano: il che vale a dire che egli fu soltanto se stesso» (SANT'AGOSTlNO, De Ordine, ediz. cit., pag. 75). Il De Ruggiero infine commenta: «Platonico non è il Dio d'Agostino il quale se ne sta, come il suo predecessore, sulla vetta dell'Olimpo, dove appena si vede, ma agisce immediatamente sulla coscienza e la inonda della sua luce. Quindi, quella conoscenza speculativa che in Platone si annebbiava in una visione lontana e quindi d'oltretomba, qui immediatamente si tocca e si conquista, perché Dio è intimo all'uomo; intime sono perciò ancora le ragioni eterne delle cose, nelle quali egli può pensare tutto ciò che esiste.

Alla faticosa dialettica platonica delle idee, che cerca di approssimarsi per gradi alla divinità, subentra qui una visione intuitiva istantanea, che ha il proprio termine immediato nella stessa ragione divina che compenetra di sé gli esseri e che si comunica a ciascuno per quel che ciascuno può riceverne secondo i propri mezzi» (DE RUGGIERO, Storia della filosofia - La filosofia del Cristianesimo). Comunque, dopo la sua conversione, Sant'Agostino rigetta quanto è inconciliabile con il Cristianesimo (Retract. 1, 4 e 8, tomo 32, col. 587 e 594). Procediamo con ordine, perché parleremo in seguito di ciò.

 

 

LA POSSIBILITÀ DELL'INSEGNAMENTO

Nel De Magistro, attraverso la forma del dialogo, troviamo tutto il processo della conoscenza che, attraverso vari quesiti posti da Agostino al figlio Adeodato, assicura la possibilità dell'insegnamento. E' possibile, e come è possibile, l'insegnamento? chiede Agostino. Comunemente, parlando di educazione, si pensa a un maestro; a un maestro che insegna e a uno scolaro che impara. A prima vista parrebbe proprio che non si possano trasmettere idee se non comunicandole, per mezzo della parola, a qualcuno disposto a riceverle. Senonché, per accettare questa formula, bisognerebbe poter dimostrare che al pensiero che noi esprimiamo corrisponde sempre e perfettamente la parola con la quale lo manifestiamo, il che non è (A. MARTIN, S. Agostini philosophia, P. II, cap. 29, pag. 204-208). Per poter vedere se il rapporto maestro-scolaro, insegnante-discente, è fondato sulla realtà delle cose, se rientra nelle possibilità della natura umana, o se non è invece un rapporto apparente, dobbiamo, dice Sant'Agostino, chiederci a che cosa serve la parola, il linguaggio. [68]

 

 

IL METODO VERBALE

«Quid tibi videmur efficere velle, cum loquimur?» chiede Agostino. «Quantum quidem mihi nunc occurrit, aut docere au discere», risponde Adeodato (De Magistro, cap. I, col. 671, Maur.). Insegnare o imparare, risponde egli dunque. Ma Agostino gli precisa: no, parlando, vogliamo solo "docere", perché anche lo scolaro insegna qualcosa al maestro, se per insegnare s'intende, come si deve intendere, avvisare, avvertire; lo avverte infatti di ciò che desidera sapere. «Sicché - osserva A. Guzzo - quando Agostino afferma che non si parla che per insegnare, fa dell'espressione la ragione, l'essenza del parlare. E quando in fine dello scritto, impugna, platonicamente, la credenza che s'impari dalle altrui parole, pone, sempre platonicamente, l'esigenza che si concepisca l'espressione, il linguaggio non come una fisica percossa che dia, dall'esterno, le nozioni a chi le ascolta, ma come una spirituale sollecitazione a riflettere originalmente, per conquistare con le proprie forze le nozioni che le altrui parole solo rammentano" (A. Guzzo, Il Maestro, pag. 20). Se insegnare e imparare sono due termini che si riducono a uno solo "commemorare" ne deriva che le possibilità del linguaggio e dell'educazione si equivalgano.

Ogni istruzione finisce con l'essere linguaggio: «vides ergo iam nihil nos locutione nisi ut doceamus appetire". Ma Adeodato non è soddisfatto dell'acuta risposta del padre e fa osservare che, se ciò fosse vero, si dovrebbe poter dire che s'insegna, ad esempio, anche quando si canta da soli, senza che nessuno sia presente. Anche il cantare è emettere parole, ma, se queste non sono ascoltate da nessuno, a chi e come si può dire che, così parlando, s'insegna?

Ed egli: «Duas iam loquendi causas constituo, aut ut doceamus, aut ut commemoremus vel alios vel nos metipsos", cioè per richiamare in mente agli altri o a noi qualche cosa o «dar nozioni" o rammentare. Il dialogo procede con un incalzare di domande e di risposte, quest'ultime non sempre del tutto esaurienti se prese in se stesse, le quali - mentre vogliono concorrere alla soluzione del problema - hanno anche l'intento di attuare quella "exercitatio animi" che, come dice il Marrou, ha lo scopo di preparare lo spirito a «travailler sur ces élémentes, à première vue si étrangers, à la realité comune". E osserva: « J'explique de la sorte ces recherches grammaticales qui foisonnent dans [69] le De Magistre et viennent à chaque alourdir et encombrer la marche de la discussion, en particulier dans la première partie du dialogue ... Tout cela est encore exercice, ginnastique intellectuelle» (MARROU, S. A. et la fin de la culture antique, pag. 307-308).

Fatta questa precisazione, riprendiamo l'esame del dialogo. Se ogni volta che parliamo, necessariamente insegniamo ad altri o a noi stessi, pregando, dovremo - osserva Adeodato - insegnare a Dio, il che è assurdo. Ma il padre fa subito osservare che « nobis praeceptum esse, ut in clausis cubiculis oremus, quo nomine significantur mentis penetralia, ut nobis quod cupimus praestet, commemorari aut doceri nostra locutione non quaerit." Nella preghiera non si può parlare di « docere », bensì solo di «commemorare" a meno che con essa non ci si riduca a pronunciare parole sonanti, nel qual caso essa perderebbe la sua caratteristica; semmai l'eccezione si può fare solo per alcune preghiere dei sacerdoti, i quali si servono della parola per rammentare ai fedeli i precetti divini. La preghiera deve essere tutta interiore, e anche nel "Padre nostro" insegnato da Cristo, dobbiamo vedere non una formula, ma un richiamo al dovere di pregare nell'interno del nostro spirito. Agostino sembra spuntarla su Adeodato perché, se può darsi che qualche volta il linguaggio non sia istruzione, come dimostrerà poi nel cap. X (30), non v'è dubbio, invece, che, senza parlare, non è possibile al maestro insegnare.

Non è dunque, almeno a rigore di termini, una illusione il rapporto maestro che parla - discepolo che ascolta, grazie al linguaggio, mezzo senza del quale il sapere non può essere trasmesso; diciamo meglio, non può passare dal primo al secondo. Resta ora da vedere se questa trasmissione è o no possibile. Il linguaggio non è che un insieme di segni e di suoni. Ma la scienza che l'alunno vuole imparare dal maestro, è qualcosa di più dei segni e dei suoni. E' un insieme di nozioni utili, fra loro collegate, derivanti da un ragionamento sensato e scorrevole.

La risposta che deriva a questa obiezione è facile: segni e suoni sono mezzi, e solo mezzi, per esprimere idee e per indicare oggetti. Senonché essa non soddisfa pienamente. Anzitutto non si può dire in via assoluta che le parole rispecchino le cose; poi, quand'anche ciò fosse, è ben difficile che lo scolaro possa passare dal "segno" all'oggetto che esso vuol significare, ed egli corre il rischio di ritrarre materialmente il segno, senza compiere quel lavoro di elaborazione mentale che, solo, può evitare un [70] apprendimento vuoto e inefficace, com'è il verbalismo, la pedissequa ripetizione d'un sapere non compreso e non fatto proprio dalla mente, destinato perciò ad entrare e a fermarsi nella memoria senza alimentare lo spirito.  

 

 

IL METODO INTUITIVO

Da questa critica al verbalismo pedagogico, è facile risalire al rimedio. Il quale consisterà nel presentare al discente le cose, gli oggetti, invece delle semplici parole, attraverso una graduale dimostrazione pratica dei particolari di un determinato argomento, dal quale sarà facile dedurre definizioni e concetti. Bisognerà, in altre parole, sostituire al metodo verbale quello oggettivo o intuitivo, basato sull'esperienza. A proposito di questo metodo, faremo sin d'ora osservare come Sant'Agostino lo abbia personalmente applicato, dandocene poi una bellissima descrizione, specialmente nel De Ordine. Il "dialogo agostiniano - dice assai bene il Guzzo - inaugura una forma di dialogo reale e vissuto che ha un sapore proprio nella letteratura filosofica. Non si parla del dialogo filosofico ciceroniano, che si sa come sia retoricamente concepito e condotto; ma perfino il dialogo platonico è ricostruzione di dialogo, quando non proprio invenzione di dialogo. Ma questi dialoghi agostiniani, sono proprio i dialoghi come avvengono, con tutte le incertezze, le oscillazioni, i ritorni, gli scoramenti, le accensioni del dialogo reale. Agostino descrive la scena, ma la descrizione non è né la pagina poetica cosi incantevole nei dialoghi platonici, né l'inscenamento studiato e artificiale dei dialoghi ciceroniani." (A. Guzzo, Agostino dal ... Contra Academicos al De vera religione, Firenze, Vallecchi, pag. 5). Così, senza appesantire l'insegnamento, ed anzi rendendolo piacevole, attraverso l'osservazione diretta delle cose, evitava il deprecato pedagogismo, faceva unitario un insegnamento nel quale venivano armonicamente fusi insieme alle nozioni di carattere scientifico e pratico, principi etico-religiosi e sentimenti atti alla formazione spirituale, artistica ed estetica. Sant'Agostino è davvero un precursore di questo metodo oggi universalmente adottato, e oggetto di sempre più attento studio, di rigoroso esame e di larga applicazione; egli ha insegnato - in quel lontano secolo IV in cui l'educazione era ancora in germe, se la [71] si considera e valuta per quel che dovrebbe essere nel significato odierno della parola - che la natura al cuore del fanciullo canta meglio le lodi al suo Creatore con le sue meraviglie, che non le più alte liriche sbocciate dall'umana sensibilità; che la libertà di esprimere il proprio pensiero, concesso all'alunno, è il modo più efficace per ottenere da lui confidenza per concorrere alla formazione del suo carattere, per fare di lui un uomo consapevole del suo operato e delle responsabilità che gliene derivano. Egli ha dato, insomma, un esempio di scuola veramente gioiosa.

 

 

DIFFICOLTÀ DEL METODO OGGETTIVO

Ma torniamo al De Magistro. Il quale non nasconde una difficoltà propria allo stesso metodo oggettivo. Si fa presto a dire: bisogna presentare all'alunno direttamente le cose; ma se noi adoperiamo, per far questo, figure, cartelloni, riproduzioni qualsiasi dell'oggetto che presentiamo, finiamo col sostituire ancora i segni alle cose. Siamo giunti, nella nostra breve analisi, al capo II; dove Adeodato è chiamato a prendere in esame un verso di Virgilio. Egli si trova presto in difficoltà, in quanto si accorge che per spiegare quelle parole, deve usare altre parole, la qualcosa dimostra come non si possa far a meno di esse e, quindi, come sia impossibile mostrare le cose direttamente. Ma Agostino ribatte: «Jure agis fateor, sed si quaererem istae tres sjllabae quid significent, cum dicitur varies, nonne posses digito ostendere, ut ego prorsus rem ipsam viderem, cuius signum est hoc trisillabum verbum, demonstrante te, nulla tamen verba referente? » (De Magistro, cap. 111, 5). E, come la parete, vi sono tante cose che possono essere indicate senza parole: «omnia corporalia ... idest omnia quae in corporibus sentiuntur» (De Magistro, cap. 111, 5). Di là dal segno si può sempre cogliere, infatti, la cosa significata. Adeodato conviene col padre in questa possibilità, la quale sussiste tuttavia limitatamente alle cose visibili e - precisa - non ai soli oggetti, ma anche alle azioni, perché, come si può indicare con il dito la parete, così, ad esempio, si può mostrare il camminare, camminando, il bere, bevendo, ecc. Scriverà, a questo proposito, nel Libro X: "Iam enim ex his non unum aliquid aut alterum, sed [72] milia rerum .." (De Magistro, cap. X, 32. 199). L'uomo ha un'esperienza diretta delle cose; senza di essa, anzi, egli non può apprendere nulla. La parola o il segno hanno un significato se e in quanto colui che li percepisce ha già una conoscenza della cosa nominata; se, al contrario, questa esperienza diretta non c'è stata, non si può capire il segno. E porta esempi. Prendiamone uno. Dice Sant'Agostino che lesse un giorno la frase: "Et saraballae eorum non sunt immutatae» (Dan. 111, 94), senza capire il significato di «saraballae» dato che nessuno fino allora gliene aveva spiegato il significato. Il che dimostra, appunto, che, se non c'è stata prima la conoscenza della cosa, la parola che la indica non è sufficiente a farla conoscere. Il Quod priusquam reperissem, tantum mihi sonum erat hoc verbum: signum vero esse didici, quando cujus rei signum esset inveni; quam quidem, ut dixi, non significatu, sed aspectu didiceram. Itaque magis signum re cognita, quam signo dato ipsa res discitur » (De Magistro, X, 33). Prendiamo un altro esempio. Il maestro che deve insegnare non il significato d'una cosa, ma il senso di un'idea. Pronuncia una frase, la definizione cioè, e crede d'aver con questo fatto entrare il nuovo concetto nella mente dell'alunno. In realtà, egli non ha insegnato nulla. Se quello scolaro ha imparato, ciò si deve al fatto che già possedeva, nella sua mente, un'idea corrispondente a quel concetto, idea sulla quale non ha fatto che ritornare, stimolato dalla viva voce dell'insegnante che l'ha resa intelligibile. Un esempio classico, del resto, ce lo dà Platone nel Menone. Lo schiavo ignorante, interrogato da Socrate su una questione di geometria, risponde subito. Sbaglia, ma risponde. Come mai? La ragione è chiara: non ha bisogno di maestri, gli basta rientrare in se stesso. E l'opera dell'interlocutore, volta, in un secondo momento a correggere il suo errore? Non è altro che un aiuto, una sollecitazione a scoprire meglio, successivamente, attraverso questioni parziali, la Verità, Verità però che lo schiavo ignorante già ha in sé (De Magistro, XII, 40).

 

 

INSUFFICIENZA DELLA PAROLA

Vediamo, intanto, le prime conclusioni che si possono trarre dal dialogo del De Magistro. Niente si può insegnare senza segni [73] e senza parole; i segni, che non si possono insegnare con le parole, si possono invece spiegare con le cose, questi sono i risultati provvisori raggiunti. Come si vede, mentre in un primo momento il linguaggio figurava come mezzo di comunicazione delle idee, ora, tale possibilità scompare. Ci aspetteremmo da Sant'Agostino una dimostrazione, almeno, del "commemorare", azione propria del linguaggio, ma egli ne accenna soltanto, senza approfondire l'argomento, per cui resta sin d'ora provata, e lo sarà maggiormente nell'ultima parte del dialogo, l'insufficienza della parola nell'insegnamento. Il che conferma la posizione di Sant'Agostino nella teoria e nella pratica educativa, già definita all'inizio, di antesignano di quello che oggi si chiama metodo intuitivo, per il quale l'insegnare è un mostrare, attraverso l'esperienza viva, la realtà che si vuol far conoscere: "is me autem aliquid docet, qui vel oculis, vel ulli corporis sensui, vel ipsi etiam menti praebet ea quae cognoscere volo." (De Magistro, X, 36). Ma soprattutto questa posizione è avvalorata dal fatto che egli ha saputo enunciare tutte le difficoltà che questo metodo presenta, offrendo così materia di studio e di ricerca ai pedagogisti posteriori fino a quelli del tempo attuale che s'affaticano a risolvere le stesse difficoltà poste da Agostino. Di esse, la maggiore è senz'altro quella che deriva dalla impossibilità di mostrare le cose direttamente in modo tale da non falsare la realtà.

 

 

PERICOLI DEL METODO OGGETTIVO

Torniamo, per un momento, al Capitolo III del De Magistro. Sant'Agostino chiede ad Adeodato come farebbe egli a mostrare a un passante l'azione del camminare se, in quel momento, camminasse di già. Adeodato risponde che camminerebbe più in fretta, così da attirare l'attenzione sua. Ma - osserva Agostino - il passante finirebbe con lo scambiare il camminare con l'affrettarsi, cadrebbe, quindi, in errore, dimostrando così l'impossibilità di mostrare un oggetto o un'azione senza segni: "fateor rem non posse nos monstrare signo" (De Magistro, III, 6). Tale pericolo di fraintendimento va anche più in là. Qualora, infatti, fossi fermo e mi mettessi a camminare, potrebbe ancora darsi il caso che il passante scambi quel mio camminare [74] con l'andar piano o in fretta, che confondesse, insomma, l'essenza con gli accidenti. Lo stesso pericolo sussiste per le cose. Se infatti indico una rosa rossa, per esempio, il fanciullo, che mi ascolta, potrebbe credere che soltanto se colorate di rosso le rose possono chiamarsi così, e fraintendere in tal modo il mio dire. Concludendo, il metodo oggettivo si dimostra più pericoloso di quello verbale, in quanto se questo dà parole vuote di significato, quello induce a veri e propri errori, si presta a equivoci e fraintendimenti. Ambedue provano l'impossibilità d'insegnare mostrando le cose. Senonché - e porta l'esempio del pantomimo - si può parlare anche coi soli segni; si può farsi capire e mostrare le cose anche senza parole. Vediamo allora quando una cosa si può dire che è mostrata direttamente. Due possibilità in tal senso sono state fin dall'inizio del dialogo prospettate: o far vedere direttamente gli oggetti, oppure mostrarne una riproduzione con tavole, disegni, fotografie, ecc. Nel primo caso, però, sorge subito una difficoltà: che è impossibile, cioè, mostrare tutti gli oggetti; nel secondo, non v' è più motivo per non usare, al posto del disegno, la stessa parola, che è pure un "segno", se pure verbale. Ritorniamo però, per le parole, alla anzidetta loro incapacità d'insegnare, e, per i disegni e le rappresentazioni con azioni (esempio del camminare), al pericolo di fraintendimenti. Anche quest'altro tentativo di dimostrare la possibilità, nell'insegnamento, del metodo oggettivo, è così fallito.

E' dunque impossibile insegnare? Parrebbe di sì, se si pensa che il maestro non ha a sua disposizione se non le parole e le figure. Ma Agostino non si rassegna ancora ad una così scettica conclusione. E porta un altro esempio. Se uno, ignaro dei tranelli che si tendono agli uccelli con le panie e col visco, si incontrasse con l'uccellatore, armato dei suoi strumenti, intento però solo a far la sua strada senza avere ancora cominciato l'opera sua; e, vistolo, affrettasse il passo e, come avviene, seco stesso meravigliato, si domandasse che volesse dire quell'attrezzatura: e l'uccellatore, vedendosi osservato e ammirato, per far mostra di sé, tirasse fuori la canna e con la canna e il falcone colpire e gettare a terra, impadronendosene, un qualche uccelletto, che gli fosse passato vicino, non avrebbe egli insegnato al suo spettatore "nullo significatu, sed re ipsa, quod ille scire cupiebat?" (De Magistro, X, 32). Adeodato fa riferimento all'esempio del camminare, dal quale [75] questo, secondo lui, non differisce: "neque enim video, et hic totum illud aucupium esse monstratum".

Ma, rincalza Agostino, "si ille ita intelligens esset, ut ex hoc quod vidit, totum illud genus artis agnosceret: satis est namque ad rem, et de quibusdam rebus, tametsi non omnibus, et quosdam homines doceri posse sine signo." (De Magistro, X, 33). In altre parole, se il discente sa astrarre dall'esempio che gli viene presentato il concetto, vede nell'esempio stesso la cosa. Il Guzzo osserva a questo proposito: "Per sé l'esempio rende così poco, senza bisogno di espressione, la cosa stessa, che, da sé, nulla dice a chi non sappia vedervi dentro il concetto: che, evidentemente, deve già conoscere per altra via, più adeguata, se sa riconoscerlo in un suo esempio limitato e particolare (A. Guzzo, De Magistro, pag. 86).

Anche quest'esempio non è valido a comprovare la tesi, per le ragioni già dette nel Capitolo III, ragioni alle quali ne va aggiunta un'altra, assai pericolosa, invero; se così fosse, la scuola non sarebbe più necessaria, bastando la capacità intellettiva ad ammaestrare attraverso l'osservazione della realtà. Ma quanti sarebbero questi autodidatti? Quei pochi che hanno un'intelligenza superiore. E i tardi, i meno intelligenti? Verrebbero ad essere abbandonati a se stessi. Osserva A. Guzzo: "Anzitutto, se occorre la mia capacità di intendere, dal singolo, l'universale, perché sia sufficiente indicazione d'una cosa l'eseguirla di fatto, non è l'esecuzione, ma la mia capacità d'intendere, quella che mi mostra, o mi insegna che sia la cosa. E l'esecuzione non potrà vantarsi d'insegnarmi essa l'essenza della cosa, ché, al contrario, essa insegnerà qualcosa solo a chi qualcosa sappia vederci dentro: cioè riceve, non dà significato: e lo riceve dalla mente, ben lungi dall'insegnarle qualche cosa ... » (A. Guzzo, op. cit., pag. 88).

 

 

AUTODIDATTICA, NON INSEGNAMENTO

Tutta questa disamina, fondata sulle possibilità dell'insegnamento in relazione all'esperienza sensibile, porta alla conclusione che non sono le parole né i segni, né gli oggetti che insegnano allo scolaro; se egli impara ciò, si deve ad una proprietà della sua mente, ad un atto d'intuizione, per il quale si manifesta ad essa la Verità. Conclude Sant' Agostino: "De universis autem quae intelligimus non loquentem qui personat foris, sed intus ipsi menti praesidentem [76] consulimus veritatem, verbis fortasse ut consulamus admoniti." (De Magistro, XI, 38, col. 696). Il maestro umano non può insegnare nulla. Dimostrato che il sapere, la scienza non possono venire dall'esterno, che lo scolaro non può imparare nulla dal maestro che parla - perché, quand'anche ciò fosse, ogni uomo ha una sua mente diversa da quella degli altri, che non può pensare come pensano gli altri - l'insegnamento si riduce a una vera e propria autodidattica, per la quale la verità si svela immediatamente al pensiero dell'uomo che già la possiede innata; autodidattica, che non elimina tuttavia l'azione del maestro umano. Questi infatti sarà chiamato, nella teoria dell'illuminazione agostiniana, a stimolare la personale attività del discente, onde egli possa ascoltare nel suo intimo la voce della Verità, del vero Maestro dell'uomo, che è Dio.