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lettera I  a Giovanni Boccaccio

Immagine di Giovanni Boccaccio a Firenze

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LIBRO SECONDO

LETTERA I

A GIOVANNI BOCCACCIO

 

Aut tacere oportuit

 

Si lagna delle ingiuste censure fatte ai suoi versi dai cittadini di Firenze, e ad una ad una vittoriosamente le combatte.

[Venezia, 13 marzo 1363]

 

 

 

O tacermi, o nascondermi, o meglio ancora non esser nato io doveva per pormi in salvo da queste latranti Scille. Non è cosa da prendersi a giuoco il venire in cospetto del pubblico. Denti han mordaci e rauco importuno l'abbaiare cotesti cani: quindi il pericolo, quindi la noia, ed a causar l'uno e l'altra, io preso aveva il partito di starmi in silenzio, e fra le tenebre. Ma vinto dall'ardore fui spinto dove non volli: fatto spettacolo al popolo, ecco mi mostrano a dito coloro appunto dai quali non essere conosciuto è principio di gloria. Io non ho il privilegio di Scipione a cui, com'è scritto, mai non abbaiarono i cani quando di notte tempo saliva sul Campidoglio; sebbene siavi chi dica questo potersi ottenere per virtù di farmaci o d'incantesimi.

A me dovunque io vada, quantunque frammisto alla folla, si fa d'attorno e m'assorda quella canèa, né vale ch'io muti strada: ché pieno ne trovo ogni vicolo. E fossero pure cani di razze generose, ché io non li temerei, siccome quelli che rari sono, e difficilmente ti assalgono se alcun non gli aizzi: ma questi di numero sono infiniti, rochi, molesti, e tali che chi non possono aggiungere col morso, infestano e annoiano con incessante latrato. Elegantemente Anneo Seneca, al quale avvenne alcun che di simile, - voi siete botoli, disse, latranti alla vista delle persone cui non conoscete: - e botoli sì veramente sono costoro, che se non m'odiano, non mi conoscono, e latrano e mordono per la paura: della quale non hanno cagione alcuna, e perché io non mi trovo d'avere i denti di Teone, e perché si misero essi d'ogni morso al sicuro, tenendosi silenziosi e appiattati, senza considerare di quale impudenza e di qual superbia sia prova il sottrarsi al giudizio d'ognuno e il farsi intanto giudice altrui. E come giudicar le parole di chi ostinato nel suo silenzio parola alcuna non proferisce?

Né nuova è già la razza di costoro, sì bene antica ed usa a dar noia non solamente a chi, com'io sono, è degli uomini l'ultimo, ma a' più grandi e a' più celebri, qual fu Girolamo, il quale di loro scrivendo agli amici: «Guardatevi, disse, dal mettere le vostre cose in pubblico, e non vogliate apprestare cibo agli schifiltosi: fuggite il consorzio di coloro che pronti sempre a giudicare degli altri, nulla mai vagliano fare essi stessi? sebbene io pensi che basti questo a giudicare di loro, e che quello ond'essi si adoperano a coprire la propria ignoranza, di questa fornisca manifesto argomento: per modo che quanto più si ascondano, tanto più si scoprano, e mentre col tacere rifuggono dal giudizio degli uomini, dal tacito giudizio dei sapienti sono condannati.»

Or se di questi cotali tanto ebbe timore, e consigliò di fuggirli un uomo sì grande, che dovranno fare gli altri, che dovrò io? Meno per timore che per odio e per disprezzo di questa genìa, e per non dare a quelle male lingue materia e soggetto di maldicenza, molte volte a me stesso ed agli amici miei porsi salutare consiglio: a me di non scrivere più nulla di nuovo, ad essi di non divulgare alcuna cosa che avessi già scritta. Né di loro lagnarmi posso io, ma di me solo che venni meno al proposto. Poiché tanta essendo in me la volontà di comporre, avrei dovuto scrivere e poi cancellare lo scritto: ché così facendo, avrei preso delle lettere il bramato diletto, ed evitato i latrati ed i morsi della invidia.

Ma come pronto allo scrivere mi faceva il piacere che ne provava, così a cancellare lo scritto mi rese tardo ed inerte un sentimento di compassione. Sentii pietà di quelle innocenti fatture: dura cosa è l'uccidere persona amata: parvemi d'incrudelire contro i miei nati, colle mie mani struggendo i parti dell'ingegno mio. Eppure lo feci: come Abramo del figlio per sommissione ai divini voleri, così de' miei scritti feci pur io sacrificio e, se a me si conceda usar linguaggio poetico più che cattolico, dirò, che accetto stimandolo a Febo ed a Pallade, pensai di aver tolta in gran parte materia alla rabbia e all'invidia de' miei detrattori. E così avessi potuto o nulla scrivere, o tutti dare alle fiamme gli scritti miei, come a coloro avrei fatto manca la voce, e a me tranquilla e riposata la vita. Ma nol potei. Avessi almeno potuto a quelle poche cose che non distrussi dar l'ultima lima! tanto bastava a darmi un po' di quiete finché vivessi: ma neppur questo mi fu concesso, e accagionare se ne deve l'indole mia, che nulla sa tenere nascosto agli amici, nulla negare, e quindi è l'origine prima del male onde mi dolgo. Fra le tante sentine una. Quando, or son già molti anni, dopo la morte di quel gran Re per comando del Romano Pontefice io mi condussi a Napoli, opportuno e dolce conforto alla noia di quella dimora fummi Barbato da Solmona.

Avidissimo di ogni letteraria produzione, non so dirti quanto ansioso ei sia delle mie, nelle quali non al merito della materia, non all'eleganza delle parole, ma bada solo all'autore, e sol che sappia esser mie, vuol possederle, anzi senza pur saperlo di certo, gli basta l'averlo di lontano subodorato. Essendomi dunque ei di quel tempo continuo a lato, avvenne che belli assai gli paressero alcuni versi dell'Africa, della quale la fama allora nascente erasi sparsa e diffusa più assai ch'io non volessi, e poi da tante più gravi cure soffocata per vecchiezza si tacque. Modesto di natura, e con tutti gli amici, ma con me specialmente discretissimo, sentì vergogna di farmene aperta domanda: e pose di mezzo persona che, quasi grandissimo dono, con preghiere e con suppliche me li richiese. Feci forza a me stesso e li negai, con amichevole libertà biasimando quell'intempestivo desiderio: di che arrossendo ei si diede pace, e addusse a scusa il prepotente amor suo. Ciò però non ostante nei dì seguenti tornò ad insistere, ma per opera di mediatori. Il volto suo giovanile, facile a coprirsi di subitaneo rossore patir non poteva la durezza del mio rifiuto: e sempre pronti trovava all'uopo gli intercessori: perché assai più facilmente uomo s'acconcia in servigio degli amici a farsi ad altri importuno, che non a pro di se stesso. Or tu già intendi come la cosa andasse a finire.

Stetti fermo in sul niego quanto potei senza far torto all'amicizia: ma non avendo quelle preghiere mai fine, io che agli amici non seppi mai contrastar senz'arrendermi, mi detti per vinto, e a lui cui veramente negar non potrei cosa veruna, permisi di prendere, imperfetti come erano, e bisognosi ancor della lima, que' versi in numero, parmi, di trentaquattro, a patto peraltro ch'egli non se li lasciasse mai fuggire di mano. Pronta sempre la cupidigia al promettere, ma non d'un modo tenace nel mantenere, accetta ogni condizione, finché le venga fatto conseguire quello che brama: ed egli promise, ma ruppe, io credo, quel giorno stesso la data fede. Chè da quel giorno in poi mai non m'avvenne di metter piede nella biblioteca di un letterato, ov'io non trovassi al primo ingresso, come si narra dell'epigramma scritto nel tempio sul tripode di Apollo, quei poveri versi, alla cui nativa rozzezza crescevano bruttura gli strafalcioni indottivi da copisti: disgrazia e lamento comune a tutti quanti sono che scrivono. So che di perdono è degnissima una colpa che figlia è d'amore; ma negar non si può che quell'amico per desiderio di procacciarmi lode, e di farmi stimar dagli altri quanto egli mi stima, e sé medesimo e me espose alle critiche di molti censori. Ben io però so chi siano costoro, né punto di essi mi meraviglio. Li riconosco alla voce, li ravviso all'accento: sono i nostri concittadini, a biasimare le cose altrui acuti, prontissimi, pigri del resto, ed inerti, per non dir altro di più mordace contro loro, de' quali tutto ho in amore dai costumi in fuori. Or qui mi cade in acconcio il fare una digressione.

Quel Federico, che, in età dalla nostra non molto remota, ultimo di questo nome resse l'Impero Romano, principe prudentissimo, germano d'origine, italiano per consorzio, e come tale dalla natura e dalla pratica dell'indole e dei costumi di quelli e di questi fatto apertissimo, soleva dire: essere i Tedeschi e gl'Italiani le due più grandi e più nobili nazioni del mondo: molto però differire gli uni dagli altri, e trarre entrambi profitto dal premio, ma non entrambi dalla pena. E questi e quelli dal premio ricevere eccitamento alla virtù: ma gl'Italiani, mercé della indulgenza farsi migliori, ed essere riconoscenti alla clemenza del Principe: laddove nei Tedeschi l'impunità ingenera orgoglio, la misericordia si accagiona a paura, quanto più gli perdoni tanto più si fanno audaci. Perché concesso agl'Italiani il perdono è senza pericolo, anzi partorisce utilità, mentre coi Tedeschi anche il solo differire i supplizi è sommamente pericoloso. Del resto doversi gl'Italiani trattare con riverenza, i Tedeschi con familiarità; ché quelli di onori, questi si piacciono di affettuosa fiducia.

Le amicizie cogli Italiani doversi fuggire, perché curiosi troppo e troppo severi censori de' vizi altrui, di tutto si fanno a giudicare, e comunque vero o falso sia il concetto che si formano delle cose, sol che si faccia diversamente da quello che loro ne pare, motteggiano e deridono; e questo perché si tengono tutti da tanto che stimano poter ciascuno farla da giudice de' fatti altrui. Per lo contrario potersi abbandonar ciecamente al consorzio dei Tedeschi, i quali alieni sempre dal giudicare gli amici, nulla cercano nell'amicizia dall'amore in fuori, e stimano di quella esser sicuro argomento il familiare consorzio. Tutto questo io volli dirti perché tu sappia qual fosse la sentenza di sì grand'uomo intorno alle nostre amicizie, ed alla mala abitudine del giudicare. Del resto io non vo' dire ch'ella al tutto sia vera: questo per altro mi sembra poter con certezza affermare: che verissima ella è da tenersi, se non di tutti gl'Italiani, ma dei soli nostri concittadini intendasi proferita; le familiarità ed amicizie dei quali altro non sono che censure, né già cortesi e placide, ma inesorabili, acerbe per guisa, che ognun di loro, benché nella mollezza di vita vinca Sardanapalo, si dimostra nel giudicare degli altri più rigido di Fabricio e di Catone.

E lasciando da parte i giudizi di tutte le altre cose a me non pertinenti, io dico che in fatto di lettere essi portano sentenza nulla potersi dire di buono da quello in fuori che tutte riempia ed introni le loro capacissime orecchie, e secondo il bisogno che ne hanno, le gratti, le conforti, le plachi, le lusinghi e le ricrei; impresa non che a Cicerone ed a Virgilio, ma all'uno e all'altro congiunti insieme, per quanto io credo, impossibile. Non lessero, io credo, o non rammentano costoro il detto di colui del quale non molte cose mi piacciono, ma questa assaissimo: «Fa male chi troppo ne' libri altrui aguzza l'ingegno.» Or quanto peggio non dovrà dirsi che faccia chi tanto scrupolosamente ne' libri altrui lo aguzza e lo affina da ingenerarne odio e fastidio? e nei libri propri non solamente imbecille, ma senza favella, senza lingua, e quasi senz'anima si dimostra? Oh! sì davvero che quanto so e quanto posso con cotesti sottilissimi ingegni nostri io mi rallegro. Que' pochi miei versi passarono intatti non il Po solamente e l'Appannino, ma l'Alpi ancora e il Danubio, né in luogo alcuno, per quanto io sappia, incontrarono censura fuor che nella mia patria. Oh! acuti e maligni, ma non maturi né solidi ingegni! Che fuoco è cotesto che v'arde?

Qual veleno vi attossica?

Quale sprone vi punge? Non la rabbia dell'Etna che vomita fiamme, né la procellosa Cariddi, o il fragore del mare commosso a tempesta, o quello del tuono che rimbomba per le vie del cielo a voi sonerebbero più tremendi e più ingrati, che il nome non suona di un vostro cittadino. Chè non di me solo si tratta. Chiunque si sforza ad emergere dalla folla è tenuto qual pubblico nemico. Or perché mai? Forse che quadra anche a voi quella ragione addotta da Seneca là dove dice «vi torna» il conto che nessuno sia creduto buono», quasi che l'altrui virtù sia tacito rimprovero ai delitti di tutti?

Credimi o tu, mio dolce amico, che meco comune soffri l'ingiuria ed il risentimento, nella patria nostra la lode di uno si converte in vituperio di molti, specialmente se della loro ignavia si metta al paragone; ond'è che niuno tanto essi avversano quanto un loro cittadino che a qualche grado di eccellenza si sollevi; né questo avviene per altro se non perché chi si piace delle tenebre tanto più la luce ha in fastidio quanto più l'ha vicina. Vuoi tu veder chiara la cosa più ancora del sole? Pensa quante volte a memoria nostra e degli avi, costretti a sostenere poderosissime guerre, quantunque nella città fosse copia d'insigni personaggi nelle arti della guerra e della pace esperti e dottissimi, or alla Gallia Cisalpina, ora al Piceno o ad altra terra si volsero per averne i capitani, meglio acconciandosi ad esser vinti sotto la condotta di un estraneo, che ad uscir vincitori se guidasseli un cittadino. Tanto vergognano di esser debitori del pubblico bene a un duce proprio, che soffron meglio si acquisti al nemico la palma, che al cittadino la gloria: né so se questo da sola invidia proceda, o da paura che figlia è dell'invidia, perché temano non la virtù di quegli uomini egregii in opere gloriose manifestata dia risalto all'ignavia di quelli in mezzo ai quali essi vivono.

Né so veramente ond'essi abbian tolto questo costume: ché loro al certo non venne dai padri e fondatori nostri, i Romani; ma d'ogni strania dottrina e d'ogni esotica consuetudine ammiratori, i salutari paterni esempi ingratamente disprezzano. Dritto è dunque che iscritti sui trofei delle romane vittorie i nomi dei cittadini di bella gloria risplendano, e le funeste memorie delle nostre sconfitte quella pur serbino d'estranei duci, che alla vergogna nostra il peso accresce d'una vergogna avveniticcia. Oh pestifera invidia peggiore di tutti quanti sono i morbi dell'animo! Di te si dice che recasti la morte al genere umano; e pur non cessi dal fargli guerra. Che altro vuoi tu di lui? Qual cosa potrà bastare a saziar la tua rabbia, se non ti basta d'averlo morto? Miseranda e infelice è la condizione de' corpi, ma più deplorabile assai quella è degli animi.

Avvi chi dice soffrire il leone febbre continua: sebbene sia pur questa per avventura da riporsi fra le vane ciance che degli altri animali, e specialmente dei più grandi si spacciano, e a questa volgare opinione contraddice Plinio, che seguendo l'autorità di Aristotele afferma sola malattia del leone esser la noia. Ma un medico mio amicissimo, per la salute d'un giovanetto suo figliuolo paternamente sollecito, giurando affermavami che mai nemmeno per un momento né di giorno né di notte libero dalla febbre lo aveva trovato. Se questo possibile fosse, si lasci ai medici il definirlo; ma ben lo rende credibile il leggere nel settimo libro De' naturali di Plinio che Mecenate perpetua ebbe la febbre. Lo stesso avvenir della capra a noi lasciò scritto non un uomo del volgo, ma quel famoso e dottissimo che fu Varrone nel libro Delle cose rustiche, ove il nome di quell'animale dice derivato dal carpire. Ma oh quanto più grave, quanto più ardente d'ogni altra è la febbre dell'invidia, cui né pianta né fronda dà refrigerio, né giova il rezzo o la frescura, e sola si pasce del danno, della morte e della infamia del prossimo!

Era scritto nella legge delle locazioni che il colono cui fosse nata una capra non la dovesse pascer nel fondo: e Varrone stesso fa fede che a' tempi suoi si osservava la legge, come pur oggi la osserva qualunque è diligente padre famiglia. Oh! perché non ha d'un modo quell'ottima madre ch'è la Natura con immutabile sua legge prescritto che nel suo regno e nell'umano consorzio mai non mettesse piede qualunque di coloro che, rosi il cuore da mala invidia, i beni che sono comuni divorano e struggono? Ora che calpestati da cosiffatto gregge sono i paschi più pingui, e che alle piante più nobili s'attacca il dente dell'invidia, che altro saranno, se non distintivo di gloria le cicatrici? Ma che sarà di quei rabbiosi? qual governo vorremmo noi fare delle nostre febbricitanti, graveolenti, e lascive caprette? A chi tace insultano, a chi risponde fanno il viso dell'arme: veri nemici, e di chi vorrebbe pur tollerarli con pazienza, arroganti dispregiatori.

Ma di ciò che riguarda le persone degli accusatori e che d'ogni causa forma la prima parte, a sfogo dell'animo ho parlato abbastanza. Facciamoci ora al subbietto. Quel brano acerbamente distaccato dal mio poema, ed anzi tempo divulgato tratta della morte e del compianto del cartaginese Magone, figlio che fu di Amilcare, e fratello di Annibale, mandato coll'esercito in Italia nella seconda guerra Punica, e morto d'una ferita che ricevette in Liguria navigando verso la patria nel mar di Sardegna. A meglio fuggire la taccia d'invidiosi si fanno costoro in sul principio dalle lodi, e quei versi, esaltano a cielo, e li dicono per se medesimi assai belli, ma soggiungono non convenirsi alla persona a cui da me furono messi in bocca. Giusta e sensata la critica se fosse vera. Conciossiaché non v'ha cosa per grave ed eloquente che sia, che non si debba biasimare, se allo stato ed alla condizione di chi la dice non si convenga; che anzi quanto più eloquente, tanto più degno di riprensione è il discorso inopportuno: e appunto in questo è riposto quel non so che di nobile e di poetico di cui Cicerone negli Offici e Flacco ragiona nell'Arte poetica, senza le quali doti è inutile lo sperare che venga scritto alcun che di pierio e di divino. Ora imprendiamo ad esaminare con quanto d'arte e d'ingegno i miei censori si siano adoperati a porre in sodo questa calunnia. Perocché tu devi sapere che queste ciance già è tempo, ma spicciolate è vaganti di bocca in bocca aveva io sentito: non però tutto ancora conoscendo il tenore dell'accusa, quel vano mormorio rimeritai di disprezzo e mi tacqui. Non prima d'oggi tutto ho saputo per filo e per segno da un giovane religioso nostro concittadino, che, amandomi molto, l'invidia loro combatte, stimando quasi sacrilegio che uomini, com'ei dice, ignoranti, nel giudicare gli scritti miei tanto saccenti si dimostrino.

Ei mi assicura che di questo prendono molestia tutti quelli che nella patria nostra mi serbano amore, e che a difesa del vero anch'essi sogliono combattere per la mia causa: ma tanto mostrarsi quegli altri nel loro avviso pertinaci, che si pare abbastanza in essi il proposto di cercare non la verità delle cose, ma l'infamia del nome mio. Mentre questo ei mi narrava gli scintillavano gli occhi, gli tremolava incerta e rotta la voce, e tanto ardeva di sdegno, che a mala pena trattenne le lacrime. Perché fatta ragione dell'amor suo, e di quell'impeto giovanile, con buone parole lo confortai, e lo persuasi non doversi abborrire dalla sorte che s'ebbero comune i più grandi dei filosofi e dei poeti; anzi doversi quella desiderare da chi per diritta via si sforza di arrivare alla gloria: i metalli lucidi e duri col riposo contrarre la ruggine, coll'attrito e col moto farsi splendenti siccome l'oro. Ed egli allora, frenata quella tempesta d'amore e di sdegno, tutte le cavillazioni mi ha esposte de' miei aristarchi.

Dicono dunque dapprima, non in queste ma in melate parole, onde pare che loro incresca il dirlo, quella vigoria di discorso e quella copia di lamenti non convenirsi ad un moribondo, perché male si acconcia tale e tanta gravità di sentenze a quell'ora suprema. In due capi adunque, come tu vedi, questa prima calunnia si parte: non aver potuto un uomo che muore mandar fuori tutte quelle voci, né con tanto d'arte disporle. Ed io fuori dell'uso delle dispute più solenni, senza distrarmi nelle altre censure, a questi due capi voglio subitamente rispondere come meglio mi dettano la memoria e l'ingegno; ché non deve il guerriero lasciar tempo al nemico di addoppiare le percosse, e stanco poi vendicarsi con altrettante, ma, colpo a colpo opponendo, l'avversario ora prevenire, ora respingere, e meditare non la vendetta, ma la vittoria. Primieramente adunque io so bene esser de' moribondi esauste le forze, né poter essi fare discorsi lunghi, artificiosi, eleganti. So che di Cristo solo fu scritto aver mandato fuori una gran voce spirando: fatto mirabile ed unico, per lo quale si volle dimostrare ai circostanti esser lui che moriva cosa maggior che non è l'uomo: e scosso da quel miracolo confessò il Centurione ch'era figlio di Dio. Appena con un filo di voce (dice Girolamo dichiarando quel passo di Marco Evangelista), o senza voce affatto moriamo noi figli della terra.

Egli che discese dal cielo spirò mettendo altissima voce. Or quello che per me si risponda a' miei censori agevolmente già vede chiunque per orgoglio o per invidia cieco non sia dell'intelletto, ed io mi vergogno di dar risposta ad inezia sì fatta. Ma poiché farlo è forza, dirò che quelle parole non ad un moribondo lo misi in bocca, ma ad uno che la morte aveva già vicina, e se la vedeva d'appresso. E in questo stato chi è che ignori non i dotti soltanto, ma e gl'idioti esser soliti a proferire e molte e gravi parole in meravigliose sentenze? Chi è che ignori esser quelle soventi volte, né saprei dirne il perché, quasi profetiche, e degli eventi futuri annunziatrici? Sebbene pertanto la morte già presente spenga il lume dell'ingegno, e tronchi alla voce le vie, la morte vicina l'una e l'altra rinvigorisce ed avviva, e al prigioniero che ha già il piè sulla soglia per uscir dalla carcere dà forza a volgersi indietro, ed a vedere da quante pene e da quanta miseria vada prosciolto.

Nessuno per vero dire può tanto bene giudicar di una cosa, quanto colui che fattone lungo esperimento nulla più teme, nulla più spera, e libero ha l'animo da tutte passioni. Ben potrei molti esempi recare in mezzo dei filosofi, e delle storie; ma meglio io mi piaccio di quegli ne' quali ingannar non mi posso, perché con questi occhi e questi orecchi io stesso li vidi e li ascoltai. Fra coloro ch'ebbi per molti anni, siccome volle fortuna, compagni in questo travaglioso e breve stadio della vita, fuvvi un cotale dal cui labbro in tanto tempo o non mai, o rarissime volte mi venne udita una parola che non fosse licenziosa, avventata, superba, torbida, inquieta, collerica, scandalosa. Né v'era a farne le meraviglie: il discorso e il tenore della vita s'acconciavano alla persona. A udirlo l'avresti detto non un uomo che parla, ma un cinghiale che ringhia, o un orso che rugge.

Anche a lui finalmente fu sopra colei che a nessun mortale vien meno, alla quale se i giudici miei ponessero mente, non a mordere gli scritti miei, ma penserebbero io credo alla vita e alla morte. Accorremmo a gara e per officio di pietà e per curiosità di vedere come morrebbe chi tale era vissuto. Or odi e stupisci. Come appena ei conobbe a sé vicina la morte, al volto, al gesto, alla voce si parve fatto tutt'altro da quello che era, e cominciato a parlare, accusò per tal modo se stesso, a tutti e a ciascuno per singolo diede tali ammonimenti e consigli, continuò fra sospiri infino all'ora estrema un così fatto sermone, che quantunque io mai non avessi approvati i suoi costumi, né lui amato giammai, me, e come di me credo avvenisse degli altri astanti, lasciò di se stesso perpetuamente ricordevole e innamorato. E Roberto re di Sicilia?

Quantunque uno sempre e costante e nel vivere e nel morire in lui fosse il tenore degli atti e delle parole, pure alcun che di più splendido e più sublime s'udì nella morte, e furono i supremi suoi detti come il canto del cigno, o per meglio dire degni di filosofo e di re, e veramente divini: ché dei pericoli imminenti a quel regno, e di tutti i casi avvenire parlò ai circostanti per modo, da far parere a lui presenti le cose che a tutti gli altri erano future. Ed oh! così quella lingua simile al suo avesse trovato l'animo e gli orecchi degli uditori: ché non sì tosto quella infelice Campania, e quella un dì Magna Grecia or ultima Italia, da sì lieto stato e tranquillo a così trista e miseranda condizione sarebbero state travolte. Vedi tu dunque come cotesti professori di nuova e arcana filosofia tener vorrebbero per estinti e sepolti l'ingegno, la voce, e tutte le facoltà di un uomo ancor vivo, allora appunto che chi stava prostrato più si aderge e s'innalza. Tanto per il vicino pericolo l'anima si avviva e si purifica: tanto la morte vicina eccita e sprona alla virtù. E qui mi piace rammentar le parole che intorno a quell'ora meravigliando trovai in Cicerone: Allora, egli dice, massimamente l'uomo agogna alla lode, e chi visse altrimenti da quel che doveva, in quell'ora si pente de' suoi peccati.

E questa sentenza di un pagano a me basterebbe per confutare la seconda calunnia, che è: le parole da me messe in bocca a Magone non sue, ma parersi parole di un cristiano. Ed io di questa non meno che della precedente insulsaggine ammirato, credere non poteva che sotto il nostro cielo nascessero uomini capaci di così stolido ed avventato giudizio, parto di sterile ed ignobile intelletto, e indizio certo d'invidia e di mal animo. In nome di Dio, domando io loro, qual parola si trova in quei versi che propria s'abbia a dire sol de' cristiani, e non piuttosto di tutti gli uomini e di tutte le nazioni?

Il piangere, il dolersi, il pentirsi non sono cose naturali ad ognuno che s'appressa alla morte? Udisti già quel che ne pensi Cicerone: a che peraltro afforzarsi del detto di un testimonio in cosa di cui ciascuno nel mondo intero è testimonio a se stesso? Non ivi si legge mai proferito il nome di Cristo, che santo sempre e tremendo al cielo e all'inferno, fatta ragione de' tempi, nominare non si poteva: non un articolo di nostra fede, non un sacramento della Chiesa, non una dottrina dell'Evangelio, nulla insomma che appieno non si convenga ad un uomo dalla ragion naturale, dal proprio ingegno e dalla già compiuta esperienza delle cose tanto addottrinato, che ben soventi volte noi confessarci dovremmo meno dotti ed esperti. Può il proprio errore conoscere e sentirne conseguentemente vergogna e dolore anche chi non è cristiano: se non la mercede, il pentimento può essere uguale. Per questo da Terenzio leggiamo scritto nel Formione: Giovine io me conosco, e il mio peccato. E se parla in tal modo uom sano e robusto, come crederemo dover parlare un che infermo già si senta vicino a morire?

Ma di questo conoscere, confessarsi e pentirsi de' propri peccati bello è sentire ciò che dicessero non già Anassagora o Cleante, né fra i nostri Catone e Cicerone; sebbene Ovidio fra i poeti il più molle, e il più leggiero fra i filosofi, Epicuro. Sclama il poeta: Mi pento io sì: credete a un infelice, E del mio mal oprar sento il rimorso. E l'altro: della emenda, disse, è principio la conoscenza del proprio peccato. E piacque a Seneca la sentenza, poiché chiosandola egli scriveva: chi non conosce di peccare non può correggersi. D'uopo è che avverta il tuo fallo prima di cercarne l'emenda. E poco dopo: Fa' d'essere severo con te medesimo il più che puoi: esamina la tua vita, e sii tu di te stesso il primo accusatore. Che altro dice costui da quello che Salomone insegnò ne' Proverbi: «il giusto è il primo accusator di se stesso?» O che altro pur egli Seneca, quando scrivendo a Lucilio: i sogni, dice, raccontar non si possono che da chi veglia, e la confessione dei vizi propri è indizio di salute.

E Davide ne' Salmi: «Confesserò contro me stesso la mia ingiustizia al Signore (ecco la confessione), e tu perdonerai l'empietà del mio peccato (ecco la salute di chi si confessa).» Come che dunque solo il Cristiano conosca a chi ed in qual modo confessare si debba, l'esame di se stesso, il rimorso della coscienza, il pentimento e la confessione sono cose comuni a tutti gli esseri ragionevoli, e se ci facciamo a considerar le parole che dianzi recai di quel terenziano innamorato, troveremo che nulla ci disse meno di quello che poco prima aveva detto Davide, rammentandosi dell'illecito suo amore, e del commesso delitto in quel Salmo che fra tutti è notissimo: «Perché io conosco la enormità de' miei falli, e vedo sempre il peccato starmi di contro dinnanzi agli occhi.» Ben io peraltro mi avveggo che poco o nulla da cotesti miei correttori fu letto di queste che ho citato, o delle altre filosofiche sentenze di molti scrittori, ma specialmente di Platone e di Cicerone, delle quali, se noto non fosse l'autore, giurar potresti che furono scritte da Sant'Ambrogio o da Sant'Agostino intorno all'anima, a Dio, alle miserie, agli errori degli uomini, al disprezzo di questa vita, al desiderio dell'altra.

Né io qui starommi a rammentarle, perocché molte sono e notissime: ma se un poco di quello studio che li muove ad esser mordaci piacesse loro di volgere ad imparare quello che non sanno, troverebbero argomenti infiniti a persuadersi che la cosa è com'io dico, e forse vergognerebbero di aver messe insieme tante insulsaggini. Rimane il terzo capo d'accusa: con poco di avvedutezza aver io fatto parlare un uomo ancor giovane in quella gravità di sentenze che ad un'età già provetta si converrebbe. Oh! questa sì veramente che non giovanile, ma puerile sentenza deve reputarsi. Si facciano essi a rileggere tutti i trattati su tal materia, e nessuno troveranno, cred'io, che il principio della vecchiezza abbia fissato prima che all'anno quarantesimo sesto in cui lo stabilì Cicerone: la opinione del quale non avrei rammentata, s'egli non fosse che tutto è da raccogliere quanto insegna quel valentissimo; e se lo stesso Catone, per la cui bocca egli narra il vero, detto non avesse che quella era pure de' nostri maggiori l'opinione, per modo che a confermarla cospira una triplice autorità.

Or se questa si abbracci, che a favorire l'intento de' miei censori è la più acconcia, sarà dunque incredibile che a cagione d'esempio Tito, figliuolo che fu di Vespasiano, ed ottimo principe, perché morto a 42 anni potesse fare alcun sensato e maturo discorso, da un lato riguardando alla brevità di questa vita fugace, e dall'altro vedendo diradarsi al sopraggiungere della morte le tenebre degli errori? Se però ci piacesse seguire Agostino, assai più tardi secondo lui che non secondo Cicerone comincia la vecchiezza. Nel libro delle Questioni diverse egli ne assegna il principio al sessantesimo anno; e di quanto peso abbia a giudicarsi questa sentenza, fatte le debite ragioni del suo merito intrinseco, e dell'autorità dello scrittore, diffiniranno coloro che pensano nulla di grave potersi dire da chi già non sia vecchio decrepito.

Non io peraltro tanto ostinatamente a questa m'attengo che creda doversi rigettare tutte le altre: so che molti la pensano diversamente, e poiché troppo sarebbe faticoso il raccogliere di tutti le parole e il concetto de' molti che potrei, pochi soltanto ne addurrò in testimonio. Fra questi Isidoro, del quale ben di rado io mi valgo, avendo diviso in sei periodi il corso della nostra vita, il quarto, dice, è la gioventù, di tutti gli altri più forte, e finisce sui cinquantanni. Or che rispondono i miei censori? Piace loro acconciarsi all'opinione almeno di questo scrittore, più di tutti moderno, e che tiene il mezzo fra i termini posti dagli altri? Fidato alla bontà della causa io non ne rifiuto alcuno, da quelli in fuori che non fan differenza da giovane a fanciullo: e tali appunto si paiono i miei contraddittori, che stimano aver io parlato di un ragazzo o d'un bimbo, quando parlai di un capitano di anni giovane, ma forte di braccio ed agguerrito. Era pertanto nella pienezza del suo vigore la mente giovanile di lui a quella età pervenuta nella quale chi ancora a parlare non apprese perderebbe il suo tempo se studiasse retorica.

Giovane Cartaginese io lo dissi perché se chiamato lo avessi Cartaginese soltanto, poteva almeno sulle prime scambiarsi con Annibale a lui d'età maggiore e di fama. E a buon diritto doveva giovane dirsi in ragione dell'età sua, e in paragone del fratello, chi veramente giovane per quella, era di questo più giovane, non sì però che già uomo non fosse, ed in gravissime imprese dalla seconda e dall'avversa fortuna sperimentato. A che peraltro io mi sforzo a difendere come se debole fosse una causa, che da fortissimi argomenti è difesa, conciossiaché siano pronte le prove per dimostrare quello che all'età più ferma e più robusta stimano essi impossibile, avverarsi nella più verde e nella più tenera? Taccio Diadumeniano Antonino, che giovane non già, ma fanciullo, innalzato all'impero col vecchio genitore, quando secondo il costume, comune allora ai principi, arringò il popolo, trovossi aver parlato più accortamente del padre. Né voglio rammentar Clodio Albino, della cui giovinezza si narrano cose sì gravi che narrate di qualunque vecchio sarebbero maravigliose.

Di questi io mi passo perché fo ragione che nuovo suoni il loro nome ai miei censori, i quali più della storia studiarono la satira. Conosceranno peraltro Alessandro imperatore di Roma che in casi difficilissimi si porse nell'operare così prudente ed integro, così modesto nel rispondere, nel correggere tanto severo, tanto provvido nel deliberare da far persuaso ciascuno che lunga età non si vuole a divenir sapiente: conciossiaché la sua vita durò soltanto ventinove anni, tre mesi e giorni sette. Diranno che questi era vecchio? Ossiveramente estimeranno che costui, il quale con tanta lode di valore e di eloquenza in quel sovrano favor di fortuna, che alla prudenza è nemico, e partorisce l'orgoglio, seppe sostenere il grave peso dell'impero, sarebbe stato incapace di accozzare quattro sensate parole se fosse venuto a quel termine di morte, che di natura sua dell'animo umano fiacca l'orgoglio? Di lui non nei poemi, ove l'esagerare è permesso, ma nelle storie leggiamo scritto tanta severità aver usata colle milizie, che spesso tolse le armi ad intere legioni, e quelli ch'erano soldati chiamò cittadini senza punto temere l'esercito intero; e del fatto si adduce ottima la ragione, non essere nella sua vita cosa veruna che desse appicco a censura. E pur di lui in quella età narra lo storico Elio Lampridio essere stato di somma prudenza fornito, e tale che mai nessuno gli poté fare contrasto.

Or bene, costui che giovane assunse l'impero, e cessò giovane dal sostenerlo dopo averne fatto sì giusto e sapiente governo, egli che tutta la vita sua per la eloquenza del concionare rese famosa, doveva egli dunque ammutolire se toccata gli fosse non subitanea e violenta, ma naturale e tranquilla la morte? Ma costoro intesi a studi gravi e severi forse nemmeno queste cose seppero mai, nelle quali io vago di svariate letture mi avvenni per caso. Ignoran dunque pur d'Alcibiade quanto acuto fosse d'ingegno, né sanno come al più savio vecchio della Grecia, famosa allora per tanto senno, ei desse un consiglio, di cui tutti stupirono i vecchi della Grecia e del Lazio? Vero è che quello meglio che fruttò d'un animo alla sapienza abituato, fu semplice fiore, e però com'esempio si porge di singolare natura, non di virtù; ma tanto pur basta perché ognuno si persuada potere, non che un giovane, anche un fanciullo dir qualche cosa di efficace e di ammirando.

Ma chi sarà mai rozzo per modo ed idiota che non conosca quello Scipione a cui la gloria ed il valore meritarono il cognome di Africano? Nella funesta disfatta toccata presso il Ticino, il padre suo comandante supremo ed animosissimo dell'esercito, già gravemente ferito egli campò di mano ai nemici, ed era al dire di Livio sul primo fiore della pubertà, o a quel che dice Valerio, uscito appena dalla puerizia, e meritò tre corone per la triplice lode di aver salvato un cittadino, capitano supremo e padre suo, frutto riportando di gloria immortale da quella giornata, onde i più agguerriti ed esperti veterani non altro raccolsero che la vergogna della fuga: né a quell'acerba sua impresa fece contrasto la forza dell'avversa fortuna, l'aspetto della strage crudele, o la naturale debolezza dell'età sua; ché la vera virtù non teme i pericoli, e non tiene conto degli anni. E fu pur egli che poco appresso, come attesta Livio, essendo ancor giovanissimo, dal vile ed ignobile proposto di abbandonare l'Italia con incredibile fortezza e maturità di consiglio gli altri distolse. Giunto poi a ventiquattro anni, ed avviliti od uccisi tutti gli altri capitani, non temé sobbarcare egli solo le sue giovani spalle alla difesa della repubblica, e nella terra Ispana calda ancora e fumante del sangue de' suoi, assunse animoso e virilmente sostenne il comando supremo: e visto come il popolo, ponendo mente alla sua giovinezza, preso da dubbiezze e da timori già quasi si pentisse della improvvida scelta del capitano, alle congregate tribù tenne un discorso così magnifico ed eloquente, che dissipata ogni ombra di diffidenza, risvegliò negli animi tutti l'estinto valore, e tutti incuorò colla speranza di una piena vittoria. Oh! sì veramente è da credere, io stimo, che giunto al letto della morte in età più provetta, nulla sarebbe stato capace di dire costui che ancor giovane in cospetto del pubblico al più gran popolo della terra, discorde e diviso in mille sentenze, seppe parlando imporre la sua.

Né già d'una falsa fiducia lusingò quelle anime la giovanile baldanza; ché noto è al mondo come partito per quella provincia con invitto valore, cui piena rispose la felicità dell'evento, del padre, dello zio, della patria ei si togliesse compiuta vendetta. E non le belliche sole virtù, ma sì mille altre fanno quel nome risplendere di gloria immortale. Chi non sa quanta lode di continenza si procacciasse presso l'ispana Cartagine, quanto fido ei si porgesse anche ai nemici, quanto presso Suerone clemente a un tempo e severo? Di quella son prove il rispetto serbato alle matrone, e posta in sicuro ancor degli sguardi la loro pudicizia: del resto fan fede l'esercito ridotto in sommissione ad un volger di ciglio, il castigo de' rei, e l'arringa tenuta alle milizie. E quanto grande ei non apparve in cospetto del popolo e della curia, quando tornando vincitor dalla guerra, a Fabio Massimo vecchio venerando e principe sapientissimo del Senato, fermamente si oppose in cose che al supremo governo della repubblica si riferivano; e quantunque per quello parteggiassero i Senatori, con stupenda orazione egli lo vinse così, che poté vantarsi egli stesso, e il fatto rispose alle parole, d'avere giovane se non per altro, per la sua moderazione superato quel vecchio? Passò dalla Sicilia nell'Africa, e sa ognuno con quanta industria quelle schiere di fortissimi cavalieri da lui venissero armate ed agguerrite. E comeché dir si possa che nulla fece egli mai senza maturo consiglio, pure passandomi dal rammentar molte cose le quali meglio all'ardire ed alla fortuna che non al consiglio attribuir si potrebbero, e solo di quelle parlando che furono frutto dell'ingegno e della prudenza, rammenterò la dolcezza delle maniere, la cortesia de' modi, la forza della eloquenza, con cui non di Siface soltanto, re, al dir di Livio, barbaro, e dai romani costumi al tutto alieno, ma dell'implacabile suo nemico Asdrubale egli riuscì a conciliarsi la benevolenza. Dirò di quella singolare umanità e castità per cui intatta al marito restituì la bellissima moglie, ed un fanciullo di regio sangue venuto prigioniero nelle sue mani colmo di doni fece ricondurre allo zio, e con queste arti li vinse entrambi meglio che vinti non li avrebbe coll'armi. Ricorderò le gravi e sante parole, colle quali senza offenderlo punto redarguì Massinissa suo coetaneo, e carissimo, da feroce sdegno invasato, e dall'amore prostrato dell'animo, e come datogli conforto a superare il soverchio dolore, dalla misera passione prosciolto con provvide arti a più nobili cure lo sollevasse.

Parlerò infine di quel magnanimo ardire, e della sublime fiducia, con cui nel supremo momento rispose ad Annibale che chiedeva la pace. Che se tante cose mi vennero dette del mio Scipione, del quale molte più ancora dire potrei, egli è perché nessuno degli antichi capitani m'è più caro di lui, e nessun esempio meglio del suo vale a ribattere le insulse accuse, e la velenosa invidia di costoro. Chè cosa sarebbe fuor di dubbio (e mi piace dirlo e ridirlo perché cotesti sordi l'intendano), cosa sarebbe certamente più straordinaria e prodigiosa che un giovane gravemente infermo ed in cospetto della morte vicina poche parole a fioca voce sulla mortale natura e sui casi e le vicende dell'umana vita fra se stesso pronunciasse, che già non fosse il vedere da un giovane vinta con il discorso la pertinacia de' nemici, corretti i vizi degli amici, punite le armate legioni, e in fiero contrasto di opposte sentenze spiegata tal forza di eloquenza, che costrinse al silenzio i più sottili ed astuti capitani di Cartagine e di Roma. Imperocché tutto questo che io dissi, da lui fu fatto mentr'era ancora o adolescente, o presso al termine che l'adolescenza divide dalla gioventù, che è quanto dire a trent'anni o in su quel torno: laddove il giovane mio, se non toccava i cinquanta, aveva i quaranta oltrepassati, né per questo di giovane il nome cessava di convenirglisi. Ma se il fin qui detto non vale a farli persuasi, e tornano con loro inutili tutte le umane congetture; vorranno resistere ancora a quella verità che s'insegna da Dio?

Or se quel Dio, che nella pienezza de' tempi si fece uomo, comeché per la divina natura eterno, immenso e Signore universale, né capace di crescere e di scemare, conoscitore di tutte le cose e non bisognevole di tempo nessuno, poiché ebbe assunta la natura umana volle ai parenti, cioè alla madre vera e al padre putativo, crescer soggetto, e, a testimonio di Luca Evangelista, avvalorandosi e progredendo nella sapienza e negli anni, scelse come acconcio al principio della sua predicazione l'anno trigesimo della sua vita, chi sarà tanto audace che osi dire imperfetta quell'età che fatta fu sacra dalla scelta del nostro Duca? a Lui che non poteva, se non quando voleva, nascere e morire, chi mai prescrisse di non aspettare più oltre? Come più presto, così più tardi ei poteva cominciare ad insegnar predicando la via che al cielo conduce: ogni età per lui era acconcia: e, a torne il dubbio, fanciullo ancor dodicenne sedé fra i dottori, e disputando li fece rimanere stupefatti. Se dunque aspettar non volle oltre l'anno trigesimo, si conviene dire questo aver fatto non per proprio bisogno, ma per esempio nostro: perocché, come dice Agostino nel libro della vera religione, tutto quanto egli fece finché si degnò andare vestito della nostra natura, esser ci deve perpetuo documento di costume e di vita. A chiunque impertanto) di noi abbia in animo d'intraprendere alcuna cosa di grave importanza, egli coll'esempio suo fissò la mèta, perché né troppo presto da noi s'imprenda, né all'estrema vecchiezza si differisca l'insegnamento, l'operazione, la dottrina della virtù. S'acchetino dunque una volta, né più si arrovellino i giudici miei.

Non un fanciullo io misi in campo, né un adolescente; ma un giovane, cioè a dire uno che vecchio ancora non era: perocché chi da giovane non fece senno, delirerà quando è vecchio. Lo so ben io che molti, anzi innumerabili sono coloro, che tutte le parti della vita nella vanità, ne' piaceri, nella insania lascian trascorrere, e quasi che non collo studio e colla fatica si acquisti, ma portata sulle ali del tempo spontaneamente venga a noi la scienza, si confidano di venir sapienti quando sien vecchi: il che è come se il villano passasse fra il sonno e il giuoco il tempo della sementa, e poi sperasse raccogliere nella state una messe abbondante. Ma parmi che basti ormai di tutta questa erudita materia da me accozzata, per farne Di farmachi e di mel condita un'offa da gettarsi nelle canne bramose di coteste bestie latranti, e veder modo di assopire così codesto cerbero anguicrinito. Che se l'invidia di sua natura è implacabile, né v'è argomento che l'addormenti, sarà pure cred'io che a dimostrazione del vero, e a satisfare il desiderio de' seguaci suoi, e di te specialmente, che sei da quei latrati grandemente infastidito, possa bastar questa lettera, la quale e per gli amici e per i nemici abbaiando a sua volta risponde. La quarta, e a quel che credo, ultima accusa è tale che se a qualche cosa è capace di commovermi, non mi commuove che al riso.

Troppo più sublime essi dicono che a pastorale argomento non si convenga esser lo stile delle mie Bucoliche. Oh! così piacesse al Cielo che d'altra colpa non potessero accagionare tutte le cose che io scrissi o che sarò mai per scrivere, come di questa di buon grado mi acconcio ad esser tenuto reo. Conciossiaché ben io sappia che di tre specie è lo stile de' Poeti e degli Oratori, e che non è senza colpa l'usar dell'uno quando debbasi l'altro adoperare. Del resto alta, o bassa, o mezzana si dice una cosa non tanto in senso assoluto, quanto per il ragguaglio che se ne fa con un'altra. Le piccole colline sovrastano alla pianura, e i monti benché grandi, restati nascosti se li circondano montagne maggiori. L'Olimpo stesso che vede al di sotto le nubi, al di sopra di sé vede il cielo, e la luna che per noi è altissima, è pure più bassa di tutte le stelle. Io quel poema dettai nell'età mia giovanile: ed è la giovinezza ardita per sua natura, come scrisse Virgilio nella Bucolica: e un altro aveva in mente di scriverne, anzi già cominciato lo aveva e sperai, né ancora al tutto dispero, di sollevarlo tant'alto, che accanto a questo quel primo si paia umile e basso. Arroge che tolto ancora di mezzo il paragone, molte cose giudicate in se stesse, alte all'uno, e all'altro basse si paiono, secondo la diversità dei riguardanti. Ond'è che leggiamo nel 120 Salmo - I monti sono eccelsi per i cervi - e poco stante - La pietra dà ricovero agli animali spinosi, e la talpa toccata che abbia la superficie della terra, più verso l'alto non si solleva. Se spicca il volo l'aquila s'erge alle nubi, il pavone si ferma sui tetti, il gallo nel fimo - e così via via.

Per conto mio, io meno buono lo stile che pecchi solo d'esser troppo alto, e se degno io ne sia, di buon grado alla sentenza sommettomi che di tal fallo mi dichiari colpevole. Credo però di non meritarla, e stimo che di troppo facile contentamento siano coloro, i quali trovano cagione di tale accusa in quel poema, dove secondo che a me ne pare, nulla mi venne detto in stile più sublime di quello che io volessi, e che alla natura di quel dettato si convenisse. Bramo infine di sentire una volta questi nostri detrattori parlare o scrivere qualche cosa in latino, e non sempre per tutti i cantucci fra le donnicciuole e i lanaiuoli spacciar le loro sentenze in rozzo volgare. Chè solo in questo sermone nelle scuole filosofeggiano, ne' tribunali senza scelta, senza giustizia decidono, chiunque è assente sentenziano reo, non danno spazio a difesa, senz'avvocato condannano, non perdonano a fama nuova od antica, e i nomi da lunghi studi resi illustri e famosi a senno loro deturpano. A questi spavaldi fa' che si faccia innanzi un uomo letterato, e li vedrai venir muti, anzi impietrare come all'aspetto della Gorgone.

Ma che è questo ch'io chieggo? Sono ignoranti, son invidi, ma non son meno guardinghi. Si son posti al sicuro da ogni sorpresa, ed han fermo di starsi sempre acquattati, e (per finirla con Girolamo che tante da siffatti malnati ebbe a soffrirne) dotti si stimano solo per questo che mordono altrui.

Addio.

Di Venezia, al 13 marzo.