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lettera V  a federico Aretino

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

 

 

LIBRO QUARTO

LETTERA V

A FEDERICO ARETINO

 

Iuvenilia inter opuscula

 

Delle morali verità nascoste nella Eneide di Virgilio.

[Pavia, 23 agosto 1362]

 

 

 

Fra gli opuscoli da me composti nell'età mia giovanile evvi un carme dettato in fretta e nel bollore della passione, che ora dopo tanto tempo riconosco appena per mio, e che per vero dire mi fu ispirato dallo sdegno contro un mostro d'invidia, il quale agognando al principato delle lettere, e mal soffrendo che in tutta Italia osasse alcuno venir con esso a paragone, tranne pochi libri non per merito intrinseco, ma per leggerezza di giudizio a lui prediletti, tutti gli altri aveva stoltamente in odio e in dispregio.

E quindi avvenne che un giorno sparlando egli dell'arte poetica, ed io per lo contrario difendendola, come quella che allora era da me con grande amore coltivata, cadde il discorso sopra il maggiore de' nostri poeti, Virgilio, e sulle molte finzioni a lui familiari non meno che agli altri poeti: e dicendone egli parole di biasimo e di vituperio, io bellamente mi feci a dichiarargliene alcune, per guisa che quel superbo vedesse quali preziose verità sotto il velo di quelle finzioni si nascondessero, e toccando con mano la propria ignoranza sentisse vergogna di se medesimo, e conoscesse quanto mal si convenga ad uomo d'ingegno il condannare quello che ignora. Or dopo tanto tempo passato, con umile e riverente ricerca, che sempre è il primo passo all'acquisto della scienza, tu a me domandi quali verità coperte dal velo dell'allegoria in quelle favole si nascondano. Degno tu sei che tutto a te si dichiari, e a me si addice soddisfarti dell'onesto tuo desiderio.

Ed oh! come di buon grado lo farei se tanto avessi d'ozio quanto m'ho di buon volere: e ben sarei lieto di pascere con i frutti degli studi miei giovanili la tua giovanile curiosità. Temo peraltro che se a narrarti io cominci quello che di sì fatte cose io pensava mi venga meno la memoria ed il tempo. Poiché da molti e molti anni intento a tutt'altro, io dubito forte di averle dimenticate. Chè se mi faccia ad esporti le opinioni e le congetture degli altri, tanto vasto campo di cose diverse e discordanti fra loro mi si spiega d'innanzi, che mi parve impossibile il cavarne un costrutto. Imperocché non può dirsi quanta sia la varietà delle opinioni: né v'è chi possa por freno ai trovatori di nuovi concetti: ed è veramente la materia di cui trattiamo capace di spiegazioni molte e diverse: le quali se giuste siano e al senso letterale ben rispondenti, rifiutar non si debbono, quantunque per avventura mai non venissero in capo a quei poeti. E chi è mai che in cose di loro natura così dubbie osi affermare con certezza che la riposta intenzione di quegli autori nelle opere che dettarono, or son già mille anni, sia l'una assolutamente e non l'altra? Sia pure un solo, o siano più d'uno i sensi che si ricavano dalle parole, basta che siano veri; né monta che molti o pochi, o fra loro concordi, o siano al tutto diversi l'uno dall'altro, ed a nessuno pure di essi punto mirasse chi le compose. Imperocché ben è più facile scoprire il vero nascosto in un discorso, che non indovinare quello a cui scrivendolo intese l'autore: siccome dimostrasi dalle tante cose che nelle Confessioni espone Agostino intorno ai libri di Mosè. Or poiché tu mi chiedi che stanco già del cammino e ormai pensoso dell'albergo che mi attende, sulla sera io mi rifaccia colla memoria al bel mattino della mia vita, mi proverò ad esporti le cose siccome allora mi parvero, non pretendendo già che tu le abbia come le migliori e le più vere, ma perché tu sappia a quali sentenze ora da un lato ora da un altro, secondo la leggerezza dell'età mia, io mi lasciassi inclinare, quando giovane come tu sei fra me stesso pensando, o con altri dell'età mia ragionandone, di queste cose io pasceva continuo la mente. Recati dunque in mano quella epistola che a cercar di tali cose ti dette la spinta, e secondo che mi ricorda di avere in quella già scritto, guarda a Virgilio, di cui contro quel maledico io sosteneva la causa. In quel divino poema, che fu l'ultimo di quanti ei ne scrisse, ma cui primo e nobilissimo riconoscono tutti coloro che le labbra appressarono al fonte Castalio, ben più sublimi di quello che apertamente si paiano e più importanti verità volle ei nascondere sotto il velame de' versi suoi. Né ciò soltanto dall'unanime consentimento dei dotti, ma espressamente pur si raccoglie da una sua lettera a Cesare Augusto, nella quale grande ei dichiara l'assunta impresa, e tale che chiede più assai che ad altri ne paia, di meditazione e di studio.

E molte sono le prove che addurre io ne potrei: ma me ne passo perché di tutte non mi sovviene, e perché quelle mi piace recare in mezzo, che più chiaramente dimostrino la verità di quanto io dico. Perché dunque allora affermai, né punto da quella sentenza or mi rimuovo, non essere in questo poeta per avventura alcun verso che non copra un riposto intendimento, senza troppo andar per le lunghe, risponderò a quel che cerchi, e se qualche giunta mi verrà fatta, ne avrai buon grado all'animo mio liberale, come per l'opposto, se tralascerò qualche cosa, fatta ragione delle mie tante occupazioni, saprai avermene per scusato. E cominciando dagli atri fratelli che soggetti dice Virgilio all'imperio d'Eolo, ravvisa in essi i venti: fratelli perché nati tutti dall'aere loro padre comune: atri per i turbini, le procelle, la polvere, le piogge, le grandini, i nembi, che al loro soffio si addensano e oscurano il cielo. E fratelli sono, ma frementi e discordi, e contro il padre loro riottosi e ribelli. Or bene. Fu veramente al mondo un Eolo il quale regnò sulle nove isole da lui dette Eolie, che, poste intorno alla Sicilia, dal continuo infuriare de' venti sono percosse: e sia che ne avesse qualche dottrina, sia che la pratica glie lo avesse insegnato, dall'aspetto del cielo ei con certezza conosceva ed annunziava il vicino scatenarsi de' venti dalle cime dei monti, o il non lontano quietare della loro furia. E fu per questo che non solamente dal volgo meravigliato ed ignaro venne Eolo creduto e chiamato il re de' venti, ma tale lo dissero anche i poeti, e primo fra tutti Omero, che con squisita eleganza finse aver quegli chiusi i venti in un otre, e questa donata ad Ulisse, errante in mezzo all'Oceano. Eccoti aperto il significato fisico e lo storico. V'ha peraltro chi cerca in Virgilio il senso morale. Né v'è da farne le meraviglie: ché ciascuno mira al suo scopo, e a quello intende le forze dell'intelletto: ond'è che da una stessa cosa, secondo che gli usi ne sono diversi, diverse provengono le utilità, e come dice Annèo, vanno nel prato stesso il bue in cerea dell'erba, il cane della lepre, e la cicogna della lucertola. Opera però sarebbe d'immensa fatica il trovar l'uno e l'altro in ogni luogo, e il senso morale del poema unito sempre da capo a fondo al senso materiale: né credo potesse ciò venir fatto a qual che si fosse perspicacissimo ingegno, poiché per certo nemmeno essi pensarono a porveli i poeti che lo composero.

Ma lasciati gli altri da parte, torniamo a Virgilio di cui tu chiedi. Fine principale e soggetto ch'ei si propose è a parer mio il presentarci la immagine di un grande eroe. E poiché una tale perfezione o solamente o principalmente consiste nella virtù, utilissima io credo nel suo poema la ricerca del senso morale, vuoi perché questo è della vita umana il pregio maggiore, vuoi perché chi lo cerca fedelmente seconda la intenzione del poeta: e quel che dissi di lui, dico egualmente di Omero; ché vanno entrambi a pari passo sulla medesima strada. E per venire a quello che tu domandi intorno al luogo sovra accennato, dirò finalmente come a me sembrino in quei venti raffigurate le passioni, e gl'impetuosi moti della concupiscenza e dell'ira, che dal profondo de' nostri cuori sollevandosi, come tempesta che il tranquillo mare sconvolge, mettono i nostri affetti in tumulto, e tutta conturbano la serenità della vita. Eolo non altri a me si pare che la ragione intenta a frenare gli sregolati appetiti, i quali se il freno ne scuotono, e corpo ed anima, quello di terrestre e questa di origine divina, traggono al precipizio e alla morte, come appunto de' venti dice Virgilio: Sconvolgono terra e mare e il ciel profondo.

E che altro son esse le cupe grotte, entro le quali i venti si rintanano, se non le ascose e recondite cavità de' nostri petti ove, secondo la dottrina platonica, han loro albergo le passioni? La mole sovraimposta indica il capo, che Platone stesso assegnò come sede alla ragione. Enea è l'uomo forte e perfetto di cui dianzi io diceva: Acate la compagnia preziosa d'uomini illustri, industriosi, solleciti. Nella selva vedi l'immagine di questa vita: piena è d'errori, di tenebre, di strade tortuose ed incerte, e popolata di fiere, che è quanto dire ingombra di difficoltà e di pericoli, sterile, inospitale, ma pur talvolta lusinghiera allo sguardo de' passeggeri e degli abitanti, che  tratti sono in inganno, e per poco ancor dilettati dal verdeggiar delle foglie, dal canto degli augelli, dal mormorio delle fonti, figure ed immagini della caduca speranza e dei piaceri fugaci ed ingannevoli. Ma come più t'inoltri inestricabile ed orrida si fa la boscaglia, che al sopravvenir dell'inverno tutta deserta, fangosa, attraversata da tronchi caduti, ed irta di brutte e sfrondate piante ti si dimostra. La Venere che in sul bel mezzo ti si fa incontro è la voluttà, che quando appunto siam presso al mezzo del cammin della vita più ci tenta e ci assale: e sembianza e vesti ha di vergine perché illusi gli stolti si lascino prendere all'amore di lei, cui se veramente vedessero nel proprio aspetto, basterebbe la vista a farli fuggire inorriditi; perocché come nulla in apparenza è più bello, così nulla in sostanza è più deforme e più schifoso.

E succinta descrivesi a denotare come veloce ella fugga, e per questo alle cose che più ratte s'involano viene paragonata: ché cosa non v'ha veramente più fugace e leggera della voluttà, sia che tutta in se stessa, o che nelle sue diverse spezie tu la consideri: e in un baleno ti si dilegua, e nel momento stesso che tu la senti, già di sentirla hai finito. Di cacciatrice ha la veste perché va d'anime a caccia, e stringe l'arco, e sparge al vento le chiome per impiagare ad un tratto e per adescare, volubile sempre, incostante, e come il vento leggera e fugace. Amica la dice il Poeta ai Troiani, o perché a Troia ebbe più che altrove culto devoto, o perché delle tre spezie di vita, che i poeti descrivono, vita di sapienza e di studio ch'è sacra a Pallade, vita di potenza e di ricchezze sacra a Giunone, vita di voluttà e di libidine sacra a Venere, scelsero i Troiani la terza, ed il Troiano che fece da giudice, come giusto ed accorto si era nella vita pastorale dimostrato, si diede a conoscere in cosa di più grave importanza stolto ed ingiusto. Conciossiaché chiamato a proferire sentenza nella famosa contesa delle tre Dee or ora da me ricordate, la ragione sommise all'affetto, ed alla ignuda Venere dette vittoria: onde degnissimo guiderdone ottenne un passeggero diletto, cui tennero dietro lunghi travagli, serie di mali innumerevoli, e non solo da ultimo la morte sua, ma lo sterminio di tutta la sua famiglia, e della intera sua nazione. Eppure a Venere figlio è detto Enea, vuoi perché ancora agli uomini grandi causa del nascere è la voluttà, vuoi perch'ei s'ebbe una cotale bellezza della persona, che anche nell'esilio e nella povertà lo fece oggetto di puro e casto amore. E fu pur Venere che il figliuolo suo campato illeso da grandi sventure, e tratto in salvo dall'incendio e dal naufragio, avvolto in fosca nube e accompagnato dal solo Acate fece scontrare in bella e vedova donna, qualità di cui l'una desta ed accende, e l'altra incoraggia a sfogare la passione amorosa. E sotto quella nube si asconde pure un gran vero: cioè che spesse volte all'udire come bella suoni la fama di alcuno, o al vederlo in bisogno di soccorso e di aiuto, si comincia ad amarlo sotto pretesto di stima, di cortesia, di compassione, e scortone quindi il merito, la nobiltà, la bellezza, si squarcia il velo, nudo rimane il figlio di Venere, e si cambia il primo affetto in turpe amore.

E sì che anch'egli cede talvolta; e cade pur anco il prode Enea, perché quantunque virtuoso, malagevolmente l'uomo resiste alle lusinghe della bellezza, specialmente se avvedasi di avere in quella destato amore e desiderio di sé; anzi, come Girolamo dice, cosa è al tutto impossibile che del bollore del proprio sangue in sé non senta l'uomo gli effetti. Ma quegli, ei prosegue, degno è di lode, e meritamente può dirsi beato, che come appena si avvede del suo pensiero e tosto lo avversa e lo uccide, secondo la sentenza di Davide: Beato colui che prenderà e schiaccerà sulle pietre i suoi figliuoli. E chi di tanto non è capace pure è da dire abbastanza beato, se, quantunque per fralezza caduto, o quel ch'è peggio abituato a peccare, impaniato nel visco del mal costume, stretto fra i lacci, e oppresso dalla soma delle sue colpe, pure una volta o da interna voce riscosso, o da salutare avviso, in nome di Dio sorge dal fondo in cui giacque, e volte animosamente le spalle alla voluttà, torna a calcare il retto sentiero della virtù e della gloria. Ciò si dimostra in Mercurio, dio della eloquenza, che spedito da Giove consiglia Enea a mutar vita; il quale sebbene dalla passione sopraffatto, e profondamente piagato da cocentissimo amore, obbediente si porge al celeste comando, nulla curando gli sforzi che a trattenerlo per mille modi mettono in opera la voluttà e la mala consuetudine. E poiché ogni arte delusa, e lui partito vide la misera che tanto tenacemente lo aveva avvinto, rimasta sola e disperata, allontanò da sé la vecchia sua sorella Anna, che è quanto dire l'invecchiato costume e la memoria del tempo passato, per mezzo della quale aveva tante volte tentato d'impedirne la fuga, e tolto così l'ostacolo che le sarebbe venuto dalla presenza di lei, si dette alfine volontariamente la morte. E in questo intendi che quando l'animo, secondo il consiglio dell'Apostolo, dalla turpe via si rimuove e si converte a onesta vita, la sozza voluttà di sua natura vien meno ed è morta. Egli frattanto sebbene lunga pezza si stesse irresoluto ed incerto, fermo alla fine nel suo proposto, e fatti già gli apparecchi, sull'alta poppa si addormentò, significando con questo che nella rettitudine e nella fermezza del suo consiglio trovò la calma dello spirito: conciossiaché la scelta del miglior partito è come la fine di un penoso travaglio. Scioglie finalmente dal lido, e quantunque di tratto in tratto si volga indietro a rimirare [248] quel che abbandona, segue animoso il cammino, e contrastando alla furia degli aquiloni tende diritto all'Italia: che è quanto dire, guida per mezzo della ragione con animo forte e perseverante fra le difficoltà della vita la sua navicella, e col braccio e col senno rimovendo ogni ostacolo, salva alfine l'adduce alla sponda che gli era additata dal cielo. Ed ivi fin dalle prime intento ad opere di religione, sacrificando secondo il patrio costume, implora requie al venerando suo genitore con parole adottate poi dalla Chiesa cattolica, e ripetute da lei presso il sublime altare di Cristo. Compiuto quell'ufficio di pietà intende ad opere umane, le quali non altro sono che giuochi, ove, secondo che vuol fortuna, spesso dagli ultimi si vedono superati i primi, e la mollezza e la superbia della gioventù è costretta cedere il campo alla maturità del consiglio e alla costanza senile.

Ma, come avviene pur sempre, finisce il gaudio in lutto, ed egli si sente venir meno le forze. Giovato però dal consiglio degli amici, e incoraggiato da notturne visioni e da oracoli celesti, di tanto buon ardire sente riaccendersi il cuore, che non solamente sta fermo nel primo proposto, ma perduto il pilota, si reca egli in mano il timone della nave, e fra le tenebre della notte ne regge il governo, significando con ciò come nella oscura caligine di questa vita mortale compiangere ci dobbiamo della spensieratezza o della disgrazia degli altri, ma non abbandonare giammai il governale del senno e della prudenza. E questo più chiaro si pare in mezzo ai pericoli ed alle dubbie sorti che lo minacciano, finché dell'Italia che già da lungi aveva salutato, penetrò nell'interno, e giunse al seno di Cuma e di Baia, la natura e l'aspetto di quei luoghi descrivendo per modo che a mio giudizio si lascia di molto indietro il greco cantore. E lavatosi prima nel fiume dalle lordure contratte in tante fortunose vicende, si affida alla scorta di una fatidica profetessa, da cui guidato scende all'inferno: ove impossibile è a dire quali e quante siano le cose che fingendo descrive. E poiché colaggiù tanto conobbe quanto è dato a un mortale intorno alla vita futura e della nobilissima sua progenie concepì le più belle speranze, fatto più sicuro e più lieto proseguì suo cammino non però senz'aver dimostrato pietosa memoria della sua nutrice. Ad insegnare come i mali cui vincere è impossibile si debbano prudentemente sfuggire girò, senza toccarlo, il monte Circeo, e su per la foce del Tevere giunse alla terra ove oggi è Roma, campo a lui preparato per procacciarsi fra mille travagli e pericoli la gloria. E questa, vinti i proci minori che glie la contendevano e superato ogni ostacolo, ei per sé toglie, la mena in moglie, e ne ottiene prole famosa e nobilissima discendenza fondatrice del maggior degl'imperi, moderatrice della pace del mondo, benigna agli umili, ai superbi tremenda e inesorabile. Di questa fanciulla, le cui nozze sono tanto ambite, padre è l'animo, madre è la carne che dell'animo è sposa, perocché dall'azione dell'uno e dell'altra nasce la gloria. Lei avevano i fati destinata a sposo di estrania terra, ad uomo cioè valoroso ed accorto che fosse capace di resistere a laboriose imprese e di scoprire cose ignote alla comune dei mortali. Ma la madre debole per natura e povera di consiglio vuol darla in moglie a' vicini e prossimi suoi, che è quanto dire a' seguaci di carnali desiderii e studiosi di materiali interessi. E ben talvolta con preci e con feminile improntitudine fu la madre in sul punto di trarre nella sua sentenza il marito. Ma preso questi di ammirazione allo splendore che tutto soverchia della peregrina virtù, si pente d'ogni incertezza, se ne chiama in colpa, e muta proposto: ond'è che quella, viste le cose per sé riuscire a mal fine, e disperando di maritare la figlia [250] a piacer suo, si dà con un laccio la morte: perocché se l'appetito carnale vede di gloria rimeritata la virtù, più non potendo trovar luogo a sé conveniente, di proprio moto si uccide, nel senso appunto che Paolo Apostolo se stesso diceva crocifisso riguardo al mondo. Non erano queste per vero dire le cose che tu mi domandavi, e mi avvedo che ad alcune di quelle domandate da te io non ho risposto; ma poiché sono entrato in questo discorso, per non troncarne il filo lascia che lo continui ancora per poco.

Spenta per cotale modo di volontaria morte la carne amata tanto, e per naturale inclinazione tanto diletta, il proco deluso cui venne meno l'aiuto della cara suocera, udendo sonar d'attorno lo strepito delle armi, e vedendo dal cocchio delle volubili cure, in cui si asside, sull'alto della torre, che è la eccelsa sede dell'anima, levarsi al cielo le fiamme dell'ardente virtù, rimansi esterrefatto e confuso all'aspetto di tante cose: poi fra se stesso risolve di far l'ultima prova. Scaccia da sé lontano la sorella, cioè a dire la pertinace speranza, e giù d'un punto scendendo sulla terra onde nacque, pedestre si scaglia nella pugna: perocché domati ancora ed estinti gl'impeti del carnale appetito, non al tutto s'acqueta il fomite interno, ma meno violenta è la guerra che muove, e al primo assalto gli resta in mano spezzata la spada. Ma la sorella immortale a lui pronta un'altra ne somministra, né resterà dal porgergli aiuto nella battaglia, finché sbucato dal Tartaro per comando di Giove il terrore, di là non la discacci mesta e piangente. Enea per lo contrario, quantunque trafitto da un dardo e mal fermo sulle ginocchia (conciossiaché non v'abbia al mondo uomo sì forte nella sua virtù che alla tentazione talvolta non ceda, e vacilli, né a trarre dalle ossa in cui s'infisse la saetta valga mano di medico per esperto che sia, e solo a tanto riesca la divina bontà), più animoso che mai si slancia alla pugna, e alla vista d'ambo gli eserciti, cioè a dire in cospetto de' buoni e de' tristi, gettasi addosso all'avversario, e di primo colpo con tutta forza gli scaglia l'asta, la quale volando percuote nell'amara corteccia di un oleastro, e così addentro vi s'infigge che umana forza non basta a ritrarnela. E tu intendi per questo che sa d'amaro il resistere dell'animo nostro ai carnali appetiti, e così è forza che sia se tanto è dolce il seguirli.

E resta il ferro infisso per modo che non può lanciarsi di nuovo, perché lo vieta la naturale durezza, e non è dato ripetere i colpi contro il nemico, che è quanto dire non si giunge a contrarre l'abito virtuoso, se l'asta dal legno non si sconficchi per mano di Venere, cioè per l'onesta compiacenza e per la interna dilettazione del bene operato, la quale se si senta, è certo segno, come dice Aristotele, dell'abito contratto che rende frequenti e facili le virtuose azioni. Imperocché come difficilmente esso si acquista, così acquistato agevola il bene operare, e induce a far con piacere quello che prima far non potevasi senza dolore. Indi avviene ch'Enea uomo straniero, uomo cioè virtuoso e forte debellatore della carne, agevolmente ritira e impugna l'asta, ed a più certo segno vibrandola colpisce ed atterra l'avversario nativo di quel paese, o vuoi dire seguace di carnali appetiti: e forse risparmiata ne avrebbe la vita a denotare come procedendo la concupiscenza da nostra natura, sia degna di benigno perdono: ma veduta a lui in dosso l'armatura rapita al suo Pallante che aveva quegli ucciso (e intendi in essa i pregi più nobili onde si adorna la gioventù generosa), arse di subito sdegno, ed in vendetta dell'amico lo uccise: per la cui morte regnò poscia tranquillo, e lasciato il figlio erede del trono, poiché pagato egli pure ebbe il suo debito alla mortale natura, venne in voce di Dio, e fatto soggetto di poemi e di storie, vive immortale nella memoria degli uomini.

Ed eccomi giunto da cima a fondo, mentre tanto meno era quello, che tu chiedevi da me. Ma tratto dall'impeto del discorso e dal desiderio di soddisfare alla tua nobile curiosità, non seppi troncare il filo a mezzo, e senz'avvedermene oltrepassai la mèta che avevi tu posta. Ora tornando alle cose che tralasciai, dirò dell'incendio di Troia, e delle nozze con Didone e prima di queste, poi di quello che fu principio al poema di Virgilio. E innanzi tratto è da notare che Didone fondatrice e regina di Cartagine fu castissima donna: che se d'altronde ciò non sapessimo, basterebbe a farcene certi la testimonianza di quel dottissimo non nelle sacre soltanto, ma e nelle profane lettere che fu Girolamo nel libro che scrisse contro l'eretico Gioviniano, pieno zeppo di mille svariatissime storie. Né vissero ad un tempo, né si poterono conoscere fra loro Didone ed Enea; ché morto era questi da forse trecento anni allorché quella nacque, siccome sanno pur bene tutti coloro che si conoscono alcun poco di cronologia, delle storie di Cartagine e della Grecia, e lessero non i soli commentatori di Virgilio, ma i libri ancora dei Saturnali. E nel secondo libro delle sue Confessioni anche Agostino ricorda che mai non era Enea venuto a Cartagine: della quale città l'origine prima e tutta la storia di Didone narrata si legge in Trogo Pompeo o Giustino nel libro decimo ottavo. Né io qui voglio affaticarmi a recare in mezzo altre prove di cosa per sé manifestissima, conciossiaché, tranne gli uomini dell'ultimo volgo, nessuno dovrebbe ignorare tutto esser favola quanto narra Virgilio di Didone e di Enea, e averla il mondo tenuta per vera, non perché tale la credesse, ma perché allettato dalla bellezza, dalla eleganza, dalla sublimità di quel racconto ebbe caro l'inganno con sì mirabile arte tessuto, e a malincuore s'induce a riconoscerlo, dolente quasi di vedere distratta una sì dolce e sì soave illusione. Credilo a me, che so bene quel che mi dico: perocché io primo, anzi io solo a' tempi nostri, e in questi luoghi dimostrai questa storica verità.

Ed erano tutti sì fattamente persuasi del contrario, che molti e specialmente colui cui scrissi l'epistola sopra da te rammentata, mi posero cagione non solamente di nuova eresia, ma di diffamazione e d'ingiuria. E questo udendo da me uomo nuovo ed oscuro, facevano le meraviglie, e menavano rumore, quasi che io volessi accusare Virgilio d'ignoranza: e se io rispondeva aver egli conosciuto il vero, ma detto il falso a caso pensato, non mi credevano, e si facevano a domandarmi perché il poeta avesse voluto ciò fare. E per vero dire bello sarebbe a cercare, ma a trovar malagevole, perché quel poeta fra tutti il più grande e il più dotto, potendo fra mille e mille eroine sceglierne un'altra, od una formarsene a senno suo, volesse tra tutte elegger questa per fama di castità celebratissima, e lei, che seppe a costo della vita serbare illibata nella sua vedovanza al primo consorte la fede, dipingersi caduta in servitù d'amore impudico. Ma quello che io ne pensi te lo dirò a voce: ché qui non voglio affastellar troppe cose, e torno al proposto. Qual che si fosse la cagione che indusse Virgilio a sceglier Didone, ella è regina, e non nativa del paese, ma straniera, nella quale vien figurata l'umana potestà. Imperocché quantunque grande s'immagini la potenza onde gli uomini sono tanto superbi, sempre ella è cosa avventizia, e quando entrano nel mondo, nudi tutti vi entrano i mortali.

Esule dalla casa paterna, seco portando di molte ricchezze, venne colei a fermarsi in stranio lido. Ed esuli siamo tutti noi pure, e pellegrini, né quaggiù abbiamo fissa dimora, ma in questo esilio venendo recammo pure con noi svariate ricchezze, ed argento ed oro, cioè a dire ingegno, eloquenza, ed altre doti delle sì fatte. Con mirabile industria quella si adopera a procacciarsi e a dilatare uno spazio dove fondare il suo castello: e ognuno sa con quant'arte e sovente ancora con quanta frode cerchiamo noi d'ingrandirci, e di far crescere le nostre cose. E per rispondere a quello che tu domandi, dirò che nel convito da lei apprestato si dimostra come debbano i sudditi essere alimentati e nutriti dai grandi e dai re, i quali ai dì nostri vediamo invece spogliarli e divorarli. A questo convito, o che vogliamo dire, a questo umano consorzio presieduto dai re, tre spezie d'uomini si assidono: primi i re stessi, che a tutti debbono andare innanzi nello studio della eloquenza e della dottrina: ed essi sono figurati in Iopa, che narra i secreti della natura, officio proprio del filosofo; e perciò detto è crinito, e canta intanto e suona la cetra, che officio è del poeta. Appresso seggono i voluttuosi e gl'ingordi, i quali ci vengono rappresentati da Bizia che tracanna ad un sorso la tazza d'oro portagli dalla regina, e denota come la voluttà quasi rivo da fonte si versi dai re nei sudditi. E così vedi di nuovo in tre partirsi le spezie de' viventi, siccome dianzi io ti diceva. Assise anch'egli a questo clamoroso convito l'uomo prode e virtuoso, nella coscienza delle opere sue si compiace, e con magnifiche parole diletta gli astanti. Comincia quasi costretto a parlare, e il confuso vociare de' convitati s'acqueta ad un tratto: indi prosegue, ascoltandolo tutti taciti e intenti. E che narra egli mai? Non altro che le offese della fortuna, le insidie degli uomini, i danni di questa vita mortale, gli ostili apparecchi, che fan le passioni a rendersi l'animo suddito e schiavo.

Narra il vano sognare di quelli che in mezzo ai pericoli poltriscono nel sonno, le trame deluse al subito apparir delle faci, le fede prestata ai falsi consigli [255] e negata ai veri, e la porta che cade percossa dall'ariete de' peccati, e i nemici che irrompono, uccisi sulla soglia, i custodi che vegliano a difesa dell'anima. Tutta insomma dipinge la vita che simile ad atra ultima notte passano i ciechi mortali in matte gioie, mentre ferocemente la morte colpisce ed abbatte genti dell'ultimo volgo: e a queste confusi cadono e giusti e pii, e grandi e re, nella comune strage travolti; in mezzo alla quale affrontando i più gravi pericoli, volte le spalle alle agiatezze della patria cadente, ed ivi perduta l'antica moglie, che è quanto dire staccatosi dalla voluttà che s'ebbe a compagna degli anni giovanili, armato della sua virtù, e solo dapprima, poscia seguito da molti che gli si fecero compagni, sulle spalle portando il vecchio suo genitore, e traendo a mano il piccolo suo figliuolo, campa prodigiosamente la vita, e felicemente a quella mèta si avvia, a cui decorato per doppio titolo del bel nome di pio con fausto evento lo vedemmo arrivare. Ora tutto questo tumulto, questa rovina, questo eccidio in cui tra le fiamme accese dalla libidine, e le spade vibrate dall'ira, vittima delle sue passioni struggevasi la città voluttuosa, a buon diritto si finge avvenuto di notte tempo per denotare le tenebre degli umani errori, e la caligine onde sepolta nel sonno e nel vino la vita nostra è circondata ed immersa nell'ebrietà e nell'oblio. E il gigantesco cavallo, che per le mura aperte e da nessuna prudenza difese in quella stessa terribile notte pieno di armati nemici era stato introdotto, agevolmente si spiega per l'impeto della civile discordia feconda sempre di odii nascosti, e cagione di mali senza riparo.

L'infausta macchina a sterminio della patria fu fabbricata dalla malizia dei giovani, che basta di per sé sola a produrre la rovina delle città. E il vecchio sacerdote Laocoonte il quale tenta impedire che nella città s'introduca, tra le spire di velenosi serpi è avviluppato; che è quanto dire sotto i morsi della rabbiosa invidia schiacciato ed oppresso: e tolto così lui di mezzo, l'insana plebe fatta ministra del proprio danno, concorde tutta in una sentenza, il fatale colosso nella sacra rocca introduce. Guai se prevale l'impeto alla ragione! inevitabile allora è il precipizio. Ecco già s'apre il mostruoso cavallo, e fuori ne sbucano orrendi mali, fra cui ti basterà che io rammenti Ulisse, ossia l'astio dei nemici, Neottolemo, ossia la superbia e il desio della vendetta, Menelao ch'è il rancore per la memoria delle ricevute offese, Sinone infine custode del nascondiglio funesto e di quel fatto suasore pestifero che in sé presenta personificati l'inganno, lo spergiuro, la frode. Cadono in quella fiera tempesta, siccome dissi, commisti al popolo i re, e i figli loro: solo l'uomo forte giunge a trovare uno scampo e a procacciarsi o la pace come Antenore, di cui sta scritto: Placidamente in pace si riposa, o la gloria comprata a prezzo d'immensi travagli, com'Enea, di cui si legge: Fia che porti all'Italia orrenda guerra, e altrove: Sublime all'etra volerà la fama Del magnanimo Enea Or mentre errante, ancora ei s'aggirava dentro le mura dell'ardente città, alla luce di quelle fiamme gli venne veduta Elena, origine prima di tanto danno, e quantunque dal divino poema fossero tolti i versi in cui questo si narra; sappiamo avere il poeta immaginato che si apparecchiava Enea a punirla di morte, vendicando in tal modo l'eccidio della sua patria, quando fattasi a lui d'innanzi gli trattenne il braccio la Dea Venere, che imprese a scusare Elena e Paride. E non è certo da fare le meraviglie che a difesa de' venerei piaceri Venere parli, chi pensi come anche i censori più rigidi ai falli d'amore si porgano indulgenti. Lo ammonisce inoltre la diva che inutile, perché tardo, è il suo proposto, e che non giova rimuover la causa quando già seguito è l'effetto, né più v'ha rimedio contro l'inevitabile giudizio di Dio. Pensi alla fuga piuttosto che alla vendetta: nei casi disperati doversi meglio cedere alla fortuna che non resisterle invano. Gli sarebbe ella stessa compagna in quella fuga, finché non fosse ridotto in salvo. Ciò detto, Venere anch'essa gli si dilegua dagli occhi, perocché fra i pericoli ed i travagli della vita non ha luogo la voluttà amica dell'ozio e del riposo. Torna Venere, è vero, più tardi, e a lui si porge nel viaggio compagna. Non è peraltro quella di prima: ma sì l'onesto diletto che nasce dal vedersi messo in sicuro e ridotto a salvezza.

E come appena fu Venere partita, irati ei vide Nettuno, Giunone, Pallade e Giove, perocché se i Greci avevano sopra i Troiani ottenuto vittoria, ciò ripetere si doveva dalla loro perizia nell'arte del navigare, dalla forza delle armi, dalla dottrina, e sopra tutto dal favore di Giove che li proteggeva. E ben l'aveva ei presentito allorchè disse: Templi e altari deserti, uscirono tutti Di questo regno i tutelari numi. Ma quel che allora pensando aveva divinato, dissipata poscia la nube che ne ingombrava la vista, distintamente egli vide cogli occhi suoi. Imperocché per famosa sentenza di Platone seguita da Agostino e da altri molti, non v'ha cosa che più della Venere e della vita dedita ai voluttuosi piaceri l'uomo allontani dalla contemplazione di Dio. E, questa vera e grave dottrina probabilmente apprese Platone da un altro per avventura meno celebre, ma pur sovrano filosofo, con cui dalle sue lettere ei si pare legato in amicizia, voglio dire dal tarantino Archita, e precisamente dal discorso ch'ei tenne con Ponzio Erennio padre che fu di quel Ponzio per prudenza famoso, il quale capitanando i Sanniti mise alle strette l'esercito di Roma, e lo costrinse a passare sotto le forche caudine. Presente a quel discorso era Platone, siccome nel suo Catone ne fa fede M. Tullio, e tra le molte sentenze bellissime che allora furono dette, memorabile innanzi a tutte ella è questa: dove la libidine ha impero non esser possibile la temperanza, e nel regno della voluttà non darsi mai luogo alla virtù. E perché solo da quella la cecità dell'animo si deriva, agevolmente s'intende che, lei rimossa, tornano gli uomini a veder chiaro: E manifesto agli occhi si rivela De' Numi a Troia ira ti il truce aspetto.

Ecco quanto raccorre io ho potuto in risposta alle tue domande. Perspicace e pronto come tu sei dell'ingegno, simili a queste scoprirai facilmente molte altre cose negli altri luoghi di quel poema.

E statti sano.

Di Pavia, a' 23 di agosto.

 

 

 

NOTA

Io non mi lascio aver dubbio che questo Federico, cui il Petrarca dirige la presente lettera, sia quegli del quale parlarono il Crescimbeni (Comment. della Volg. Poes., vol. II, part. 2, lib: 4, n. LVII), e l'Ab. Mehus (Vit. del B. Ambr. Traversari, col. CCLI). Il Crescimbeni lo dice figliuolo di M. Geri di Arezzo, e dalla dolcezza del suo stile nella volgare poesia argomenta ch'ei fosse posteriore di tempo a Cino, e fiorisse dopo il Petrarca, probabilmente verso il 1370. La quale opinione conforma coll'autorità di un codice della Vaticana (3213), ove si leggono alcune sue rime, e scritto in una nota sul margine: è da credere che fiorisse in tempo del Petrarca. Il Mehus nel luogo citato crede ch'ei sia quel desso di cui in un codice della Gaddiana (Plut. 90. inf. Cod. 13) si leggono alcuni versi che così cominciano: Si petis assiduis socium, dilecte, querelis, Nil moror: accingar cupidus: feriamus acutis Fata simul iaculis, etc. E poiché in seguito de' versi stessi diretti a Tancredi de Vergiolensibus di Pistoia, si legge: Sed laetus sim sorte mea: liberrimus esse Quum cupiam placideque meis dare tempora curis Pierius quas subdit amor, etc. ragionevolmente ne conchiude ch'ei fu poeta. Non so poi con quanto fondamento lo Stesso Mehus stimi che a lui si riferisca la noterella apposta dal Petrarca al sonetto: Dal bel seren delle tranquille ciglia nel Codice Vaticano stampato dall'Ubaldini (Roma, 1642), la quale dice: Transcrip. habet d. Fridericus, perocché la somiglianza del nome di chi copiò quel sonetto non è argomento bastante a ritenere ch'ei sia quell'Aretino a cui è diretta e questa e la lettera 7 del libro VII delle Senili.

Di quel Federico poi menzionato dal Crescimbeni si trova il nome riportato nell'indice de' poeti le cui rime si conservano ne' codici Vaticani, Chigiani e Barberiniani, dato in luce dall'Allacci (Poeti antichi, Napoli, 1661). A questo dunque io penso che scrivesse il Petrarca già vecchio, mentr'egli ancor giovane gli chiedeva quali fossero le arcane dottrine nascoste nell'Eneide, delle quali il Petrarca aveva dato un cenno nell'epistola II del lib. II diretta a Zoilo: Distrahis atque animum curis melioribus aufers nel passo che comincia: Aspice Virgilium: numquid pueriliter ille fino al verso: Praetereo reliquos; quid Flaccus Horatius ardens, etc. Probabilmente non tutti i lettori si accorderanno col Petrarca nel vedere sotto i versi di Virgilio nascoste quelle allegorie di morale filosofia che il nostro autore vi scorge. Egli è peraltro da attribuirne l'origine all'indole della letteratura di quel secolo XIV, che assai si piaceva di così fatte ricerche, fondate massimamente su concetto nobilissimo che si aveva della poesia, stimandola sempre volta ad insegnare sotto il velame di finte immagini i precetti del vivere onesto e virtuoso. E che veramente i più sublimi ingegni di quel tempo a questo santo scopo intendessero colle poetiche loro creazioni, basta per tutti a farcene certi il divino poema dell'Alighieri, e la solenne dichiarazione che dei molti sensi in esso nascosti egli stesso ci fece nella celebre sua lettera a Cangrande Della Scala.

Tutti però converranno nel riconoscere da questa lettera il criterio del Petrarca maraviglioso in ragione del tempo in cui visse, dove con tutta fermezza, nonostante il contrario parere de' letterati suoi coetanei, accusa d'anacronismo Virgilio che pone vivi ad un tempo Didone ed Enea: e nota come cosa strana che a quella regina, famosa per la fede serbata a Sicheo, il poeta latino attribuisse un amore cui non può darsi lode di onesto e pudico. Peccato che il Petrarca non ci abbia esposto la ragione da lui trovata per giustificare quella invenzione del cantor dell'Eneide!