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lettera IV  a Lelio

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

 

 

LIBRO SECONDO

LETTERA IV

AL SUO LELIO

 

Quid adulantium

 

Si lagna che vadano sotto il suo nome scritti non suoi. Di un libro falsamente attribuito a Seneca, e di due opere dello stesso scrittore da esso il Petrarca distinte e corrette.

 

 

 

 

A che valgono le menzogne degli adulatori, se punto di lume non acquistano per esse gl'ingegni oscuri, né quelli che sono già chiari menomamente si avvantaggiano del loro aiuto, anzi da questo non altro ritraggono che danno ed offesa? Scema la lode invece di accrescerla il lodatore bugiardo, ed ingerisce il sospetto che possa esser falsa anche la vera. E non è già che di questa io mi reputi degno: ma qualunque io mi sia, costretto oggi sono a parlar di me stesso. Tu dunque mi scrivi di aver veduto di questi giorni alcuni opuscoli, parte de' quali in volgare, che si dicono composti da me, e me ne trascrivi le prime parole, perché io possa subito ravvisare da quelle se veramente siano miei. Lodo sì la tua diligenza, ma non posso non fare le meraviglie dei dubbi tuoi.

Imperocché li ebbi appena veduti, e non solamente li conobbi per cose non mie, ma grandemente mi dolsi e vergognai, e fui preso da stupore che altri potesse aver creduto, e tu solamente dubitato ch'io ne fossi l'autore. Di doppia ingiuria son rei coloro che a me li attribuiscono, perocché ad altri ne tolgono il merito, e a me ne impongono il carico. Sarebbe nel caso nostro difficile il definire a quale delle due parti facciano maggiore il torto: ma se si trattasse di alcuno scrittore illustre, più grande per certo riceverebbe l'offesa quegli cui alcun che di questo genere senza sua saputa si attribuisse, che non l'altro a cui venisse tolto.

Imperocché se tu neghi che alcuno abbia composto un'opera che realmente egli scrisse, tanto gli togli di fama quanto da quello scritto, qual ch'ei si fosse, poteva sperarne, e non più: ma se ad un altro lo attribuisci, colmi di perpetua infamia il costui nome, e sei cagione che ogni altra cosa lodevolmente da lui dettata si reputi come venutagli giù senza pensarvi e quasi per caso. E corre ben grande la differenza dalla negata lode alla irrogata ignominia: ché di quella l'uomo saggio fa piccol conto, da questa rifugge. Quanto a me, sebbene di gloria abbia poca speranza e ricchezza nessuna, meglio vorrei soffrire il danno di tali furti che di così fatti regali venir favorito, e stimo meno male che occulta in me rimanga, se pur havvene alcuna, qualche cosa di bello, di quello che a me già tanto deforme per le proprie brutture si aggiungano le altrui. Molto già si adoperarono a nuocermi togliendomi il mio. Deh! che non tornino più efficaci gli sforzi loro in quest'altra specie di offesa, e quel male che non poterono farmi rubando, ora non riescano a cagionarmi con i doni loro. Alza fortemente la voce, e grida forte e imperterrito che miei non sono cotesti scritti, e che gravato abbastanza dal peso delle cose mie non voglio portare quello delle cose degli altri. Antico è questo vezzo, lo so, di far onta ad altrui per queste vie, e ne sentirono il danno un giorno famosissimi ingegni recato loro da malevoglienza non solo, ma da errore talvolta, e tal'altra ancora dall'amore.

Quante cose non si attribuiscono ad Aristotele delle quali ei non seppe nulla? Né Seneca certamente avrebbe voluto passar per autore di quel libretto intitolato delle quattro virtù, che letto avidamente dal volgo, e inserito fra le opere di lui, non solamente come suo vien lodato e ammirato, ma prediletto da molti, è messo innanzi alle opere che veramente son sue, perché più adattato lo trovano ai loro ingegni. Per cotal guisa da Seneca non mai composto, e tale che s'ei potesse lo ripudierebbe per certo, tenuto è quel libro in gran pregio più dal volgo veramente che dai dotti: sebbene anche di questi la maggior parte ignara di quel che io dico, e partecipe dell'errore volgare, in quanto all'autore s'inganni, e lo creda di Seneca, ma col volgo non vada d'accordo nel giudicarne il merito maggiore od eguale a quello delle altre sue opere. Né io vo' prendermi affanni a menomarne la stima; ma non mi so tenere dall'arrabbiarmi contro quest'importuni e loquaci pedanti, che senza fil di ragione tutto confondono. Imperocché quel libro fu veramente composto da un tal Martino vescovo, e da lui dedicato a certo re Mirone come regola di vita onestà: e chiunque incaponir non si voglia nell'errore, lo troverà fatto palese da una breve prefazione, che manca nei nostri esemplari, ma tuttavia si trova in quelli che sono nelle biblioteche di Francia, ove si crede che l'opera fosse dettata.

E questo povero scrittore, che forse non altro compose mai, spogliano costoro dell'unica cosa sua per arricchirne uno che straricco è delle opere proprie. Né a ciò si stanno contenti: ma di una sua medesima cosa si piacciono far Seneca autore due volte, siccome è a vedersi nel libro de' costumi e de' proverbi, il quale in tanto è suo, in quanto che fu formato di sentenze qua e là sparse da lui ne' suoi scritti, e per opera altrui poscia raccolte, e male a proposito unite insieme. Non d'altro quasi egli parla che di costumi: e possono veramente dirsi proverbi le brevi e succose sentenze onde più che ogni altro scrittore egli abbonda. Ma non per questo era lecito confondere ed ammucchiare cose da lui separatamente ordinate e disposte.

Né ad altri togliendola doveva a lui appropriarsi l'opera di Martino come se questi non fosse stato capace di concepire e di scrivere qualche cosa intorno alle virtù delle quali esser poteva, e fu per avventura cultore. Perché tutto quello che in tal materia si trova s'avesse ad attribuire ad un solo, bisognerebbe con ardita menzogna affermare ch'egli e non altri potesse prendere a subbietto de' suoi discorsi la virtù di cui tutti possono ragionare, e ragionarono di fatto Platone principalmente ed Aristotele, e dei nostri Marco Tullio, che scrisse l'eccellente libro della virtù intitolato M. Bruto, cui Seneca stesso nelle sue opere rammenta. Oh! quanto meglio sarebbe stato l'impedire che andasse perduta, o il ritrovare poiché perduta andò veramente, l'opera a mio giudizio eccellente di Seneca stesso intorno la superstizione: e metter fuori separato e distinto dal libro della Brevità della Vita quello della Consolazione a Polibio, che, quantunque perduto non fosse, era con quello confuso e frammisto per modo, che mancando del proprio titolo pareva con esso sol uno, mentre non uno ma due son veramente, siccome in molti esemplari da me divisi e corretti si fece manifesto. La quale confusione a lettori di poca levatura fu sovente cagione di non lieve imbarazzo. Anche ad Origene si crede che attribuiscansi molte cose non sue, e forse con danno della sua fama: alcune ad Agostino: ed io medesimo in un antico e grosso volume della Chiesa Ambrosiana di Milano, fra molti scritti di Ambrogio un libro trovai dettato con uno stile totalmente diverso dal suo, e ne fui quasi pur io tratto in inganno mentre stava scrivendo della Vita Solitaria: ma finalmente mi avvidi che quel libro era di Palladio, e non di Ambrogio.

E v'ha ben altri di questi casi. A Cicerone, a Virgilio so che nulla avvenne di simile, e fo ragione che sia perché lo stile dell'uno e dell'altro è inarrivabile, e sempre eguale a se stesso. Ad Ovidio attribuiscono il libro intitolato De Vetula, cosa da farne le meraviglie, e che non si sa cui e perché venisse in mente, se pure alcuno non si confidò di coprire colla luce di quel nome illustre la povertà di quell'oscuro poema, adoperando a rovescio di quelli, che dalle galline fanno covare le uova de' pavoni, e sperano che una nobile chioccia ad uova ignobili dia generosa natura. Si dirà forse che così avvenne per volere degli autori medesimi, bramosi di dar celebrità alle loro opere anche a scapito del nome loro.

Ma se ciò fosse, io lo direi miracolo: perocché alla più parte degli scrittori sopra tutte le cose sta a cuore la fama del proprio nome. Tornando a me col discorso, io nulla spero dal nome altrui, nulla sperare possono altri dal mio. Lascino dunque stare le cose mie, e non si curino di attribuire a me le loro, o quelle degli altri. A questo tutta riducesi la mia preghiera. Che se l'una delle due io sia dannato a patire, sarà meno male perder del mio, che gravarmi dell'altrui.

E statti sano.