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lettera IX  al Priore

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

 

 

LIBRO DECIMO SESTO

LETTERA IX

AL GRAN PRIORE DELLA CERTOSA

 

Lavisti mihi caput

 

Non sempre essere biasimevole la lode data direttamente ad un che vive.

[Milano, 1357]

 

 

 

Affè che tu m'hai data, come il volgo dice, una buona lavata di capo; né mancò l'acre del ranno e del sapone, come direbbe Ambrogio. Io però chiamo in testimonio quel Dio cui ad alcuno non è dato d'ingannare che come nessuno mai, così te non ho voluto adulare per verun modo. Ed oh! volesse il cielo che più gravi e più frequenti dispiaceri io non avessi provato col dimostrarmi altrui intollerante, sdegnoso, dispregiatore, che col porgermi adulatore e lusinghiero. Frequenti troverai ne' miei scritti le contese che pur tanto ripugnavano all'indole mia, frequenti gli scherzi, e non di rado mordaci: mai però non ti verrà fatto trovarvi lusinghe e piacenterie.

Tali peraltro io non dico le giuste lodi opportunamente talora adoperate a stimolo di virtù e di perseveranza. Turpe è, tu dici, la lode di un vivo parlando a lui stesso. Hai ragione se possa nuocere: ma non così s'ella giovi, e se ad utile torni del lodatore non meno che del lodato. Cede al soffio di un'aura leggiera una debole pianticella; ma non teme furia di vento l'arbore infissa su profonde radici, né chi fondato sulla viva pietra ha la costanza per abito, e il cuore in cielo. Prova di nobile ingegno, dice Cicerone, è l'appetito della gloria. Tant'è: ai doppoco le minacce e i rimbrotti, agli animi generosi è sprone la gloria. Si eccita colla sferza il giumento, colla voce e col plauso il destriere. L'animo ben composto non insuperbisce per la lode, ma si solleva più in alto, e come elegantemente dice Ovidio lodata cresce la virtù.

E quel che dico lo so per prova. Mai per vero dire non mi avvenne, né meritai che alcuno mi lodasse per santità di vita. Ma se per opera d'ingegno e di stile io m'ebbi già qualche lode (né so quanta fosse, e se fu grande, fu falsa), ben io ricordo quanto potentemente operasse sull'animo mio. Mi lodasti, tu dici, mentre son vivo, e mi lodasti parlando meco.

Intendo onde muova il rimbrotto. Sta scritto: non lodare alcuno finché vive: e commentando quel passo Ambrogio disse: «Loda dopo la vita: esalta poiché il corso è compito;» ed altrove: «Loda quando passato è il pericolo: esalta chi già di se stesso ti dà sicurezza.» Ma che so io se mi verrà fatto di sopravvivere a te? - Ebbene: se vuoi lodarmi adesso, fallo almeno con altri, e non lo fare con me. - E se facendo l'una delle due cose non mi sapessi astenere dall'altra? - Lodandomi pregiudicherai la mia fama. - Oh! se questo temessi non vorrei lodarti davvero. Non ti spiaccia udire che altri ti loda. Servo buono e fedele quale tu sei, torna in onore di Cristo la lode tua. Chi può vietare che Cristo si lodi nelle opere sue? Non che la sola lode, anche il vanto è permesso nel Signore.

Agostino e Girolamo viventi ambedue, e non a terze persone, ma l'uno all'altro scrivendo, si danno mutue lodi, e vicendevolmente si chiamano: Padre santo e beatissimo. Io peraltro, soggiungi, non son Girolamo, né tu Agostino. È vero; ma che rispondi se io ti dico, che a me tu sei più che Girolamo ad Agostino, od Agostino a Girolamo? Non sai tu dunque che grande e piccolo sono cose relative, sì che anche il piccolo è grande in ragguaglio del minimo, e il grande diventa piccolo paragonato col massimo? Non sai che quell'Ambrogio medesimo il quale fa divieto di lodare i vivi, parlando con Agostino gli dà mille lodi? Leggi la sua omelia sulla Purificazione della Vergine, e vedi con quanta riverenza egli interroghi Agostino sul vero significato del cantico di Simeone. Tali e tante sono le lodi che ivi egli profonde all'ingegno ed alla santità di Agostino, che non di un padre ad un figlio, di un maestro ad un discepolo, di un capitano ad un soldato da lui rimesso sul retto sentiero, e colle sue mani al sacro fonte lavato dalle antiche sozzure, anzi nemmeno di un dottore, di un vescovo, di un amico, di un uomo ad un suo pari, ma ti parrà esser quello il linguaggio di un uomo a Dio, in atto d'implorare da lui un oracolo celeste. E qui mi sarebbe facile addurre in gran numero autorità ed esempi di filosofi e di poeti; ma perché temo che buono schermidore qual sei, agevole assai ti sarebbe parare i miei colpi, all'esempio mi apprendo degli uomini santi. Dimmi in fede tua: con quanta lode, con quanta onoranza di parole non parla Giovanni Crisostomo a Demetrio.... e ad Isidoro?

E Ilario d'Arles e Prospero ad Agostino? Ma tu rispondi che santi erano costoro cui quelli lodavano. E che dirai del dottor delle genti, del vaso di elezione, di Paolo Apostolo, che a Seneca uomo pagano (quantunque da Girolamo noverato tra i sacri scrittori) dette immense lodi in una lettera a lui stesso diretta? E a me sarà vietato lodare un uomo, che non solamente è cristiano, ma specialmente dedicato al servizio di Cristo combatte nelle schiere de' suoi soldati? Leggi le lettere di Ambrogio agl'imperatori Valentiniano e Teodosio: e vedrai come quel santo la severità delle sue parole pieghi a suono di onorificenza e di lode ogni volta che in quegli uomini profani gli vien dato di scorgere qualche traccia di virtù.

Lascia dunque il dire, come pur sogliono tutti i buoni, doversi solo lodare i santi, non te che sei un povero peccatore, e ti basti l'esempio che ti addussi di Ambrogio, al quale, se volessi, agevolmente potrei aggiungerne altri molti. È sentenza del regio profeta essere i santi venuti meno, perché la verità fece divorzio dagli uomini, e più non è alcuno che operi il bene; ond'è che se di mezzo a tante tenebre io veda sfavillare una scintilla, mi pare aver veduto risplendere un raggio di nuovo sole, né so tenermi dal lodare non tanto la luce stessa, quanto l'autor d'ogni luce.

Né per questo a me se ne deve porre cagione o ingenerarsene in te fastidio. Che se per dottrina di molti è definito essere qualche volta conveniente e scevro d'ogni biasimo il lodare se stesso, quanto più non sarà lodare altrui, o ascoltare la lode che da un altro ti è data? Basta che quella non proceda da dolo, da insolenza, da sconsigliata credulità, o da velenosa adulazione: delle quali turpitudini ogni lontano sospetto da te rimuove l'austerità della vita e della professione: da me, se non questa, lo tien lontano l'età mia senile e canuta, che naturalmente aborre dalla giovanile leggerezza, né sa piegarsi alle moine e alle blandizie proprie della inesperta adolescenza e della mollezza femminile. Per le quali cose sebbene a te internamente favelli un sicuro ed infallibile consigliere, pure facendo ragione delle forze dell'animo tuo, parlerò francamente ancor io, e ti dirò la mia sentenza qual sia. Fuggi dalla voce di chi ti adula come se fosse veleno addolcito col mele, e colla severità del tuo aspetto e delle tue parole, togli all'adulatore ogni coraggio di più tornarti d'innanzi.

Degli altri le lodi a te dirette fa' di accogliere in guisa, che se giuste esse sono, consapevole a te stesso dell'umana pochezza, tu ne prenda ragione a farti più umile, ed a glorificare maggiormente per esse il divino largitore di ogni bene, che tu possiedi: e se conosci di non meritarle, valgano a farti accorto di quel che in te manca, e adoperandoti a correggere in te il difetto, e nel lodatore l'errore, procaccia di divenire quale lodandoti ei ti dipinge: e così nell'un caso e nell'altro esse ti torneranno utilissime o a crescer la misura della dovuta gratitudine, o ad aumentare il tesoro della virtù, per guisa che lieto de' doni ricevuti, te ne porgerai a Dio riconoscente, o mesto delle mancanze che in te discopri, a tuo profitto rivolgerai l'errore altrui. Io peccatore come mi sono, non vengo ad impinguarti con olio il capo. Non sia mai che a te, padre mio, io mi porga quale non fui mai ad alcuno. A te parlando io procuro di eccitare me stesso, e tento far mio pro delle lodi che senza timor di nuocerti ti tributo, sperando che per esse si riscaldi il gelido mio petto; conciossiaché naturalmente ciascuno si sente mosso ad imitare chi degno conosce di eccelse lodi. Soffri dunque in pace le lodi mie come quelle per le quali e tu puoi divenire più grande, e in me può destarsi il desiderio d'imitarti. Io non ti nego però che tu faccia assai bene a dispregiare le lodi degli uomini, e specialmente di quelli a cui non puoi ricambiarle senza mentire: e ti avverrà quello che leggesi di Marco Catone, il quale quanto meno correva dietro alla gloria, tanto più si trovava d'averla raggiunta. Con tutto ciò se assolutamente tu mi comandi ch'io più non ti lodi, cesserò dal lodarti: ma non sarà mai che cessi dall'ammirarti. Quantunque, secondo che già ti dissi, non sei tu ch'io lodai, né tu che ammiro; ma quello in te lodo ed ammiro che la misera e caduca sua umana creatura rende soventi volte degna di lode e di ammirazione.

Ma non per questo cesserò mai dall'implorare il soccorso delle tue orazioni, perché ho ferma fidanza che tu non disprezzi le mie preghiere, e a Cristo giungano accette le tue. Troppo da lui io sono lontano, e debole e fioca per le mondane influenze è la mia voce. Tu a lui più vicino, come ascolti la mia, così a lui farai giungere il suono della pura tua voce, ed egli ti ascolterà, lo spero, e mercé tua mi farà degno di quella grazia ch'espressamente ti prego d'impetrarmi da lui: ciò è ch'io sia tale vivendo, quale morendo bramerei d'essere stato. Resta ora che io soddisfaccia alle domande e alle inchieste tue: le quali, a dir vero, porgerebbero a me pure cagione di sdegnarmi con te. Imperocché di così grand'elogio tu onori il mio povero ingegno, che di gran lunga eccedi ogni mio merito, ogni mio desiderio. Eppure se molto è quello che dici, incomparabilmente più è quello che intendi tacendo, quando mi consigli a compire il libro sulla dignità dell'umana condizione, promesso e non mai pubblicato da Innocenzo III, quasi che io, che non seppi condurre a fine il mio proposto, sia capace di adempiere quello di un altro, ed abbia valore che basti a scrivere con pienezza e con eleganza sopra qualunque soggetto. E non pensi che quell'illustre per merito d'ingegno e di virtù, precocemente innalzato al soglio de' Romani Pontefici, cominciato ch'ebbe l'opera sua dal trattare della umana miseria, appena appena giunse a finire quella prima parte: e della seconda sulla opposta materia altro non fece che dare nuda promessa senza lasciarne pegno veruno che, morto lui, potesse starne pagatore alla delusa posterità? E tu vorresti che io adempissi al suo compito, e mi mettessi al cimento di fare quello che per mancanza o di forza, o di coraggio, o di buon volere egli non fece?

Ma chi son io, e chi mi dà di poterlo, come dice Lelio in Cicerone? Se un tant'uomo ritrasse la mano dall'opera, oserò io d'intraprenderla? Messo da parte il grado supremo di Romano Pontefice, e giudicato sui meriti della sua privata persona, ei per sentenza dell'universale è proclamato dottissimo. Ma come Papa fu tale, che certamente (siccome mi venne udito anche da illustri Cardinali di straniera ed avversa nazione, i quali a malincuore erano costretti dalla forza del vero a confessarlo), nessuno de' suoi successori di lui fu più degno di occupare la sede di Pietro. E con un uomo di tanto ingegno, di tanta autorità, vorresti tu che io venissi a così disuguale confronto, che mentre non poté quegli finire il discorso sulla umana miseria, io dovessi trattare il contrario argomento, e per tal modo far soggetto al mio dire la parte più malagevole e più difficile di una materia ch'ei s'ebbe facile e piana? E chi non sa quanto vasto e fecondo sia il campo della umana miseria, e quanto per lo contrario sterile e angusto quello della umana prosperità?

Tutto ciò, non ostante, benché della persona io mai non ti vedessi, credo di averti così ben conosciuto dell'animo, che tengo per fermo la tua proposta non procedere altronde che dalla soverchia stima del mio ingegno, e dalla troppa fiducia onde mi onori per quell'amore che in Cristo a te mi lega. E secondo che potessi, vorrei pure obbedirti: che nulla a me sarebbe più grato del porgermi riverente a' tuoi comandi. Ma me ne fanno divieto le infinite mie occupazioni. Tante esse sono, che se tutte le conoscessi, tu ne saresti mosso non so se più alla compassione o alle risa. E non fu l'ambizione, e molto meno la cupidigia che me le procaccio; ma la mia libera elezione di studiar senza fine, e la inestinguibile sete di coltivare le lettere, la quale prevedo non potersi in me cessare che dalla morte. Sono da tutte le parti cinto, assediato da faccende e da cure; né di alcuno più propriamente che di me dir si potrebbe quel che Virgilio mise in bocca all'amante o pazzo e scioperato pastore: interrotte pendono le opere, e sull'olmo Potata a mezzo mi restò la vite. Come dunque nulla che io potessi vorrei negarti mai, così promettere non ti voglio cosa che ecceda il poter mio. Se però mi venga fatto di rubar qualche ora e d'impiegarla per te, vedrò modo di compiacerti, sperando che non l'ingegno mio, ma le tue orazioni mi aiutino ad obbedirti.

Or senti intanto, e stupiscine, come anche prima di cominciare, io mi trovi avviato il lavoro. Sto componendo un libro sui rimedi dell'una e dell'altra Fortuna, nel quale mi adopero in quanto è da me a calmare, e, se possibile fosse, ad estirpare le mie passioni e quelle di chi mi legga. Era io giunto a trattare della mestizia e della miseria: e parlando di quella tristezza dell'anima, che da noi talora si prova senza saper d'onde nasca, e che i filosofi chiamano melanconia, io mi studiava di contrapporle come rimedio il suo contrario, che è quanto dire mi adoperava a cercar le cagioni onde in noi destasi la letizia. E non è questo appunto un esplorare le cause della umana prosperità? Ebbene: in quel giorno stesso mi venne alle mani la tua lettera, che quello studio medesimo caldamente mi raccomandava, quasi che avessi tu saputo quel che io mi stava facendo, e fossi venuto a darmi di sprone perché non cessassi dal correre. Ed io volli obbedirti, e con più diligenza intesi a svolgere quell'argomento come se tu presente me lo imponessi, e tacitamente io rispondessi al tuo comando.

Vedi dunque che io faccio quel che tu vuoi: in quel che ho scritto tutta quasi in germe si racchiude la materia, la quale, se per cagione di morte, o per altro impedimento non mi sarà dato di amplificare e di esporre ornatamente ne' suoi particolari, t'avrai almeno questo che già ne scrissi, e ti sarà prova del mio buon volere. E basti di ciò. Alle altre tue domande, per risparmiarti un più lungo fastidio, t'invio la risposta a voce per mezzo di colui che ti recherà questa lettera, uomo di somma dottrina, di te amantissimo, e per amor tuo di me pure, che della sua persona, della sua fede e del suo senno assai mi piacqui.

Vivi felice in Gesù Cristo, per cui meriti io nuovamente ti prego e ti scongiuro, che quando a lui parli, ti sovvenga di me, né dall'altezza, a cui contemplandolo ti sollevi, chiuder tu voglia l'orecchio alla voce che dal profondo io sollevo invocando il Signore.

 

 

 

NOTA

Anche questa lettera e la precedente sono al certo collocate fuor dell'ordine cronologico, perocché scritte da Milano non possono appartenere agli ultimi anni della vita del Petrarca. L'abate De Sade le assegna all'anno 1357. Nelle Note alle lettere Familiari (15 e 16, XIX), e in quella alla 46 delle Varie, avemmo l'opportunità di parlare della villa di Linterno che il Petrarca si era procacciata a Garignano, lontana circa tre miglia da Milano dalla parte di Como. Era ivi presso la Certosa fondata da Giovanni Visconti, ed il Petrarca, divenuto amico de' Certosini, assai piacevasi di far vita con loro, profittando per i suoi studi della solitudine e della quiete di quel santo ritiro. Generale o gran Priore dell'ordine era Giovanni Birel Limosino, famoso per la santità della vita e per lo zelo con cui, parlando e scrivendo liberamente ai grandi della terra, si adoperava a promuovere la gloria di Dio. Quando nel 1352 vacò il papato per la morte di Clemente VI, i Cardinali riuniti in conclave gettarono gli occhi sopra il monaco Giovanni, siccome quello che loro parve acconcio ad attuare molte riforme delle quali sentivano il bisogno. Ma è fama che il card. Talleyrand si spaventasse per lo timore della sua soverchia austerità, e togliesse di mente ai suoi colleghi di far cadere su lui l'elezione.

Venerava anch'egli il Petrarca la virtù del Generale, e trovandosi a Linterno nella primavera del 1357, quando il Priore della Certosa di Milano partiva per condursi ad un Capitolo generale che doveva adunarsi nella grande Certosa, gli scrisse la prima di queste due lettere, apponendovi la data dalla Certosa di Milano ove ora dimoro, e la dette al Priore perché glie la recasse. In questa caldamente si raccomanda alle sue orazioni, ed usando un linguaggio conveniente alla persona cui scrive, empie il suo dettato di concetti e di frasi tolte ai libri sacri, e specialmente al salmo CVI. Rispose il Generale, e rampognato prima il Petrarca perché non avesse avuto ritegno di lodarlo parlando a lui stesso, mostrò di averne in grande stima l'ingegno col proporgli di compire l'opera cominciata e lasciata imperfetta da Innocenzo III Sulla Dignità della umana condizione. Bellamente scusandosi dall'assumere in sé quel carico, ei gli dice intanto che la sua 1337 lettera gli giunse quando stava scrivendo il dialogo XCIII, della seconda parte del trattato De remediis utriusquae fortunae, che ha per titolo De tristitia et miseria, ed in quello gli promette di riunire sommariamente tutta la materia, che potrebbe forse a bell'agio svilupparsi ed estendersi a compimento dell'opera di Papa Innocenzo.