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lettera VII  a un Amico ignoto

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

 

 

LIBRO SESTO

LETTERA VII

AD UN AMICO IGNOTO

 

Scio tibi magistrum

 

Vitupera l'avarizia specialmente ne' vecchi e nei re.

 

 

 

Io so che in casa hai chi t'insegna ad essere avaro; pur tuttavia aborrendo tu da quel vizio, io mi confido che senza entrare in lungo discorso, poche considerazioni basteranno a tenertene sempre lontano. Da queste prime parole tu bene intendi e dove io miri, e dove io vada a parare. Un animo nobile e liberale fu mandato alla scuola dell'avarizia, e gli si è posta a fianco qual pedagogo una mano di uomini d'ogni mal'arte espertissimi che han cento bocche e cento lingue, ferrea la voce, adamantino l'ingegno, ostinatissimo il giudizio.

Eppure (vedi quanta speranza di te m'affidi) io tengo per fermo che trionferà la ragione del vero: sarà vinto l'errore, ed il discepolo benché solo saprà deludere gli artifici di tanti maestri. E so ben io quali sono gl'insegnamenti degli avari ai figliuoli, agli amici, ai consorti loro: poco durare i guadagni: mai non finire le spese: misura della nobiltà, della gloria essere la pecunia: perduta questa, perdersi ogni estimazione: al povero non prestarsi mai fede, e quando giura, esser sospetto che giuri il falso: per lo contrario aversi in conto di verità qualunque menzogna de' ricchi: nuda essere la virtù senza danari, non altrimenti che senza vesti la persona, senza vagina la spada, senza faretra la saetta: stoltezza il senno del povero, temerità la eloquenza, tornargli la nobiltà del sangue a vergogna, la bellezza a pericolo, le amicizie a peso, la prole a dolore, le nozze a supplizio, la vita intera a ludibrio e a tormento.

E per lo contrario seguaci delle ricchezze essere i piaceri, gli onori, l'autorità, le clientele, le amicizie dei Re, il favore dei popoli, la porpora, i serici drappi, le dorate mense, le suppellettili eburnee, i vasi di Corinto, gli augusti palazzi, i talami eccelsi, gli splendidi matrimoni: da quelle crearsi ed abrogarsi le leggi, procacciarsi di chi meglio si voglia la salvezza e l'oppressione, e, quel ch'è più, splendidissima fama di bontà e di virtù acquistarsi ai malvagi. Né creder mica che io così parli per giuoco. Sdegnisi pure Cicerone a sua posta, ed esagerando si valga della socratica ironia: sta in fatto che il popolo tiene in conto di buono qualunque ricco, sebbene macchiato di tutti i vizi, né degno mai di tal nome reputa il povero, quantunque adorno d'ogni virtù. Provati a convocare un'adunanza di quelli che nelle nostre città sono in voce di virtuosi: ed io ti sto pagatore che dove siede Crasso non saranno ammessi Curio e Fabrizio; o, togliendo dai Greci l'esempio, non potrà presso il samio Policrate trovar seggio l'ateniese Aristide. Così le ricchezze usurparono il luogo della virtù:e vera si dimostra la sentenza di Flacco: Nobil sangue, valor, cosa da nulla Son senza l'oro.

e l'altra: Fama, onore, virtù, divina e umana Cosa qualunque allo splendor dell'oro Forza è che ceda, e sol che quello ammassi Te forte, illustre, sapïente, giusto Te Re pur anco, e più, se vuoi, diranno. E posto questo per vero, non sarà chi meravigli udir lo stesso poeta sdegnosamente esclamare: O cittadini, o cittadini, a cuore, Anzi che la virtù, sianvi i danari. E chi è mai che innanzi tutto cercare non voglia quello che sia il suo meglio, e da cui confida potergli derivare altri beni? Né voglio io già che tu creda a un sol testimonio. Senti Salomone, che dice egli pure: Tutto obbedisce alla pecunia. E ben potrei addurtene altri molti, se tanto nota non fosse la cosa, che punto non ne abbisogna. Fra gli armati satelliti la strada S'apre il danaro, e spezza più potente Che folgore celeste i duri sassi. Tanta è la possanza dell'oro.

Al par del fulmine non è forza che gli resista, non riparo che lo trattenga, e come lepida così vera è quell'arguzia che leggesi in Cicerone, non esser rocca inespugnabile tanto in cui penetrare non possa caricato d'oro un somiere: e veramente oggi vedi non essere altezza a cui per quel mezzo non si pervenga: ogni fossa, ogni vallo adegua l'avarizia, e basta l'oro ad abbattere le mura più forti e a rovesciare le torri più munite. Vuoi più? Onnipotente vien detto il danaro, e poco meno che tale è veramente nel regno dell'avarizia. Or che altro rimane se non che sia dio? E sì che molti veramente l'hanno per loro iddio, Comeché tempio ed are alla funesta Diva Pecunia l'uomo non abbia eretto. Così il satirico, o perché così fosse mentr'ei scriveva, o perché quello ignorasse ch'era già veramente. Ma noi sappiamo da Agostino tra le divinità dei gentili anche la Pecunia essersi venerata. E così non fosse pure al presente: ché se non dai veri fedeli, ben da tanti e tanti che si paiono tali, quantunque non manifesto, vero e tacito culto ella pur troppo riceve.

Sono questi i precetti, questi i consigli di coloro che si fanno maestri d'avarizia, e che il danaro tra le umane cose vilissimo pongono sovra tutte le altre, e levano al cielo. Ad essi mirava l'Apostolo quando l'avarizia chiamò servaggio degl'idoli, turpe vizio in ognuno, turpissimo ne' vecchi doviziosi, e ne' regnanti, ai quali per non so qual miseranda cecità dell'intelletto più spesso si apprende, mentre nessun fra i mortali dovrebbe averlo più a schifo di loro, se un raggio solo di vera luce ne rischiarasse le menti. Imperocché forse agli altri può servire di scusa la necessità ed il bisogno; ma quelli corrono dietro al superfluo, e per la strada del vizio si studiano a cader nel pericolo.

Crescono le ricchezze per frodi e per ingiustizie, e quando sorpassano i limiti del necessario, tosto si fanno pericolose. Dell'avarizia de' vecchi io non credo che in più poche parole dir si possa più bene di quello che lasciò scritto Cicerone: Io non capisco, egli dice, a che miri l'avarizia de' vecchi. Qual mai cosa più assurda che tanto più alcuno si affanni a far provvisioni pel viaggio, quanto più corto è quello che gli rimane? E acconciamente pur Seneca: Né di molto né per molto sono i nostri bisogni: e se in ogni età questo è vero, nella vecchiezza è verissimo. Or se di questo sconcio ti piaccia ricercare non già la ragione, ché nessuna può averne un vizio, ma sì la causa, troverai per avventura giusta esser quella che adduce Aristotele ne' suoi libri della Rettorica. Ivi ei trattando de' costumi de' giovani e de' vecchi, dice essere i giovani magnanimi, e ne dà per motivo il non aver ancora essi provati i disinganni della vita, né presa esperienza di quello che a sostentarla è necessario: e pusillanimi per lo contrario afferma i vecchi perché sentirono le miserie della vita, e per la esperienza propria impararono essere malagevole l'acquistare, e facilissimo il disperdere.

Le quali ragioni se valgono per avventura a scemare la colpa di quei vecchi, che ripensando ai sofferti bisogni e alle patite strettezze vanno nello spendere più parchi, non giovano peraltro ad escusare l'ingorda ed affannosa cupidigia nata di paura e di disperazione, per la quale altri temono che loro manchi ogni cosa necessaria alla vita, quando più vicina a venir meno è appunto la vita, al cui sostentamento debbono servire tanti guadagni e tanti risparmi. E qual più acconcia, qual più grave sentenza a frenare la cupidigia de' ricchi che quella di Orazio: Di far procaccio alfine cessi la smania: Se crebbe il censo, la paura scemi Della miseria: e poiché tuo divenne Del desiato ben goditi in pace. Ma d'uno stesso male diverse si possono addurre le cagioni, e se quella ne dette Seneca che parve a lui la più vera, piacque a me d'aggiungerne un'altra, che stimai più probabile, e che non volli ripetere perché ne tenni parola in altro luogo. Del resto la vera e sola radice di questo male si è che quanto più l'uomo possiede, tanto maggiori sono i suoi bisogni: e lo attestano ad una voce la filosofia e la esperienza, e lo afferma Flacco là dove dice: Molto chi chiede di molto difetta.

Alla quale sentenza chi ponga mente conoscerà come l'umano appetito, di sua natura insaziabile, per proprio fatto si studia e si adopera ad accrescere i suoi bisogni e ad impoverire; conciossiaché debba esser certo che tanto più diverrà bisognevole quanto diviene più ricco. Dirò da ultimo qualche cosa sull'avarizia dei Re, la quale è di tutte la più vergognosa. E qual v'ha cosa più indegna di un uomo che in mezzo alle fonti si muore di sete? E tale è un Re che sia avaro: perocché né furono né debbono essere da lui cercate le ricchezze che in gran copia possiede, e che a larga mano distribuite pur sempre ritornano in suo potere: e in così fatta condizione di fortuna temere, angustiarsi, vivere in pena per il danaro è sorte d'uomo disperatamente miserando. Della qual regia peste tre varietà si leggono descritte nel libro dei Secreti di Aristotele. Imperocché de' regnanti alcuni sono avari per se stessi e per i sudditi: né so come ad essi gl'Indiani dessero nome di buoni. Altri avari con se medesimi sono liberali inverso i sudditi: e questo gl'Italiani loro non apposero a colpa, perché se l'avarizia usata con altri è sempre vituperevole, usata con se stesso può trovarsi degna di lode, e quasi confondersi colla moderazione: anzi in tal caso non merita pure il nome di avarizia, ma dir si deve piuttosto frugalità, che quantunque opposta alla magnificenza, è peraltro affine alla temperanza. La povertà volontaria, secondo Seneca, è gloriosa condizione di stato, e molto più deve per tale tenersi da noi che sappiamo averla amata il nostro Dio, lodata e praticata.

Ma degna di onore la trovarono anch'essi i pagani, essendo Orazio quegli che disse: Chi più neghi a se stesso avrà più largo Il favor degli Dei. Per tal ragione io m'avviso che degno non reputassero gl'Italiani di biasimo alcuno un Re che parco con se medesimo fosse liberale co' sudditi, sebbene non manchi chi contraddicendo agli uni ed agli altri affermi che se gretto è per se stesso, anche per i popoli suoi a nulla vale il monarca. Ultima è la specie dei Re a se stessi liberali e magnifici, ed avari verso i soggetti, e questi ognun confessa essere i peggiori. E tali appunto sono oggi tutti, e a loro si acconcia quello che in Aristotele si legge, disconvenirsi al Re il nome di avaro, e dalla regia maestà discordar l'avarizia: la quale oggi diresti quasi coi Re connaturata doversi riguardare come parte ed ornamento del regio splendore. E quanto sono essi più grandi, tanto più a quella si abbandonano, ricoprendo col velo di regale provvidenza azioni nefande e scellerate.

Ecco la gloria, ecco la maestà dei nostri regnanti. E seguano pur essi ad accumulare e ad ammassare ricchezze senza modo né termine: a noi basti l'aver fin qui parlato di loro. Or quanto mi occorse alla mente tutto io ti dissi delle diverse spezie dell'avarizia. Ma tu né vecchio sei, né troppo ricco, né Re, non però giovane, né povero, né servo, ma in uno stato di mezzo, dal quale più liberamente che mai tu puoi scorgere la turpitudine degli estremi, ridere di coloro cui l'età, le ricchezze, il trono sono occasioni di colpa, e dalla vergogna che li ricopre far ragione di quello che all'onor tuo si conviene. Deh! non prestare ascolto, io ti prego, al magistero della pubblica opinione, o a quello che in vece sua ti sta a fianco nelle domestiche tue pareti. Se a me ti fidi, se qualche merito io m'ho presso di te, a me porgi l'orecchio, anzi non a me, ma al sapiente dell'Ecclesiastico, che dice: nulla esser più d'iniquo al mondo che l'avaro. Cenere e polvere, di che insuperbisci tu mai? Non v'ha di peggio che chi pone l'amor suo nella pecunia: perocché egli è capace di vendere anche l'anima sua.

E se vuoi non più vera, ma più amplificata udire la stessa sentenza, ascolta Cicerone che dando nel libro degli Offici le norme da seguirsi nel vivere, non avvi, dice, di cuor meschino e pusillanime argomento maggiore che amar le ricchezze, e dà prova di spiriti magnanimi ed onorati chi non avendo danaro lo tiene a vile, o avendone, ne usa liberalmente a fare altrui beneficio. Eccoti in poche parole come debba il danaro sprezzarsi od usarsi. E tornando agli scrittori sacri, perché tu veda come in questo vero siano tutti d'accordo, troverai scritto ne' Salmi: Deh! non vogliate sperare nell'ingiustizia, e cupidamente desiderare l'altrui. Né già con questo s'intende doversi rifiutare le ricchezze che spontaneamente ti vengono offerte, ma solamente fuggire di possederle con animo avaro: e però si soggiunge: Se le ricchezze vi abbondino, badate di non mettere in esse il cuor vostro. E quello che qui s'insegna, tu già lo porti scritto nell'animo, purché a cancellarlo non riesca il tuo pedagogo.

 

 

NOTA

Questa e la seguente lettera che si leggono tra le Senili nella edizione veneta del 1503, non si trovano nel luogo stesso, anzi non figurano in modo alcuno fra le lettere del Petrarca nelle posteriori edizioni di Basilea, nelle quali, riunite ambedue in un corpo solo, stanno alla fine del primo tomo col titolo: De avaritia vitanda eiusque magistris atque instrumentis fugiendis Oratio. Non tanto però la mancanza di ogni artificio oratorio, quanto la espressa e ripetuta dichiarazione che in più luoghi delle medesime si legge che l'autore intende parlare ad un solo, la cui presente condizione è di stare in luogo ove si pratica e s'insegna l'avarizia, ci fa sicuri che veramente questo lungo discorso il Petrarca dirigeva ad un amico in forma di lettera: e sebbene uno solo ne sia l'argomento, cioè il biasimo dell'avarizia, sembrami assai probabile che fosse diviso in due lettere; nella prima delle quali si vitupera in generale quel vizio, e si deplora specialmente nei vecchi e nei Re: nella seconda se ne trova quasi una scusa ed una ragione nell'alto concetto e nella somma stima che gli scrittori sacri e profani mostrarono sempre fatta dell'oro.

Troverà per avventura il lettore in queste lettere un abuso di erudizione: né io saprò contraddire al suo giudizio, mentre non mi ristò dall'ammirare come in un secolo in cui l'erudizione non era a buon mercato, e per mancanza di dizionari e di repertori non altrimenti acquistar si poteva che leggendo e rileggendo gli antichi scrittori, tanta ne possedesse in ogni materia il nostro Petrarca. Se poi mi si permetta il divinare congetturando a chi queste lettere potessero esser dirette, io direi che il Petrarca le scrisse a Zanobi da Strada dopo che seppe con certezza aver egli accettato l'officio di Segretario del Papa rimasto vacante per la morte di Francesco il Calvo. E forse vale a conferma di questa mia opinione il veder collocate queste due lettere nella edizione di Venezia dopo la 6ª scritta a Zanobi, quando la sua elezione era ancora incerta.