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lettera II  a Giovanni Boccaccio

Immagine di Giovanni Boccaccio a Firenze

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LIBRO DECIMO SETTIMO

LETTERA II

A GIOVANNI BOCCACCIO

 

Epistola status tui

 

Lo conforta per la povertà del suo stato: e gli rinnova il suo fermo proponimento di non voler mai cessare dagli studi che sono la sua delizia.

[Padova, 28 aprile 1362]

 

 

 

Ho ricevuto la lettera in cui del tuo stato mi dai contezza, e mi fu, per ciò che lo riguarda, grave ma non insolita cagione di dolore. Sono pur troppo avvezzo ad avere notizie delle siffatte. E bisogna pur confessare che tu sei molto disgraziato in quelli che il volgo chiama beni di fortuna, ma i veri filosofi né beni li stimano, né cose da avere in pregio, quantunque non neghino recarsi per essi qualche conforto alla vita mortale. Sa Iddio se me ne duole, e maledirei alla fortuna, se la credessi essere qualche cosa più che un nome vano. Ma sdegnarmene non ardisco, perché considero che qualunque cosa onde a noi proviene gaudio, o mestizia, opera non è del caso, come volgarmente si crede, ma sì di Dio, che te avendo arricchito di molti preclarissimi doni ponendoti al di sopra di quasi tutti i tuoi contemporanei, ti volle da un altro lato con una legge di giusta, ma forse molesta, compensazione, ridurre ad eguaglianza, così che tu fossi quasi il Lattanzio, od il Plauto dell'età nostra, ricco di eloquenza e d'ingegno, ma povero di sostanze.

Ma se tu voglia sottilmente adoperare quel giudizio che hai finissimo, e far con giustizia le tue ragioni, ragguagliando quello che ti fu concesso a quel che ti fu negato, io non mi lascio dubitare che messo tutto sulle bilance, dovrai sentenziare, che dura alquanto, ma non infelice sortisti in terra la vita. E perché tu di questo agevolmente ti persuada, fa' di pensare con fermo e sincero amore di verità, quanti fra gli uomini tutti siano coloro con i quali tu volessi scambiare non già le ricchezze, la salute, i poderi, ma tutto assolutamente quello che è tuo, e se di questi non trovi che pochissimi, o nessuno, datti pace, confortati e rendi grazie a Colui che a tutti dona liberalmente, ma va con misura, e non volendo che tu avessi tutto, ti dette il meglio. In questo noi c'inganniamo, che vedendo un uomo insigne per virtù e per dottrina difettare delle altre cose, ne facciamo le meraviglie, ne mettiamo sdegnosi lamenti, e ingiusta diciamo la sorte di lui che degno ci pare di sorte migliore.

Ma perché retto fosse questo giudizio, bisognerebbe che i beni ond'egli è fornito a dovizia, procedessero da lui medesimo, o da qualche altro, non da chi suoi doni sapientemente dispensa, né tutti ad uno, ma, come è scritto, questo a te, quello ad un altro provvidamente siccome vuole distribuisce e divide. Basti dunque l'aver ottenuto i doni più preziosi, sebbene i più vili fossero negati. E se alcuno ti venga innanzi menando vanto di caduche ricchezze, tu pieno il petto di filosofica e poetica dottrina, digli con Flacco: Sicule vacche danno fra cento armenti D'intorno a te muggito: Pulledre a trarre quadriga ormai possenti Levano a te nitrito. Te veste ricca lana Tinta due volte in porpora africana. A me la Parca, che mentir non usa, Concesse un poderetto E l'aura fine della greca musa mi spirò dentro al petto; E diedemi da sezzo Ch'io il volgo maligno abbia in disprezzo. (Trad. Rezzi.)

Spesso ragionando con amici io feci un discorso che or qui mi piace ripetere. Se taluno ornato di molte virtù si fosse per caso recato a' servigi d'un principe, e questi a lui porgendosi duro ed avaro, un bel dì gli dicesse: tienti contento alle tue virtù, e lascia che gli altri beni io dispensi ad altri, che di quelle son privi, ben quegli potrebbe a buon diritto rispondergli: se qualche virtù io posseggo, non sei già tu che me la desti: e però, se ti piaccia esser giusto, di nulla io debbo a te parer ricco dal merito in fuori, e a misura di quello accordarmi il guiderdone; e mal t'argomenti di lasciarmi in prezzo ciò che a me venne donato da Dio non da te, e che non rinfacciarmi, sì di condegno premio tu dovresti rimeritare. Ma non già questo dir si potrebbe al Signore che la virtù, l'anima, il corpo, tutto insomma ci dette, e a chi più da lui pretendesse ben egli potrebbe rispondere: Taci, statti contento alla tua sorte, e cessa dall'agognare ad ogni spezie di bene. Che se alcuno menasse vanto delle sue doti, e quale, direbbe con l'Apostolo, è dote in te che tu non abbia ricevuta: e se la ricevesti, come puoi tu vantartene quasi che nessuno te l'abbia data? Bastino queste poche cose delle molte che dir potrei su tale argomento, tanto a te note, che nessuno meglio di te le conosce: onde io senz'altro, concludo che non può l'uomo virtuoso menar lamento della povertà. Mi faccio ora a rispondere all'altra parte della tua lettera che me riguarda.

E già tante volte io ti dissi e ridissi la stessa cosa che m'è grave ridirla. Se grassa veramente e lieta, come tu scrivi, fosse la sorte mia, esser non potrebbe così com'è magra la tua. Tieni questo per assoluta verità. Muta linguaggio: in luogo di grassa, dilla mediocre: invece di lieta, chiamala non penosa, e t'accosterai più al vero. Ma qualunque essa sia, ricordati di quello che tante volte ti ho detto, né vorrei più ripetere. Se un solo pane io m'avessi, sarei lieto di dividerlo teco. Tanto bastò a quei famosi anacoreti che furono Paolo ed Antonio: perché non dovrebbe bastare ancora a noi? Non siamo degni, è vero, di un pane celeste; anche quel pane però condito dalla vicendevole carità, sebbene non sul rostro di un corvo, a noi sarà mandato dallo stesso Signore. E così se solo un letticciuolo io m'avessi nella mia camera, sarebbe largo abbastanza per accoglierci ambedue a dolce sonno, ed a fedele conforto delle cure diurne. Ma ti so dire che avremo più di un pane e più di un letto, e di nulla soffriremo difetto se conservar ci sapremo tranquilli ed equanimi. Ora mi faccio a parlare di quello che nella tua lettera mi ha veramente colpito di meraviglia e di stupore. Tu dici di soffrir grandemente per tutto quello ch'io soffro. Né punto io di questo mi meraviglio: non può l'un di noi sentirsi bene, se sappia che l'altro sta male.

E ti dici persuaso i miei mali provenire dalla età, perché, come il Comico scrive, è la vecchiaia un gran male per se medesima. E questo pure io trovo giusto, né quella sentenza rigetto, purché peraltro si aggiunga esser la vecchiaia un male pel corpo, ma un gran bene per l'animo. E che, dovrei forse bramare che la cosa andasse a rovescio, e sano avessi il corpo, l'animo infermo? Lo tolga Iddio: come del corpo, così e bramo, e godo che dell'uomo intero sia sana la parte più nobile.

Tu mi metti innanzi gli anni che ho, né lo potresti se io non te ne avessi dato il conto. E nel mettermeli innanzi quasi che io dimenticati l'avessi, me li richiami al pensiero. Fai bene: perché utile cosa è sempre il risvegliar la memoria specialmente di quelle cose che facilmente si vogliono lasciar nell'oblio, come sono tutte le rimembranze amare, dalle quali l'umana mente rifugge. Ma io me ne ricordo, credimi, amico, né passa giorno che io non dica a me stesso: ecco ho salito un altro gradino verso la mèta. Sogliono per impulso di ugual vanità i vecchi accrescersi, i giovani scemarsi gli anni: ma io de' miei con tutta buona fede ti scrissi il vero già son più anni, perché nulla ti fosse ignoto di quanto mi riguarda.

E non a te solo, ma a tutti gli amici miei scrissi di quei giorni una lettera rivelatrice della mia vecchiezza. Imperocché, sebbene dica Seneca che alcuni sentono a malincuore parlare di vecchiezza, di canizie e di altre delle cose siffatte, cui tutti pure fan voti per arrivare, ed io non d'alcuni, ma quasi di tutti creda avvenire il medesimo, non per questo dell'età mia più che d'altra cosa qualunque, vorrei vergognarmi. E come aver vergogna d'esser vecchio, se non l'ebbi di vivere? Questo non può durare a lungo senza di quello. Non d'esser più giovane io bramerei, ma sì d'aver menato più virtuosa e più studiosa la vita, né v'ha cosa onde io tanto mi dolga, quanto del non essere in tanto tempo potuto arrivare ove per me si doveva; e per questo a tutta lena mi adopero di riparar verso sera alla pigrizia della giornata, e spesso mi torna a mente la sentenza di quel sapientissimo principe che fu Cesare Augusto: Sempre abbastanza presto esser fatto ciò che abbastanza bene si fa, e quel filosofico detto del grande Platone: Beato colui che può ancor vecchio arricchire la mente di verità e di sapienza; o quella cattolica massima del santissimo Ambrogio: Felice ognuno, che sebbene vecchio, abbandonò la via dell'errore: felice chi già sotto la falce della morte sottrasse pure l'anima al vizio. Di questi ed altrettali pensieri io m'aiuto, come di stimoli ad emendare col favore del Cielo, quantunque sia tardi, non solamente i difetti della mia vita, ma quelli ancora de' miei scritti, ne' quali l'aver usato trascuranza, poteva forse negli anni giovanili ascriversi a foga d'ingegno, ma nell'età presente non potrebbe stimarsi effetto che di pigrizia e di torpore senile. Ed eccomi venuto a quel tuo consiglio di cui dissi, e ripeto che sento grandissima meraviglia. E chi non stupirebbe in udire un uomo di svegliatissimo ingegno consigliare al sonno e all'inerzia? Rileggi, io te ne prego, quel che m'hai scritto, e fanne tu stesso le dovute ragioni: sii tu giudice di te medesimo, e vedi se puoi mandarti assolto del consiglio di confortare i mali della vecchiezza con un rimedio che di quelli è dieci tanti peggiore, cioè a dire con la ignavia. E a farmene meglio persuaso ti sforzi a darmi a credere che io mi sia qualche cosa di grande, per guisa che come negli anni, così nello studio e nella dottrina mi sia tanto avanzato, da potermi a bell'agio fermar nel cammino. Ben altrimenti la penso io, e per proposto al tutto contrario mi sforzo a studiare il passo, ed a rifarmi in sull'ora del tramonto del tempo perduto quando splendeva più alto il Sole. Or come tu dai all'amico un consiglio che per te stesso non segui? Così per certo non fa chi vuol esser tenuto consigliere fedele.

Ma ben acuto è l'ingegno, sottile è l'arte onde fai mostra in questa bisogna. Per le opere mie tu noto mi dici anche a' lontani. Oh! Dio volesse che mi conoscessero, e non mi biasimassero i più vicini. Ma non ti basta: ed aggiungi cose con le quali, se io non ti conoscessi come un altro me stesso, crederei tu ti volessi far beffa di me: ma perché ti conosco, giudico che non tu me illudi, ma te fa cieco ed illuso quell'amore che mille e mille dottissimi uomini trasse in inganno. Imperocché conosciuto mi dici all'orto e all'occaso, né pago a tanto, aggiungi a quelli i lidi tutti del Mediterraneo, e per colmo di ridicolo gli Etiopi ancora e gl'Iperborei. Cosa invero da stupire, che un uomo quale tu sei, possa credere queste fandonie: ma ben è più da stupire che tu pensassi mai di farle credere a me: se pure non intendesti di accennar quelle parti, nel senso in cui anche in una piccolissima casa si possono designare i punti cardinali levante, ponente, tramontana e mezzodì. Quanto a me non è poco se mi credo conosciuto abbastanza a casa mia, e ti giuro che non avvi al mondo uomo che si stimi meno conosciuto di me. Ben io dunque mi meraviglio che tu amico mio voglia ingannarmi, e per dirla più propriamente, mi voglia far divenire un pazzo, e un otre di vento: e se, come dianzi diceva, l'ingannato sei tu, anche di questo resto trasecolato, dappoiché ho sempre creduto che nessuno al mondo mi conosca meglio di te. Ciò non ostante crederò tutto, anziché sospettare che un amico sì fido abbia voluto meco infingersi e prendersi giuoco di me. Ma sia pure che a qualche distanza, anzi che a distanza grandissima, anzi che fin colà io pover'uomo omicciattolo sia conosciuto, dove a' tempi di Marco Tullio giunta ancora non era la fama della Repubblica Romana, come disse Severino (il quale colla sua solita sbadataggine riferisce ai tempi di Cicerone ciò che questi narrava dell'età di Scipione Africano); sia pure che in qualunque parte del mondo più lontana tu possa fingere che sia giunto il mio nome, come talora vediamo alcuni padri benché dottissimi sognar meraviglie, e immaginare miracoli di figli stolidi ed incapaci di alcun che di buono. Crederesti tu che per questo io volessi ristarmi dallo studiare? Per lo contrario io ti dico che ciò mi sarebbe di sprone: e quanto più lieto io fossi della riuscita de' miei studi, tanto più intensa vorrei che fosse la mia applicazione, sì che il passato buon successo non pigro mi rendesse, ma sollecito e ardente. Ma quasi che angusti a te paressero i confini della terra, di me tu dici ch'io son conosciuto oltre le stelle; come già fu detto di Enea e di Giulio: e questa lode io non rifiuto: ché ben so d'esser conosciuto dal cielo: così potessi lusingarmi ancora d'esserne amato! Tu aggiungi poi che per impulso da me ricevuto, molti oggi sono in Italia, e molti per avventura anche fuori che impresero a coltivare questi studi trasandati per tanti secoli, ond'è che, essendo ormai fatto io vecchio più di tutti coloro che pongono in quelli loro opera, cedendo libero il passo ai più giovani, mi piace di prender riposo dalle durate fatiche, e di lasciare che possano pur gli altri scrivere qualche cosa, perché non si paia che tutto voglia scrivere io solo. Oh! quanto discordano su questo punto le nostre sentenze, mentre pur uno sarebbe il volere di ambedue. Tu stimi che tutto, o molto almeno io abbia scritto, ed a me pare di non avere scritto nulla. Ma se fosse anche vero che molto avessi già scritto, qual miglior mezzo m'avrei per eccitare a far lo stesso chi verrà dopo me, che il durar nello scrivere?

Vale più l'esempio che la parola. Con ardore giovanile, quantunque d'anni già vecchio, combattendo Camillo, l'animo de' giovani ad operar grandi imprese ebbe per certo spronato con più efficacia, che fatto non avrebbe se, lasciati quelli sul campo, li avesse esortati alla pugna, ed ei si fosse riparato nella sua tenda. Quanto poi al tuo temere che tutto io scrivendo nulla rimanga da scrivere agli altri, io lo metto a ragguaglio con quello d'Alessandro il Macedone, del quale è da ridere udendo come temesse che le tante vittorie di Filippo suo padre togliessero a lui la speranza di riportarne più alcuna. Stolto che non sapeva come tutto domato l'Oriente, tante altre guerre a sostenere gli rimanessero, né conosceva ancora le forze dei Marzii, e di Papirio Cursore. Acconcia al caso è la sentenza di Seneca, che scrivendo a Lucilio, «molto, gli dice, resta pur sempre da fare; né mai sarà che ad un uomo, nascesse pur egli da qui a mille secoli, venga meno l'occasione di aggiungere qualche cosa al già fatto.» Vedi quale strana contraddizione è la tua. Perché io desista dalle incominciate fatiche, da un lato ti adoperi a dimostrarmi la impossibilità di raggiunger lo scopo che mi prefissi; dall'altro mi metti innanzi lo splendore di una gloria già pienamente conseguita, e dici essere il mondo già pieno delle opere mie.

Mi domandi se io pensi di adeguare le opere di Origene e di Agostino? Quanto ad Agostino, nessuno io credo potergli venire a paro. E chi potrebbe sperarlo a' tempi nostri, se nessuno vi fu che lo raggiungesse nell'età sua di grandi ingegni feconda più che altra mai? uomo egli fu, a parer mio, sotto ogni aspetto troppo grande, ed al tutto inarrivabile. Ma quanto agli scritti di Origene, sappi che io li giudico più a peso che a numero, e più lui stimerei se poche operette avesse scritte di sana dottrina, che non faccio per i moltissimi libri, in cui, se vera è la fama, versò a piene mani grandissimi e imperdonabili errori. Impossibile dunque, siccome tu dici, sarebbe a me l'uguagliarmi all'uno ed all'altro, sebbene tanta fra loro sia la differenza. Ma contro te stesso poi ragionando, mentre me conforti a riposarmi nell'ozio, non so perché metti innanzi quei vecchi laboriosissimi che furono Socrate, Sofocle, Catone il Censore, e se non fosse che nessuno discorre a lungo contro la propria sentenza, altri molti ne avresti agevolmente rammentati: indi cercando quasi la scusa, e del tuo ragionare, e della debolezza mia, soggiungi, che forse ebbero quelli complessione più robusta di me. E questo debbo confessare esser vero: sebbene a giudizio di quelli che di tali cose si conoscono, robustissima un giorno l'avessi anch'io: ma la vecchiaia fu di quella più forte. Noti poi come a me gran parte del tempo rubasse l'aver vissuto alle Corti de' Principi. E qui, perché tu non t'inganni, ascolta il vero. A quel che parve io vissi coi Principi, ma in realtà furono essi i Principi che vissero meco. Di rado ai loro consigli, di radissimo intervenni ai conviti loro. Mai non mi sarei potuto acconciare ad un sistema di vita, che sebbene per poco, alla mia libertà mi togliesse, o mi distraesse dagli studi miei; e perciò, mentre gli altri correvano al Palazzo, io mi dirigeva alla campagna, o mi rintanava nella mia cameretta. Se dicessi di non aver mai perduto una giornata, direi il falso; pur troppo molte io ne perdetti, (e Dio non voglia che debba dirsi, di tutte) o per pigrizia, o per infermità del corpo, o per dolori dell'animo, ai quali non mi riuscì di sottrarre la mente. Ma quello ch'io m'abbia perduto in ossequio al volere dei Principi, ora te lo dirò: poiché, come Seneca, tengo ancor io il registro delle mie spese. Mandato una volta a Venezia per trattare della pace fra quella città e la Repubblica di Genova, ivi per quel negozio perdetti un mese intero: andato poi nelle terre de' barbari al Signore di Roma che ridestava (ahi! dir doveva che abbandonava) le speranze di rialzare l'abbattuto impero, ivi, trattando della pace di Liguria, furono da me perduti tre altri mesi d'inverno, e tre finalmente ne consumai di estate allora che fui spedito a congratulare con Giovanni Re de' Francesi per la sua liberazione dalla Britannica prigionia. E quantunque anche nel tempo di questi viaggi, io tenessi la mente nei soliti studi esercitata, pure perché non poteva né scrivere, né tenere a memoria le considerazioni che andava facendo, chiamo perduti quei giorni.

Tuttavia nell'ultima volta che tornai in Italia, io mi rammento di avere scritto una ben lunga lettera sulle vicende della Fortuna a quello studioso vecchio che fu Pietro di Poitiers, il quale non poté riceverla perché, ritardata nel corso, quando essa giunse, egli era già morto. Ecco dunque tutto il tempo da me sciupato in servigio de' Principi: sette mesi: non poco invero se si faccia ragione della brevità della vita; ma Dio volesse che più assai non ne avessi mandato a male per le vane ed inutili cure che mi occuparono negli anni miei giovanili. Rincalzi tu l'argomento osservando, che forse diversa è per noi da quella che fu per gli antichi la misura della vita, e che vecchi sono ai dì nostri quelli che giovani tuttavia si sarebbero stimati da loro. E a questo io non altro saprei rispondere da ciò che non ha guari risposi ad un dottore di leggi di questa Università, che per scemare la stima dovuta agli studi degli antichi, e per trovare una scusa alla pigrizia dei moderni, soleva nella scuola servirsi dello stesso argomento: ed io per uno dei suoi discepoli gli mandai dicendo, che più non si lasciasse uscire di bocca tai cose, per le quali potrebbe parersi fra tanti dotti ignorante.

Da duemila e più anni a questa parte la durata dell'umana vita non ha sofferto alcun cambiamento. Sessantatre anni visse Aristotele, e altrettanti Cicerone, che più ne avrebbe vissuti se nol vietava quell'ubriacone e quell'empio che fu Antonio, e quante cose aveva scritto della intempestiva e misera sua vecchiezza, tra le quali il libro De senectute ad uso suo e dell'amico! Sessanta ne vissero Ennio ed Orazio Flacco: soli cinquantadue Virgilio che anche oggidì parrebbero pochi. Giunse Platone agli ottantuno e parve cosa mirabile tanto, che i Magi gli offersero un sacrificio quasi che avesse oltrepassato la piena misura, e che fosse perciò da reputar più che un uomo: eppur vediamo ogni giorno questi casi fra noi, e ci scontriamo in uomini ottuagenari e nonagenari senza che alcuno ne faccia le meraviglie, e pensi ad offrir sacrifici. Che se tu mi venga innanzi con Varrone, con Catone, e con altri che giunsero ai cento anni, e con Giorgio Leontino che loro andò molto innanzi, ho pur ben io pronti esempi del tempo nostro da contrapporre: ma perché trattasi di nomi quasi tutti oscuri, mi terrò contento a quel famoso eremita Ravignano che fu Romualdo, il quale tra le rigorose penitenze spontaneamente sofferte per amore di Cristo, nelle veglie e nel digiuno (da cui, per quanto è in te, a tutt'uomo ti adoperi a dissuadermi) condusse la vita sua fino a cento e venti anni. Che se di questo particolare io mi trattenni a discorrere un poco più a lungo, perciò appunto lo feci, che tu non abbia a credere o a dire essere stati i nostri maggiori più robusti e più longevi di noi, tranne i Patriarchi che vissero al principio del mondo, e che certamente non posero studio alcuno nelle lettere.

Quei padri nostri ebbero maggiore di noi l'attività non la vita, se pure dirsi non voglia che senza attività la vita non è quaggiù che una vana ed oziosa dimora. Ma da queste difficoltà assai prudentemente tu intendesti a trarti fuori, dicendo che senza parlar dell'età, forse per la diversità della complessione, forse per quella dell'aria, o dei cibi, forse per altre ragioni, io non avrei potuto fare quanto essi fecero: ed io son teco d'accordo, e confesso esser vero quanto tu dici. Non però convengo d'un modo nella conseguenza che tu ne deduci, e che t'ingegni di porre in sodo con molti argomenti, i quali, almeno in parte, ripugnano al fin qui detto. Imperocché consigliandomi tu dici che io debba contentarmi di avere nella poesia raggiunto Virgilio, e Cicerone nella prosa. Ed oh! volesse Dio che fido al vero, non fatto cieco dall'amore che mi porti, tu questo dicessi. Indi prosegui che fatto io degno secondo l'antico costume per solenne decreto del Senato, di un nobilissimo titolo, conseguito il rarissimo onore della Laurea romana, colto dai miei studi abbondantissimo frutto di gloria, giudicato pari ai più grandi, e splendidamente premiato per le durate fatiche, debba una volta ristarmi dall'essere importuno agli uomini ed agli Dei, e come quegli cui tutto venne sortito quanto poteva bramare, far posa una volta, e non desiderare più oltre. E diresti pur bene se quello onde te fece persuaso l'amore, o vero fosse, o almeno da tutti creduto vero: e secondo che oggimai porta il costume, m'acconcerei a prestar fede sul conto mio alla pubblica opinione.

Ma ben altrimenti da te pensano gli altri, ed io specialmente che so pur troppo di non potermi agguagliare ad altri che al volgo, al quale però meglio vorrei essere ignoto, che simile. Quanto alla Laurea, immaturo degli anni io la ottenni, ed acerbe ne furono per me le foglie; e se maturo io allora fossi stato, non l'avrei punto desiderata: ché, come i vecchi delle utili cose, così delle cose straordinarie son vaghi i giovani, i quali non ne prevedono la fine. Che credi tu di quella corona? Non di dottrina, non di eloquenza frutto veruno io ne colsi, ma sì di invidia infinita amarissimo frutto, che m'ebbe tolto ogni riposo, e della vana mia gloria, e della giovanile mia audacia mi fece scontare la pena. Tutte da quel giorno a miei danni si volsero le lingue e le penne, e sostener mi fu forza una continua battaglia, star sempre sulle difese, e ora a dritta ora a manca parare i colpi che mi scagliarono gli amici convertiti dall'invidia in nemici implacabili. Oh! quante cose potrei narrarti a questo proposito che ti farebbero trasecolare. Questo ti basti che dalla Laurea io ottenni solo di esser conosciuto e preso di mira; e se quella non era, avrei potuto godermi la vita in quello stato che molti a buon diritto reputano d'ogni stato il migliore, viver cioè sconosciuto e tranquillo. L'ultima parte del tuo discorso intesa mi pare a persuadermi che quanto posso più lunga io mi procuri la vita a conforto de' vecchi amici, e specialmente di te, che brami, siccome dici, di lasciarmi superstite. Ahimè! che questo voto medesimo ebbe formato il nostro Simonide, ed ahimè! che pur troppo ei ne fu pago, il quale se a legge d'ordine si reggessero le umane vite, morir doveva più tardi di me. Ed ecco altri amici carissimi, e tra loro tu primo chieder lo stesso, mentre alla pietosa vostra preghiera una al tutto contraria io muovo al cielo, e bramo morendo lasciarvi salvi, sì che vivo io rimanga nella memoria vostra, nelle vostre parole, ed amato e desiderato sempre da voi, goder mi possa il sollievo de' vostri suffragi, ché questo, a parer mio, per l'uomo che muore è il maggior de' conforti dopo quello di una pura coscienza. Che se quel tuo desiderio movesse dal credere che io sia tenacemente a questa vita attaccato, sappilo, amico mio, tu t'inganni a partito. E com'esser potrebbe che io desiderassi di vivere a lungo fra questi costumi, de' quali m'addolora esser testimonio, e per tacere del peggio, tra queste oscene e corrotte abitudini di uomini vanissimi sempre, ma non mai quanto basti, da me cogli scritti e colle parole vituperati, che nati in Italia, e menando pur vanto di essere Italiani, fanno di tutto per parersi barbari, e Dio volesse che fossero, e della schifosa comunanza con loro me liberassero, e tutti i veri Italiani. Sperda Iddio vivi e morti costoro, a cui non basta l'avere con vilissima ignavia sprecato il tesoro delle virtù che in guerra e in pace rifulsero de' nostri maggiori, se pazzamente non deturpino ancora la lingua e le vesti patrie. Oh! felici non solo gli avi nostri che in buon'ora di qua si partirono, ma quelli ancora che in mezzo a noi sono ciechi degli occhi sì che non li vedono.

Mi chiedi infine che io ti perdoni dell'ardire che ti mosse a consigliarmi che, cangiando il tenore della mia vita, mi piace abbandonare gli usati studi e le consuete fatiche, e la tarda età mia stanca dagli anni e dal lavoro confortar col riposo dell'inerzia e dell'ozio. Ed io meglio che perdonarti ti ringrazio per quell'amore di cui mi dai prova, e che ti fa medico de' mali miei, mentre de' tuoi non ti dai cura. E chiedo io che tu mi perdoni se non posso ubbidirti, e se ti dico, che di vivere a lungo io non son punto desideroso: ma quand'anche lo fossi, il consiglio tuo non varrebbe che ad accorciarmi la vita.

La fatica continua e l'applicazione sono l'alimento dell'animo mio. Quando comincerò a rallentare ed a cercare riposo, tieni per certo che cesserò di vivere. Conosco ben io le mie forze, e sento che a certe altre fatiche esse più non mi basterebbero. Ma il leggere e lo scrivere, da cui tu vorresti che io mi ristessi, sono per me fatica assai lieve, anzi son dolce ristoro che conforta dalle fatiche più gravi, e ne produce l'oblio. Non v'ha cosa che pesi meno della penna, né che più di quella diletti: gli altri piaceri svaniscono, e dilettando fan male; la penna stretta fra le dita dà piacere, posata dà compiacenza, e torna utile non a quegli soltanto che di lei si valse, ma ad altri ancora e spesso a molti che son lontani, e talvolta anche a quelli che nasceranno dopo mille anni. Io non mi lascio aver dubbio di affermare che di tutti i piaceri sortiti all'uomo sulla terra, lo studio delle lettere è come il più nobile, così il più durevole, il più soave, il più costante, quello che in ogni congiuntura della vita è il più facile a conseguirsi, il meno incomodo a procacciarsi.

Perdonami dunque, fratello mio, perdonami se disposto a crederti in tutt'altro, in questo io non ti credo. Tu puoi dir di me quel che vuoi, e farmi comparire quel che ti piace: ché di tutto è capace lo stile di un uomo dotto ed eloquente. Io peraltro e debbo e voglio adoperarmi a tutt'uomo, se non sono ancor nulla, ad essere qualche cosa; se qualche cosa già sono, a crescere alcun poco; e se fossi già grande (il che non è), a divenire come meglio potessi più grande, grandissimo. E perché non poss'io far mie le magnifiche parole di quel barbaro crudele, il quale a chi lo consigliava di cessare dalle fatiche perch'era già grande abbastanza, dette una risposta degna di un uomo totalmente diverso dalla sua barbarica natura, dicendo: «Quanto più sarò grande, tanto più grandi saranno le mie fatiche?»

Io sono dunque irremovibile dal mio proposto: e quanto io aborra dallo starmi in ozio, te lo dirà la lettera che segue a questa. Perocché non contento delle grandi opere da me cominciate, a cui né può bastare questa mia vita, né basterebbe pure se si raddoppiasse, vado ogni dì pescando nuovi ed estranei lavori: tanto ho in odio il poltrire nell'ozio, e il non far nulla. E che? Non ponesti tu mente a quel detto dell'Ecclesiastico: Quando l'uomo avrà consumato l'opera sua, allora comincerà, e quando si troverà in riposo, allora si darà al lavoro? Quanto a me e' mi pare di aver cominciato or ora. Pensa tu come vuoi, pensino gli altri a loro senno; io la penso così. E se frattanto giungerà la mia fine, che certamente non può di molto esser lontana, vorrei, lo confesso, che la marte mi trovasse giovane ancora dopo compiuta la vita.

Ma poiché ai termini cui sono le mie cose ridotte, questo non mi è dato di sperare, bramo che mi trovi intento a leggere, a scrivere, o meglio, a Dio piacendo, a pregare ed a piangere. Tu sta' sano e ricordevole di me, e virilmente perseverante vivi felice.

Di Padova, a dì 28 di aprile a sera.

 

 

 

NOTA

Sono queste le ultime lettere dirette dal Petrarca al Boccaccio: imperocché, sebbene ad esse ne segua un'altra (cioè la IIIª di questo libro), dalla prima, e dalle ultime parole di questa seconda appare abbastanza che il Petrarca aveva già tradotta in latino la Griselda, quando ricevette dal Boccaccio una lettera nella quale questi si lagnava del suo povero stato, compativa ai malanni cui messer Francesco andava soggetto nella vecchiaia e lo consigliava a non affaticarsi ulteriormente negli studi, dai quali aveva già colto frutto che doveva bastargli di sapienza e di gloria. Parve allora al Petrarca che non si convenisse mandare all'amico la lettera contenente la traduzione della Griselda senz'avergli nulla risposto; e rotto il proposto di non dettare più lettere agli amici, scrisse tutta di suo pugno questa seconda e l'accompagnò colla prima, unitamente ad esse mandando al Boccaccio anche la terza. Ed è veramente questa seconda una delle più belle dell'Epistolario siccome quella da cui, più che da qualunque altra, si pare il caldo amore del Petrarca allo studio, e la sua costanza nell'attendervi fino agli ultimi momenti della gloriosa sua vita.

Nelle tre legazioni in questa lettera rammentate il lettore avrà subito riconosciute quella del 1353 a Venezia, l'altra del 1356 a Praga, e l'ultima del 1360 a Parigi. La lettera a Pietro di Poitiers, di cui fa menzione, è la 14, XXII, Fam. Del rimanente queste due lettere non abbisognarono di altra dichiarazione; e per ciò che riguarda la data delle medesime, è superfluo dopo quanto si disse nelle note precedenti l'aggiungere che si debbono riferire al 1373.