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lettera I  a Luca della Penna

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova

 

 

LIBRO DECIMOSESTO

LETTERA I

A LUCA DELLA PENNA SEGRETARIO DEL PAPA

 

Dabis veniam

 

Com'egli acquistasse, e come perdesse alcune opere di Cicerone.

[Arquà, 27 aprile 1373]

 

 

 

Comincio dal chiederti perdono dell'usare che teco io faccio di questo mio stile, il quale ad alcuno per avventura potrà sembrare irriverente: ma Dio m'è testimonio che non per manco del rispetto a te dovuto io me ne servo. È questo lo stile mio, né usarne potrei uno diverso. Tu sei sol uno, e a te scrivendo credo dovermi servire del numero singolare, seguendo non la piacenterìa de' moderni, ma sì le ragioni del vero: e meraviglio che tu dotto e sapiente qual sei, allora che parli meco non ti avveda che sono io pure uno solo.

Ed oh! così fossi veramente uno ed intero, non diviso e discorde da me medesimo per vizi e per colpe. All'imperatore di Roma, agli altri Monarchi, ai Papi stessi io non soglio parlare in altro modo, e se il facessi mi parrebbe di mentire a me medesimo. E per tacere di tanti altri comeché grandi e grandissimi signori, al re dei re, al signor dei signori che è Gesù Cristo non parliamo noi sempre come si parla ad un solo? Voglio anzi con te, novello amico mio, liberamente vantarmi siccome già feci con uno degli [456] amici miei più antichi, d'aver io nell'Italia, non dico già introdotto ma rinnovato questo modo di scrivere, per lo quale in sulle prime i giovani miei compagni si facevano le beffe di me, e poscia a poco a poco finirono tutti coll'imitarmi. Ciò premesso, comincio.

Stette molti giorni in viaggio l'ultima tua lettera, perocché, scritta dalla sinistra riva del Rodano ai 3 di febbraio, giunse sul far della notte al 23 di marzo a questi colli Euganei, ove di faccia ad un riposto seno dell'Adriatico, vecchio ed infermo conduco la vita nella solitudine che a me fu cara fin dalla prima gioventù, porgendomi qual sempre fui amatore de' campi ed odiatore delle città. Tu mi chiedevi che se per caso io possedessi alcun'opera o sconosciuta al tutto o assai rara di Cicerone, mi piacesse di accomodartene, perché tu potessi servirtene per certa opera da te non ha guari intrapresa. Per scrupolo di giustizia aggiungevi che ciò dovesse essere a spese tue, e dicevi di sperare, né t'ingannavi, che quantunque di persona io non ti conosca, compiacer ti vorrei dell'onesto desiderio. Perocché a tanto mi persuaderebbe e la fama del nome tuo che quantunque da lungi suona onorata, e la reverenza al Pontefice massimo nostro signore per cui comando a quell'opera tu ti accingesti: il quale tanto a me si porse benigno colle parole e collo scritto, che veramente ei mi fece cosa tutta sua, sebbene suoi per assoluto dovere siano tutti quelli che seguono la fede di Cristo.

Ti risposi allora non come avrei voluto, ma come potei: di Cicerone io non avere altri libri che quelli i quali vanno per le mani di tutti, e che il Signor nostro già tutti possiede, se pure a me non ne manchi qualcuno. Aggiunsi peraltro, e dissi il vero, che io ne aveva avuto alcun altro, e che l'aveva perduto; e perché lungo sarebbe stato il narrarti come ciò mi avvenisse, te lo dissi in poche parole. Or tu mi scrivi che quella risposta mia non ti pervenne, e chiedi che torni a dartela, sì per sapere quel che io ti diceva, sì per prender diletto della mia lettera. E quantunque io conosca che ciò procede dalla troppa stima e dal soverchio amore che mi porti, eccomi ad obbedirti. Ad un vecchio qual io mi sono spossato dagli anni, e pieno di mille faccende, non solo fatica, come tu dici, ma suole essere un supplizio lo scrivere. Pure io ti scrivo. Se ciò sia con tuo diletto starà in te il giudicarlo. Quanto alla fatica ti dico che se io mi lasciassi andare secondo che ne sento la voglia, riuscirei per avventura a stancar te che mi leggi. Ecco dunque come sta la bisogna. Fin dalla prima mia fanciullezza, quando gli altri non studiano che in Prospero, o in Esopo, io tutto mi detti a Cicerone, vuoi per naturale simpatia, vuoi per impulso che me ne desse il padre mio, il quale tenne sempre quello scrittore in altissima venerazione, e ne sarebbe egli stesso venuto a gloriosa mèta, se le domestiche cure non avessero occupato il suo nobile ingegno, e l'esilio da cui fu colpito con la numerosa famiglia, non lo avesse costretto ad intendere ad altro scopo le forze dell'animo.

A quell'età io non era capace di comprendere quel che leggeva: ma tanto era il diletto che io prendeva dall'armoniosa disposizione delle parole, che qualunque altro libro mi venisse letto od udito parevami render suono ingrato e discorde. Era quello, bisogna pur confessarlo, di me fanciullo non fanciullesco giudizio: se pur giudizio dirsi poteva non si fondando sovra ragione. Ma certamente è da meravigliare che non intendendo nulla, io già sentissi quello stesso che sento oggi mentre, quantunque poco, intendo pur qualche cosa. Cresceva di giorno in giorno in me quell'amore, e mio padre meravigliandone secondò per paterno affetto l'immatura mia propensione; ed io non rifuggendo da qualunque fatica che giovasse il mio intento, come appena rotta la buccia cominciai ad assaporare il gusto del frutto, più non ristetti dal porvi ogni studio, né fu sollazzo od altra cosa piacevole cui volentieri non volgessi le spalle, per darmi tutto a ricercare quanti più potessi de' libri di Cicerone. Così, senza bisogno di stimolo altrui, alacremente io procedeva nello studio incominciato, quando prevalendo ad ogni altro il desiderio di aprirmi una via alla ricchezza, si volle che io mi applicassi al giure civile, e per imparare quel che le leggi dispongano del comodato e del mutuo, del testamento e dei codicilli, dei predi rustici e degli urbani, gettar dovessi da un canto le opere di Cicerone che contengono le leggi più salutari alla vita.

In quello studio sette anni interi furono da me non dico spesi, ma al tutto sciupati. E perché ti sia cagione a un tempo di riso e di compassione, ti dirò pure quel che una volta mi avvenne. Presago di quello che accadde, io gelosamente custodiva riposti in un segreto nascondiglio tutti i libri che aveva potuto raccogliere di Cicerone e di alcuni poeti. Or bene. Condannati come ostacolo ed impedimento a quello studio che reputavasi sicura fonte di grassi guadagni, io con questi occhi li vidi trarre fuori da quel bugigattolo, e quasi fossero documenti di eretica pravità, con ignobile disprezzo gettar nelle fiamme. Straziato da quello spettacolo non altrimenti che se quel fuoco a me bruciasse le carni, io proruppi in dolorosi lamenti, onde commosso, come ben mi ricorda, mio padre sottrasse all'incendio due volumi già mezzo abbronzati, e a me che piangeva, d'una mano porgendo Virgilio, dall'altra i retorici di Cicerone «tieni, sorridendo mi disse: abbiti questo per ricrearti qualche rara volta la mente, e quest'altro a conforto e ad aiuto nello studio delle leggi.»

In grazia di quei pochi ma grandi scrittori che mi furono lasciati, frenai le lacrime, e come appena nei primi anni della mia gioventù rimasi padrone di me stesso, dato il bando ai libri di giurisprudenza, feci ritorno agli studi miei prediletti, e quanto più doloroso mi era stato il distaccarmene, tanto fu più grande l'ardore con cui li ripresi. Indi a non molto su i ventisei anni dell'età mia divenni amico e famigliare dei signori Colonnesi, gente nobilissima, ma troppo ahi! sventurata, e oggetto a me di perpetua venerazione e di pianto, in mezzo alla quale passai quasi tutti gli anni più verdi; e di ciò fui debitore a quell'uomo incomparabile che fu Giacomo Colonna, Vescovo allora, di cui mai non sarà che mi parta dal cuore la dolce ad un tempo ed amplissima rimembranza. Non era il mondo degno di lui, e Cristo che per sé lo voleva, innanzi tempo alla terra ritolto, recosselo in cielo. E qui poiché tu vecchio a me vecchio imponesti la fatica di scrivere, soffri ch'io vecchio a te vecchio prolunghi quella di leggere. Costui dunque, siccome poi diceva egli stesso, per lungo tempo mi aveva veduto quando, uscito appena dagli anni della puerizia, io dimorava per gli studi a Bologna, e per naturale simpatia si sentiva disposto ad amarmi, comeché non sapesse d'onde e chi fossi, solo dall'abito argomentando essere io uno studente come lui.

Imperocché in quegli studi, che io, come dissi, abbandonai, egli durò con perseveranza finché ne giunse all'onorata mèta, e maturo non ancora degli anni, ma sì di meriti fu fatto Vescovo. E tornato per questo a quella che ha nome di Romana Curia, ove quasi in ingrato carcere fin dai primi anni miei condussi la vita, ei mi rivide giovane sì che appena appena mi copriva le gote la prima lanugine, e prese sul conto mio le più esatte informazioni, mi fece chiamare che andassi a lui. Io mai non vidi, né credo che al mondo sia uomo di più soavi e più cortesi maniere, pronto e grave ad un tempo, sapiente, virtuoso, modesto nella prospera, forte, costantissimo nell'avversa fortuna. Non ti parlo sulla fede d'altrui: quel che ti dico ho veduto cogli occhi miei. Nella efficacia della eloquenza non è chi possa con lui venire a paragone. Aveva egli in mano la chiave di tutti i cuori: o che parlasse al clero o che al popolo, era sicuro di recare ognun che l'udisse al voler suo. Nelle sue lettere, ne' familiari colloqui era tale schiettezza di parole e di modi, che leggendo o ascoltando tu vedevi a nudo il cuor suo, né t'era mai d'uopo cercare spiegazioni, fedelissima sempre rispondendo la espressione al concetto.

Amante singolarmente de' suoi, liberalissimo cogli amici, soccorrevole ai poveri senza misura, con tutti affabile e grazioso. Quest'uomo dunque che Orazio direbbe tirato a fil di sinopia, e a cui per giunta dato aveva natura tale maestà di volto e di persona che al solo vederlo in una folla avresti detto egli è un principe, poiché due volte ebbe parlato con me, mi prese si forte all'esca de' modi suoi e delle sue parole, che solo si assise in cima de' miei pensieri, né mai ne fu, né potrà mai esserne rimosso. Era egli in sul punto di andare in Guascogna alla sede del suo vescovado: e non avvedendosi, siccome io credo, dell'impero che già esercitava sull'animo mio, invece di comandarmi, mi pregò che mi piacesse andarne con lui: né so bene se a questo il movesse fiducia in me posta senza averne ancora ragione, ond'ei per avventura con quegli occhi di lince poteva sul volto mio aver trovato la sicurezza, o ne fosse cagione quel poco d'ingegno che io m'aveva, e il diletto ch'ei provava dalle volgari poesie, alle quali in quagli anni giovanili assai volentieri io applicava la mente. A lui mi porsi obbediente e lo seguii. Oh! tempo rapido, fuggevole vita ch'è questa nostra. Corre già l'anno quarantesimo quarto da quella state di cui mai per me non altra fu mai più beata. Tornato di colà egli mi fece familiare al reverendissimo suo germano Giovanni, per raro esempio, fra i Cardinali uomo egregio ed incolpabile; a tutti gli altri fratelli suoi, e da ultimo a quel magnanimo vecchio che fu Stefano padre suo, del quale, come di Cartagine scrive Sallustio, meglio è tacere che dir poco. Anzi perdonami tu se, cedendo al piacer mio, io ti annoiai con questo discorso.

Dolce, soave amarezza è quella che io provo nel rinfrescare parlando la memoria indelebilmente scolpitami in cuore di Giacomo Colonna primo de' miei Signori, onore e vanto degli anni miei giovanili, che tanto acerbamente, non dico le speranze del padre e dei fratelli, poco dopo lui e tutti quasi ad un tempo rapiti dalla morte, ma le speranze mie e quelle di tutti i buoni e di tanti altri amici morendo anch'egli fece tronche e deluse. Dalla morte di lui a dritto filo, come Catone dice in Tullio dell'Africano, è questo l'anno trigesimo terzo, e se alcuna efficacia avessero le mie parole, o la fama fosse sempre seguace del merito, direi pure con lui che «la memoria di un cotale uomo si serberà per tutti i secoli avvenire.» Ma basti il fin qui detto a lenire il dolore di questa piaga, e torniamo a Cicerone. Venuto dunque in qualche fama, comeché falsa, d'ingegno, ma più che per essa conosciuto per la grazia che mi accordavano quei signori, io mi procacciai buon numero di amici in molti e diversi paesi, poiché da tutto il mondo convenivano moltissimi stranieri in quella casa.

Or quando questi partivano, e secondo che si suole urbanamente porgevansi volonterosi a prestarmi nelle loro patrie qualche servigio, non altro da quelli io chiedeva che libri di Cicerone, e loro ne dava ricordo in iscritto, ed a voce e per lettere ne faceva e ne rinnovava continuamente le istanze. Né so dirti quante volte a questo fine io mandassi preghiere e danari nelle diverse parti d'Italia ove io era più conosciuto, e nelle Gallie, nella Germania, nelle Spagne, nella Bretagna, e perfino (lo crederai?) nella Grecia: anzi d'onde io sperava aver Cicerone ebbi Omero, il quale, di greco che giunse, a cura e spese mie divenne latino, ed ora fra i latini abita di buon grado in casa mia. Di tutto viene a capo la fatica, come dice Virgilio, e frutto di tante fatiche, di tanti pensieri io raccolsi buon numero di libri venutimi da tutte le parti.

Il più delle volte, erano duplicati di quelli che già possedeva, e assai di rado mi avvenne di riceverne alcuno di quelli che maggiormente desiderava: per guisa che, come accade di tutte le umane cose, mentre di molti soffriva difetto, di altri aveva il soperchio. Mai di quel tempo era stato da me rivolto uno sguardo ai libri santi: perocché accecato da falso giudizio, e dall'orgoglio dell'età, io non trovava nulla di buono da Cicerone in fuori: specialmente poich'ebbi letto le istituzioni oratorie di Quintiliano, di cui sebbene ora non rammenti le parole, né qui abbia il libro per riscontrarle, ricordo la sentenza che dice: di sé poter bene sperare chi del bello di Cicerone assai si piace: la qual sentenza è in quella parte dell'opera in cui trattando della eloquenza e degli oratori, con libero giudizio riprova lo stile di Anneo Seneca, scrittore insigne, ed allora generalmente applaudito. Confermato pertanto nella mia opinione dall'autorità di tant'uomo, se nei viaggi che allora frequentemente io faceva per desiderio di conoscere e d'imparare cose nuove, mi venisse da lungi veduto qualche antico monastero, tosto deviando, io colà rivolgeva il cammino, sperando sempre di trovar ivi alcuno de' libri che avidamente andava cercando. E circa l'anno vigesimo quinto dell'età mia, frettoloso viaggiando il Belgio e la Svizzera, giunto che fui presso Liegi, mi fu detto come in quella città si conservasse buona copia di libri.

Perché fatto sosta, e pregati i compagni che mi aspettassero, vi trovai due orazioni di Cicerone, delle quali una trascrissi io, l'altra feci copiare per mano di un amico, ed ambedue poi da me s'ebbe l'Italia. Al qual proposito ti farò ridere dicendoti che in una città così considerevole fra le straniere, ci lambiccammo il cervello a poter trovare un poco d'inchiostro, e quel poco che trovammo, era giallo da disgradarne lo zafferano. Perduta ogni speranza di trovare i libri De Republica, cercai inutilmente anche quello De Consolatione. Mi detti allora alla ricerca dell'altro intorno alle lodi della filosofia, del quale il desiderio in me s'infiammava non tanto dal titolo che porta, quanto dall'aver letto nelle opere di Agostino, cui già cominciava ad aver per le mani, come quel libro gli fosse stato di grande aiuto alla conversione della vita ed alla cognizione del vero: ond'è che degnissimo mi parve d'esser cercato colla maggior diligenza. E parvemi di aver senza stento imbroccato nel segno, perocché mi venne innanzi, non però il vero libro, ma un frontespizio mentito, e questo a bella posta io qui ti narro a togliere il pericolo quantunque remoto, che tu possa mai cadere nell'errore medesimo.

Io leggeva, leggeva e nulla trovava nel libro che rispondesse a quanto nel titolo si prometteva, perché meravigliando accagionava la pochezza dell'ingegno mio d'una colpa che nasceva solo dall'errore altrui. Ma venutami fra le mani la divina opera di Agostino intorno la Trinità, e postomi a leggerla coll'usata mia avidità, ivi trovai citato un passo, ed era bellissimo, non del libro che io possedeva, ma di quello che credeva di possedere. Rimasi di stucco: e considerando essermi offerto il modo di scoprire il vero, di buona voglia mi misi un giorno a leggere tutto da cima a fondo il mio libro, e non mi venne fatto trovarvi una parola del passo recato da Agostino. Mi vergognai del mio lungo errore, e fui certo che quello non era il libro delle lodi della Filosofia, incerto del vero titolo che gli si aggiustasse, certissimo però che scritto lo aveva Cicerone, il cui divino eloquio non può imitarsi da alcuno. Indi a qualche tempo nell'ultima volta che io mi condussi a Napoli, il mio amicissimo Barbato di Solmona, che forse di nome sarà noto a te pure, consapevole delle mie ricerche, mi fece dono di un piccolo volume di Cicerone sulla fine del quale era il solo principio delle Accademiche, e postomi a leggere, e a farne confronto con quello che si intitolava dalle lodi della filosofia, m'avvidi che questo conteneva due libri, quanti sono appunto, cioè il terzo ed il quarto, che sono veramente il secondo ed il terzo delle Accademiche: opera meglio sottile che utile o necessaria. E così deposi un errore che per lunghi armi mi aveva occupata la mente.

Aveva per mia buona ventura gran tempo innanzi conosciuto un vecchio venerando il cui nome fo ragione che ancora si rammenti in codesta curia: Raimondo Soranzio: e fra le mie lettere avvenne una a lui diretta forse or fa quarant'anni nell'età mia giovanile. Siccome grande giureconsulto ch'egli era, quantunque possedesse una ricchissima biblioteca, dai libri di legge in fuori, non aveva in pregio alcun altro, tranne Tito Livio. Di questo prendeva grande diletto; ma non uso a leggere storie, sebbene dotato di molto ingegno, lo trovava difficile ad essere inteso. Io mi provai a dichiararglielo, e contento egli dell'aiuto che diceva venirgli da me, prese ad amarmi come se gli fossi non amico ma figlio, e meco fu liberale oltre modo nel prestarmi non solo ma nel donarmi ancora de' libri suoi. Da lui ebbi Varrone, e Cicerone, e di quest'ultimo in un volume fra molte altre opere generalmente conosciute erano i libri l'Oratore e delle Leggi, imperfetti come vanno per le mani di tutti: ma oltre questi, due libri rarissimi intorno la Gloria. Avutili, io mi tenni possessore di un tesoro.

Lungo sarebbe il dirti quando, in qual modo, e d'onde io mi procacciassi tutti gli altri, tranne sol uno elegantissimo, a cui malagevole sarebbe trovare l'eguale, rimasto tra le reliquie della mia paterna eredità, e che gelosamente fu custodito dal padre mio, per mia buona ventura sfuggito agli artigli degli esecutori testamentari, non già perché essi volessero serbarlo a me, ma sì perché intenti ad espilare il patrimonio che reputavano assai ricco, disprezzarono il libro come inutile masserizia. In tutti questi nulla, per dir vero, era di nuovo, eccettuati, siccome dissi, i due libri della Gloria, ed alcune orazioni e lettere. Io. però, non volendo inutilmente lottare colla fortuna, come assetato viandante si disseta a povero ruscello, mi consolava della mancanza delle altre colle opere generalmente conosciute. Ma tu farai le meraviglie che interrogato di una cosa io ti risponda di un'altra. Quello che tu chiedevi era come mai avessi io perduto alcuno di quei libri.

 Ed io te lo dirò: ma volli prima averti detto come li procacciassi, perché dalle fatiche durate per l'acquisto, tu potessi far ragione del dolore sofferto nella perdita. Eccomi dunque a quello che tu domandi. Io m'ebbi fin quasi dall'infanzia un maestro che m'insegnò prima a leggere, poi la grammatica e la retorica: ché dell'una e dell'altra ei fu professore e precettore di tanto merito da non trovar facilmente chi gli si agguagli: nella teorica, dico, non nella pratica: che simile alla cote di Orazio, Il ferro aguzza ma non può tagliare. Per sessant'anni continui, siccom'è fama, ei tenne scuola: e il numero de' discepoli suoi è più facile a immaginare che a definire. Fra i quali furono molti valenti uomini illustri per dottrina e per dignità: dottori di legge, maestri in divinità, e vescovi, e abati, e da ultimo un cardinale, che me fanciullo ebbe assai caro in grazia del padre mio, ed essendo Vescovo d'Ostia, ebbe splendore di nome non tanto dal grado e dalle ricchezze, quanto dalla prudenza e dalle lettere. Fra tanti grandi, quel buon maestro, incredibile a dirsi, nessuno amò tanto quanto me che, di tutti era il più meschino. E ognuno se ne avvedeva, né facevane punto mistero egli stesso. Quel Giovanni Colonna Cardinale amplissimo del quale dianzi ho toccato, piacendosi assai della conversazione del vecchiarello sempliciotto, ed eccellente grammatico, con lui scherzava quando veniva a visitarlo, e sorridendo gli domandava: «Maestro, fra tanti scolaroni che sono la tua delizia, v'ha un posticino pel nostro Francesco?»

E quegli, con gli occhi gonfi di lacrime, o nulla poter rispondere, o se potesse, giurare a Dio che mai nessuno di tanti aveva amato quanto questo povero omicciattolo che io mi sono. Il padre mio finché visse, a lui fu largo e liberale: perocché lo premevano vecchiezza e povertà, compagnia molesta assai ed incresciosa. Morto quello, ogni sua speranza si fondava su me. Ed io, impotente a soccorrerlo, mai non venni meno all'affetto ed alla riconoscenza che sentiva per lui: e quando potei, lo sovvenni di danaro io medesimo: questo mancandomi (e fu sovente), l'aiutai di raccomandazioni agli amici, e di sicurtà, o di pegni presso coloro che danno ad usura. Mille e mille volte a quest'uso prese da me o libri, od altri oggetti, che sempre mi riportò: ma finalmente la fedeltà fu vinta dalla miseria. Stretto più che mai dall'inopia, mi chiese quei due volumi, uno venutomi dall'eredità paterna, l'altro dalla generosità dell'amico, ed altri libri con quelli, de' quali diceva aver bisogno per una certa opera intorno a cui lavorava. Perocché soleva sempre cominciarne alcuna, e fatto un magnifico frontispizio, ed una bella prefazione (la quale come prima è nel libro, così deve essere l'ultima a comporsi), volgeva l'incostante e fantastico ingegno ad un'altra. Ma perché sto menando il cane per l'aia? Vedendo che i libri non mi tornavano a casa, e cominciando a sospettare ch'essi fossero stati presi in aiuto non dello studio ma del pane, domandai chiaramente che se ne fosse fatto: e udito ch'erano stati dati a pegno, chiesi chi fosse che li teneva onde io potessi redimerli.

Pieno di rossore e di lacrime si tenne questi sul nego, protestando che sarebbe per lui vergogna il permettere si facesse da me, ciò che far doveva egli solo: tollerassi ancor per poco l'indugio, ed ei compirebbe il dover suo. Offersi allora tutto il danaro che occorreva al bisogno: e questo pure rifiutò supplicandomi che gli risparmiassi una tale infamia: ed io, comeché poco mi fidassi alla promessa, per non contristare il buon vecchio mi tacqui. Intanto, incalzato dalla miseria, ei ripartì per la Toscana onde era venuto, ed io rimasi nella transalpina mia villa presso il fonte della Sorga, ove allora faceva quasi continua dimora, non prima seppi esser egli partito che morto, per la preghiera che mi fecero i suoi concittadini di dettare un epigramma da porsi sul sepolcro di lui, che tardi essi avevano rimeritato dell'onor della laurea e di uno splendido funerale. E per quanto in seguito mi adoperassi a far ricerca del mio Cicerone, poiché degli altri libri m'importava assai meno, non mi venne fatto di averne il menomo indizio, e così conobbi d'aver perduto ad un tempo i libri e il maestro.

Eccoti detto quanto bramavi sapere. Andai un po' per le lunghe, ma mi fu dolce parlare de' vecchi amici con un amico nuovo, cui degno di grande stima mi dimostrano e le sue lettere, e la testimonianza di tale [468] che io tengo infallibile. E qui mi avvedo come 1261 sarebbe cosa conveniente lo scriver daccapo questa lettera tutta piena di sgorbi e di pentimenti. Ma la tua cortesia, fatta ragione della fatica che mi costerebbe, e delle tante faccende mie, vorrà, non che avermene per iscusato, considerare tutte quelle brutture come segni di confidenza e di amicizia.

E statti sano.

Di Arquà, al 27 di aprile.

 

 

 

NOTA

Di questo Luca della Penna cui fu diretta la presente lettera ci contenteremo di dire, seguendo le traccie del cavalier Baldelli, ch'ei lesse giurisprudenza nello Studio di Napoli ai tempi del re Roberto, e che lasciò sugli ultimi tre libri del Codice un commento stampato in Venezia del 1512. Scrisse pure delle Annotazioni sulle costituzioni del Regno, pubblicate per le stampe con quelle di Marino da Caramanico in Lione nel 1533. Era nato nella città di Penna negli Abruzzi, e poiché il citato Baldelli sulla fede dell'Origlia (St. dello Studio di Napoli, p. 183 e seg.) ci fa sapere ch'ei fu sepolto nella chiesa de' Francescani della sua patria, dobbiamo credere che solo precariamente ei si trovasse in Avignone, d'onde aveva scritto al Petrarca per sapere s'ei possedesse alcun'opera di Cicerone oltre quelle che generalmente si conoscevano, abbisognando di tal notizia per una certa opera che stava scrivendo di commissione del Papa. Le scuse colle quali il Petrarca comincia questa lettera, perché gli dava del tu, indicano abbastanza ch'egli era generalmente assai rispettato, e che il nostro autore non aveva con lui grande intrinsechezza. Forse lo conobbe in Napoli del 1341 o del 1343, e d'allora in poi più non ebbe con lui relazione, siccome dà ragione a credere il non trovare nell'epistolario che quest'una lettera a lui intitolata. Della quale poco dobbiamo affaticarci a cercare la data, se rammentiamo che il Petrarca nel 1330 andò con Giacomo Colonna a Lombez, e che questo Giacomo morì del 1344. Imperocché dicendo egli a Luca che dal tempo di quel viaggio corsero quarantaquattro anni, e dalla morte di Giacomo trentatré, non poteva meglio significare che mentre scriveva era l'anno 1374. Notammo altrove un errore di computo nella età del Petrarca che si legge in questa lettera, nato, siccome io credo, per colpa de' copisti, o degli antichi editori; sì perché non può credersi che il Petrarca errasse parlando degli anni suoi, sì perché egli sarebbe in contraddizione con quanto scrive in questa lettera stessa. Egli non contrasse familiarità co' Colonnesi, se non quando fu tornato da Lombez, ed osserva che ciò avvenne 44 anni prima che scrivesse questa lettera, la quale non poteva essere scritta più tardi del 1374, perché questo fu l'anno ultimo della sua vita.

Dunque quei signori ei conobbe nel 1330. Ma egli era nato nel 1304. Aveva dunque 26 anni, e dove è scritto circa vigesimum secundum aetatis annum dominorum Columnensium familiaritatem nactus, si deve leggere circa vigesimum sextum siccome, prima che da noi, era già stato avvertito dal ch. Rosetti. Da questa lettera unicamente abbiamo pure la notizia del viaggio da lui fatto verso il 1329 nel Belgio e nella Svizzera, e del ritrovamento a Liegi di due orazioni di Cicerone, delle quali una è quella pro Archia poeta da lui donata a Lapo da Castiglionchio. Apprendiamo poi da questo lungo racconto a Luca, più che da qualunque altro luogo delle opere del Petrarca, quanto fosse il suo amore per Cicerone, e quante le sue cure nel ricercarne i libri perduti, le quali come fossero coronate da buon successo si vide già nella Nota alla lett. 16 dei Lib. VII. Fam. Quanto al fatto dei libri di letteratura da Petracco gettati alle fiamme, il Villani nella vita del poeta, stampata dal Mehus (vita Ambr. Camald. p. CXCVII.) dice che avvenne a Mompellier. Il maestro del Petrarca che, preso da lui in prestanza il trattato De Gloria dell'Arpinate, lo dette a pegno, e fu causa che andasse irreparabilmente perduto, fu quel Convennole o Convenevole le cui notizie furono da noi raccolte nella Nota alla lettera ai Posteri. Il Cardinale vescovo d'Ostia che amò il Petrarca fanciullo e lo ebbe caro in grazia del padre suo, fu Niccola da Prato, che da Benedetto XI spedito come legato in Italia a veder modo di calmarne le intestine discordie, inutilmente vi si adoperò con tutte le forze a Firenze, e fu consigliere ed aiutatore ai Bianchi nel tentativo che fecero la notte del 19 al 20 di luglio del 1304 per rientrare nella città da cui avevano avuto il bando. Nei diversi parlamenti che si erano tenuti a Firenze alla presenza del Cardinale fra i capi delle parti Bianca e Nera, Petracco era intervenuto siccome Sindaco, onde non è da meravigliare che il Cardinale lo conoscesse assai bene, ed in grazia di lui ne amasse e favorisse il figliuolo. Rammentando la lett. 2 del Lib. I, Fam., diretta a Raimondo Soranzo, egli dice di averla scritta ante hos quadraginta annos, la quale indicazione data nel 1374, riporterebbe al 1334 quella lettera del libro secondo. A noi però sembra giusto il discorso con cui nella Nota alla lett. 1 del Lib. XXIV Fam. stabilimmo che la lettera al Soranzo non poteva essere posteriore al 1330. Osserviamo peraltro che la frase ante hos quadraginta annos vale quaranta e più anni indietro. Nulla dunque impedisce che teniamo per vera la data del 1330 da noi assegnata a quella lettera, poiché ben poteva intendere di quell'anno chi scrivendo nel principio del 1374, diceva quaranta e più anni indietro.