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lettera (III, 8)      a un Amico

 

Scritta nel 1336-1340

ad fontem Sorgie, luglio

 

Lettera scritta ad un amico, perché non presti fede alcune alle pretese divinatorie.

 

(III, 8)  Ad amicum, dehortatoria ne responsis aruspicum aut ullis omnino divinatoribus fides detur.

 

 

Abiciamus, oro, si possumus, et tristem preteritorum memoriam et anxiam solicitudinem futurorum; torquent de nichilo, et geminis velut aculeis vite nostre requiem hinc inde perturbant. Quid anhelamus, quid affligimur? nec transacta mutari possunt, nec venientia previderi. Quid mathematicis opus est, adversus quos non modo sanctorum sed philosophorum et poetarum et omnium vera sentientium clamat autoritas?

Et ut plurium verborum philosophica preteream, pervulgato Maronis testimonio "ignaras vatum mentes" quis ignorat? Scitum est illud Accii:

Nichil inquit credo auguribus, qui aures verbis ditant Alienas, suas ut auro locupletent domos,

nec minus illud Pacuvii vetustissimi poete:

Nam si que ventura sunt provideant, equiparentur Iovi.

Nec tu poetam a propheta putes hac in re diversum; sic enim ait Ysaias: «Annuntiate que ventura sunt in futurum, et sciemus quia dii estis vos».

Favorini igitur doctissimi viri ciceronianum magna ex parte consilium, quo nos uterque ab his omnibus prestigiis atque fallaciis dehortatur, non admittendum modo sed ampliandum censeo. Aut enim promissores hi, qui venturi notitiam pollicentur, adversa falso prenuntiant, et frustra nos inani terrore compleverint; aut vere, et ante tempus miseros fecerint.

Rursus, aut leta vere, et duplex est incommodum: fatigatio expectationis, qua nescio an ulla sit maior, et delibatio gaudii, cum venerit, sive, ut ipse vocat, prefloratio; quod quidem, antequam veniat, sperando et mente preoccupando, iandudum fere consumptum sit; aut falso, et inanem profecto ridiculamque letitiam certum est spei perdite dolore mixtoque simul pudore desinere. Audiendi ergo penitus non sunt impossibilia quidem sibi, nobis etiam inutilia promittentes.

Quid vero? quisque sibi dixisse Cristum putet, quod Amphytrioni Iupiter apud Plautum:

Bono animo es; adsum, Amphytrio, auxilio tibi et tuis.

Nichil est quod timeas; ariolos, aruspices

Mitte omnes; que futura et que facta eloquar Multo adeo melius quam illi,

non quidem

quia sum Iupiter,

ut ait ille, sed quia sum Deus. Ille sane multa nobis ad aurem cordis assidue loquitur, quem si audire voluerimus, facile poterimus horum circulatorum promissa contemnere. Mors certa est; hora mortis incerta, ut omnem horam velut ultimam expectemus; hec salutariter nosse est. Que igitur horum impudentia, que nostra dementia, ut multa caligine obsiti solique Deo cogniti venturi temporis denuntiatione nos crucient?

Est unum, fateor, in hac tota vanitate mirabile, quod cum in reliquis valde veridicus quisque uno aliquo insigni mendacio subeat mendacis infamiam, hic quantumvis mendax, una fortuita veritate veridici famam querit.

Miratur hoc Cicero, aliis licet verbis, in eo libro quo exiguo in spatio divinationem edificat evertitque.

Augustinus autem et sepe aliter et in libro Diversarum questionum maxime adversus eos loquens «qui nunc» ut ipse ait, «appellantur mathematici, volentes actus nostros corporibus celestibus subdere et nos vendere stellis ipsumque precium quo vendunt, a nobis accipere», rationem affert. «Cum autem multa vera», inquit, «eos predixisse dicatur, ideo fit quia non tenent homines memoria falsitates erroresque illorum, sed non intenti nisi in ea que illorum responsis provenerunt, ea que non provenerint obliviscuntur; et ea commemorantur que non arte illa, que nulla est, sed quadam obscura rerum sorte contingunt.

Quod si peritie illorum volunt tribuere, dicant artificiose divinare etiam mortuas membranas scriptas quaslibet, de quibus plerunque pro voluntate sors exit. Quod si non arte de codicibus exit sepe versus futura prenuntians, quid mirum si etiam ex animo loquentis, non arte sed sorte, exit aliqua predicatio futurorum?».

Hec ultima quidem Augustini sunt, que hinc autoritas hominis commendat, hinc fides.

Horum vero fallaciis omnibus quid, putas, aliud viam fecit, nisi vulgaris inscitia et infinita cupiditas, ne dicam rabies, sciendi ea tantum que nec sciri possunt et scire non expedit? Tu ergo genus hoc hominum temerarium et procax ac tranquille vite contrarium fuge, ut, quantum possibile est, brevissimum hoc tempus sine supervacuis et inanibus curis agas. Sic enim habeto: donec superstitionum pondus abieceris, beatam vitam poteris optare, non assequi. Contraria se vicissim trudunt: nunquam metus et felicitas cohabitant.

 

Vale.

 

A un amico, esortandolo a non dar fede ai responsi degli aruspici e in generale a tutti gl'indovini.

 

 

Mettiamo da parte, ti prego, se è possibile, i tristi ricordi del passato e l'ansiosa sollecitudine del futuro; ci tormentano per nulla e quasi con doppia spada ci tolgono d'ogni patte il riposo della vita. Perché affannarsi, perché affliggersi? ciò che è passato non si può mutare, né ciò che verrà si può prevedere. A che servono gli astrologi, contro i quali si scaglia l'autorità non solo del santi ma anche dei filosofi, dei poeti e di tutti quanti amano il vero?

E per tacere la testimonianza di tanti filosofi, chi non conosce le «dei vati ignare menti » di Virgilio? Noto è il detto di Accio:

Agli àuguri non credo, che di ciance

Empion le orecchie altrui, e la lor casa

D'oro fan ricca;

e non meno quello di Pacuvio, poeta antichissimo: Se di quel che sarà fosser presaghi Uguali a Giove creder li potresti. Né in questo i profeti dissentono dai poeti; perché dice Isaia: «Diteci che cosa avverrà nel futuro, e vi avremo in conto d'iddii ». Io credo che non solo si debba approvare, ma anche estendere a più largo significato il consiglio, ciceroniano in gran parte, del dottissimo Favorino, col quale l'uno e l'altro ci ammoniscono a non fidarci di simili frodi ed inganni. Poiché, o costoro che pretendono di svelarci il futuro ci predicono sventure immaginarie, e allora inutilmente ci riempiono di terrore; o ci predicono il vero, e allora ci rendono infelici prima del tempo.

Se poi la predizione è di cose liete, e verace, doppio è il danno: l'attesa snervante, di che nulla è forse più grave, e la diminuzione o, com'egli dice, la deflorazione del gaudio che deve venire; il quale, prima che venga, tra la speranza e l'ansiosa aspettazione quasi svanisce; se la predizione è falsa, la gioia vana e ridicola naufraga nel dolore e nella vergogna della perduta speranza. Non bisogna dunque ascoltare quelli che promettono cose a loro impossibili, a noi inutili. E dunque?

Ognuno faccia conto che Gesù gli dica quello che presso Flauto Giove dice ad Anfitrione: Fa' cuore, Anfitrione; a te, a tuoi Eccomi pronto. Non temer gli aruspici, Gl'indovini discaccia; di lor meglio Assai conosco il futuro e il passato, non «perché io son Giove» com'egli dice, ma perché sono Iddio.

Molte cose davvero Egli dice continuamente al nostro cuore; e se noi l'ascolteremo, facile ci sarà disprezzar le promesse di questi ciarlatani. La morte è certa; l'ora della morte così incerta, che ogni ora possiamo considerare come ultima; questo ci giova aver sempre in mente.

Quale pazzia da parte nostra, quale impudenza da parte loro non è dunque, di affannarsi a conoscere il futuro, avvolto in oscura caligine e noto soltanto a Dio?.In tutte queste vanità una sola cosa, lo confesso, mi meraviglia: che, mentre in ogni altro caso un uomo al tutto veridico per una sola grave menzogna si acquista la fama di menzognero, costoro, sebbene menzogneri, per una verità imbroccata a caso sono considerati veridici. Di questo si meraviglia Cicerone, sebbene con altre parole, in quel libro nel quale, in poche pagine, edifica e distrugge la divinazione.

Agostino, poi, in più luoghi, e più particolarmente nel libro delle Questioni diverse, parlando contro coloro, «che ora» dice «sono chiamati matematici e che, volendo far derivare le nostre azioni dai corpi celesti, quasi ci vendono alle stelle, e da noi esigono il prezzo della vendita», ce ne dà la ragione.

«Poiché si afferma ch'essi molto spesso hanno predetto il vero, avviene che gli uomini non ricordano più la loro falsità e i loro errori, ma considerando solamente ciò che accadde come avevano predetto, dimenticano quello che non avvenne; e ritengono a memoria quelle cose che si avverano non per la loro arte che non esiste, ma per fortuita combinazione.

Che se poi volessero rendere omaggio alla loro abilità, dicano che abilmente sanno divinare anche le morte, antiche scritture, dalle quali spesso si traggono arbitrariamente le sorti. Se infatti senza alcun artificio si trae talvolta da un libro un verso che predice il futuro, che c'è di strano se anche dall'animo di chi parla, non per arte ma per caso, esce una qualche predizione del futuro? ».

Queste son parole di Agostino; e l'autorità e la fede di lui conferiscono loro grande autorità.

A tutti questi inganni che altro credi tu abbia spianato la strada, se non la volgare ignoranza e l'infinita cupidigia, o piuttosto rabbia, di sapere soltanto quello che saper non si può e saper non conviene?

Tu, dunque, evita questa razza d'uomini temerari e audaci e nemici della vita tranquilla, se vuoi, per quanto è possibile, passare questa breve vita senza affanni vani e fallaci. E tieni per fermo che, finché non ti libererai dal peso della superstizione, potrai desiderare, non conseguire una vita beata. I contrari lottano sempre tra loro, e mai possono vivere insieme il timore e la felicità.

Addio.