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lettera (XXII, 10)      a Francesco dei Santi Apostoli

 

Scritta nel 1353-1359

da Milano, il 14 ottobre

 

Lettera inviata Francesco dei Santi Apostoli, dell'alternare gli studi sacri coi profani.

 

(XXII, 10)  Ad Franciscum Sanctorum Apostolorum, de permixtione stili ex literis sacris ac secularibus.

 

 

Animadverti ex epystola quadam tua placere tibi quod secularibus sacra permisceam, idque vel Ieronimo placiturum censes; ea varietatis amenitas, is decor ordinis, ea est, ut asseris, vis iuncture. Quid vis dicam? De reliquis ut videtur iudica, certe nec falli facilis nec fallere solitus, nisi quod qui amant non facile modo, sed cupide falli solent. His ergo omissis, de me dicam deque affectu novo quidem sed iam valido, quo ad literas sacras stilus animusque meus agitur.

Irrideant superbi, quibus divinorum eloquiorum sordet austeritas, et ceu caste matrone cultus parcior offendit oculos meretricis assuetos fucis; ego non permittentibus solum sed plaudentibus Musis et secundo fieri rear Apolline, ut qui iuvenilibus iuventam studiis dedi, maturiorem etatem melioribus curis dem; neque michi dedecori vertendum, si qui totiens ad inanis fame preconium ventosasque hominum laudes surgere soleam, deinceps ad laudes creatoris mei media nocte consurgens quietis tempus somnosque Illi meos fregero, qui "non dormitat neque dormit custodiens Israel", neque universali custodia contentus, me quoque custodit et solicitus est mei; quodque ego in me clare admodum, in se omnes non ingrati sentiunt; ita singulos servat quasi omnium oblitus, ita omnes regit quasi singulorum negligens; denique sic statutum fixumque animo est, si ex alto dabitur, inter hec studia et has curas spiritum exhalare. Ubi enim melius possim aut quid agendo tutius hinc abeam, quam amando et memorando et laudando semper Eum, qui nisi me semper amasset, nichil penitus vel, quod minus est nichilo, miser essem, et si eius amor erga me finem habuisset, mea finem miseria non haberet?

Amavi ego Ciceronem, fateor, et Virgilium amavi, usqueadeo quidem stilo delectatus et ingenio ut nichil supra; alios quoque quam plurimos ex illustrium catherva, sed hos ita quasi ille michi parens fuerit, iste germanus. In hunc amorem me amborum duxit admiratio et familiaritas cum illorum ingeniis longo studio contracta, quantam visis cum hominibus vix contrahi posse putes.

Amavi similiter Platonem ex Grecis atque Homerum, quorum ingenia nostris admota sepe iudicii dubium me fecere. Sed iam michi maius agitur negotium, maiorque salutis quam eloquentie cura est; legi que delectabant, lego que prosint; is michi nunc animus est, imo vero iampridem fuit, neque enim nunc incipio, neque vero me id ante tempus agere coma probat albescens.

Iamque oratores mei fuerint Ambrosius Augustinus Ieronimus Gregorius, philosophus meus Paulus, meus poeta David, quem ut nosti multos ante annos prima egloga Bucolici carminis ita cum Homero Virgilioque composui, ut ibi quidem victoria anceps sit; hic vero, etsi adhuc obstet radicate consuetudinis vis antiqua, dubium tamen in re esse non sinit victrix experientia atque oculis se se infundens fulgida veritas.

Neque ideo tamen quia hos pretulerim, illos abicio, quod se fecisse Ieronimus scribere potiusquam sequenti stilo approbare visus est michi; ego utrosque simul amare posse videor, modo quos in verborum, quos in rerum consilio preferam non ignorem.

Nam quid, oro te, prohibet, diligentis patrisfamilias in morem, supellectilis aliam partem necessitati, aliam ornatui deputare, servorumque alios nati custodie, alios iocis alere? insuper et argenti simul et auri divitem fieri, cum utriusque precium sic noveris ne in alterutro falli queas, presertim cum veteres illi nil aliud me requirant, nisi ne oblivione deleantur et primitiis studiorum contenti, omne iam melioribus tempus cedant?

Id sane cum per me ipsum sic facere decrevissem, te auctore et laudatore fidentius faciam; ad orationem, si res poscat, utar Marone vel Tullio, nec pudebit a Grecia mutuari siquid Latio deesse videbitur; ad vitam vero, etsi multa apud illos utilia noverim, utar tamen his consultoribus atque his ducibus ad salutem, quorum fidei ac doctrine nulla suspitio sit erroris.

Quos inter merito michi maximus David semper fuerit, eo formosior quo incomptior, eo doctior disertiorque quo purior. Huius ego Psalterium et vigilanti semper in manibus semperque sub oculis, et dormienti simul ac morienti "sub capite" situm velim; haud sane minus id michi gloriosum putans, quam philosophorum maximo "Sophronis mimos".

 

Tu vive nostri memor, et Vale.

Mediolani, XIV Kal. Octobris.

 

A Francesco di Sant'Apostoli, dell'alternare gli studi sacri coi profani.

 

 

Da una tua lettera compresi che ti piacerebbe ch'io alternassi gli studi sacri coi profani, e affermi che ciò piacerebbe anche a Girolamo; tanto, come tu dici, è gradevole la varietà, decoroso l'ordine, vigoroso l'innesto. Che dirti? Giudica del resto come credi, tu che non sei né facile né solito a sbagliare, se non sia che chi ama suole facilmente, anzi volentieri ingannarsi.

Lasciando dunque questo da parte, ti dirò di me e di un nuovo e già forte mio desiderio che mi spinge a scrivere di cose sacre.

Mi deridano i superbi, a cui sa di rancido l'austerità delle sacre lettere, come il modesto abbigliamento di una casta matrona offende gli occhi della meretrice avvezza al belletto; io, non solo col permesso ma col plauso delle Muse, e col favore d'Apollo, dopo aver dato la mia gioventù agli studi giovanili, credo di potere dedicare l'età più matura a cure migliori; né mi si deve apporre a vergogna se, dopo essermi tante volte dedicato a esaltare una vuota fama e a blandire la vanità umana, alla fine, sorgendo a mezza notte a far le lodi del mio Creatore, rompa la mia quiete e il mio sonno per Colui, «il quale non sonnecchia né dorme nella custodia d'Israele», e vegliando alla custodia di tutti, anche me custodisce e cura; e questo io vedo chiaramente in me, e lo vedono in sé tutti coloro che non sono ingrati; poiché Egli protegge ognuno singolarmente, come se non si curasse degli altri, e tutti insieme, come se dei singoli non si desse pensiero.

Ho dunque stabilito, se Dio me lo concede, di finir la mia vita in questi studi e in questi pensieri. Poiché, in quale ora migliore e che cosa facendo potrò più sicuramente andarmene di qui, che amando e ricordando e lodando sempre Colui, senza l'amore del quale io non sarei nulla o, quel ch'è peggio, sarei infelicissimo, e s'Egli cessasse di amarmi, infelicissimo per l'eternità? Ho amato Cicerone, lo confesso, ho amato Virgilio, e del loro stile e del loro ingegno mi son compiaciuto più che di ogni altra cosa; altri molti della schiera dei grandi ho prediletto, ma questi due mi furono, quello padre, questo fratello. A tanto amore mi spinse l'ammirazione e la familiarità con. tratta per lungo studio coi loro ingegni, così grande che appena avrei potuto contrarla con persone vive. Ho amato tra i Greci Platone e Omero, i cui ingegni paragonando con quelli dei nostri spesso fui incerto nel giudizio.

Ma ora d'altra e più grande cosa si tratta, e io debbo curarmi più della salute che della eloquenza; lessi quel che mi dava piacere, leggo quel che mi può giovare; questa è ora la mia intenzione, e tale era da un pezzo; poiché non comincio ora, e i capelli già bianchi dimostrano che non comincio prima del tempo. D'ora in poi siano i miei oratori Ambrogio, Agostino, Girolamo, Gregorio, il mio filosofo sia Paolo, il mio poeta David, che, se ricordi, molti anni fa nella prima egloga del mio Carme Bucolico così paragonai con Omero e Virgilio da lasciare incerta la vittoria; ma ora, sebbene si opponga l'antica forza d'un'inveterata abitudine, ogni dubbio mi toglie la mia vittoriosa esperienza e la splendente verità che mi rischiara lo sguardo. Ma se quelli io preferisco, questi non abbandono, come scrisse ma non mi par che facesse Girolamo nelle opere che seguirono; credo di poter amare gli uni e gli altri, sebbene ben sappia quali debba preferire per la perfezione dello stile, quali per la sostanza.

Chi m'impedisce di fare come un buon padre di famiglia, che parte della sua suppellettile destina agli usi necessari, parte all'ornamento della casa, e parte dei servi al servizio del figlio, parte al suo sollazzo? e d'arricchirmi così d'oro e d'argento, pur conoscendone bene il prezzo e non confondendo l'uno con l'altro, specialmente quando quegli antichi non chiedono altro da me se non ch'io non li dimentichi, e contenti delle primizie dei miei studi cedono il posto a migliori di loro? Questo avendo da me stesso stabilito di fare, tanto più volentieri lo farò ora che tu me lo consigli e proponi; per lo stile, se occorra, ricorrerò a Virgilio o a Cicerone, né esiterò a ricorrere ai Greci se qualche cosa non troverò presso i Latini; per la vita, anche se tante cose utili si leggono in essi, userò come consiglieri e maestri di salvezza questi altri, la cui fede e dottrina è senza sospetto d'errore. Tra Questi giustamente considererò primo David, tanto più bello quanto più semplice, tanto più dotto e facondo quanto più puro. Il suo Salterio vorrei di giorno aver sempre in mano e sotto gli occhi, di notte e sul punto di morte sotto il capo, stimando questo per me cagione di gloria non meno che per il massimo dei filosofi i "mimi di Sofrone".

 

Ricordati di me, e sta' bene.

Milano, il 18 di settembre.