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lettera (XIX, 15)      a FRancesco

 

Scritta nel 1353-1359

da Milano, il 31 maggio

 

Lettera inviata a Francesco dei Santi Apostoli

 

(XIX, 15)  Ad eundem Franciscum Sanctorum Apostolorum.

 

 

Poscis ut epystolam de Italie laudibus, quam tibi pollicitus videbar, non subtraham. Enimvero nichil animo meo gratius quam sepe multa tecum colloqui, nec infitior nuper me, dum rura barbarica peragrarem, multa et varia, que de huius laudibus dici possent, inter equitandum cogitasse. Ita michi accidit ut patriam nunquam clarius quam in peregrinatione cognoscerem; et ad summam quam pulcra esset Italia in Germania perdidici.

Et hoc michi epystole principium fuit illius quam reversus magno impetu ceptam, mox destitui, mole rerum pressus et varietate distractus. Nempe ex illo nullus michi fere tranquillus dies, nullum liberi suspirii tempus fuit; quod minime puto mirabere, si Ligurie labores et temporis huius statum ante oculos ponis. In navi equidem tantis iactata tempestatibus intrepidum forte vectorem esse, inconcussum certe non licuit.

Meministi quid Augustinus de se ipso deque hac ipsa urbe in simili rerum statu loquens ait: «Nos» inquit, «adhuc frigidi a calore spiritus tui excitabamur tamen, civitate attonita atque turbata». Quod si illi accidit alienigene et, ut ipse ait, adhuc frigido, quid italico homini, nec iam, Deo gratias, a calore spiritus prorsus algenti, et certe ab annis teneris amore quodam italici nominis supra coetaneos meos omnes, quos ipse noverim, estuanti accidisse extimas?

Ceterum iam celesti favore civitas e multis procellis optate quietis in portum venit multa cum gloria; michi autem de materia quam poscis, et multa utroque stilo sepe occurrit ut scriberem, que ut auguror vidisti et siquid forte nunc etiam hinc scripsero, ante alios videbis.

 

Vale.

Mediolani, Kal. Iunias.

 

Al medesimo.

 

Tu mi chiedi ch'io ti mandi l'epistola in lode dell'Italia, che sembra ti abbia promessa. E veramente nulla mi è più gradito che spesso e a lungo con te intrattenermi, e non nego che, mentre percorrevo le campagne barbariche, molte e varie cose nel cavalcare mi vennero in mente da dire in lode di lei. E cosi mi accadde che non mai cosi chiaramente come in quel viaggio conobbi la mia patria; insomma, m'accorsi in Germania quanto fosse bella l'Italia.

E su questo spunto appena tornato cominciai con grande impeto quella epistola; ma subito la lasciai interrotta, oppresso dalla gravità e distratto dalla varietà degli avvenimenti.

Ché da allora non ebbi quasi più un giorno tranquillo, né un momento di respiro; ciò che non ti farà meraviglia, se riguardi ai travagli della Liguria e alle condizioni presenti.

Su una nave sbattuta da tante tempeste, posso mostrarmi forte nocchiero, ma non indifferente. Ricorda quel che Agostino dice di se stesso e di questa città, allora in una condizione simile alla presente: «Noi, ancor freddi, suscitava la fiamma del tuo spirito, in mezzo allo stupore e allo sbalordimento della città ».

E se questo accadde a uno straniero e, com'egli stesso dice, ancor freddo, che pensi mai debba accadere a me italiano, in cui se Dio vuole la fiamma dell'animo non s'è ancora spenta, e che fino dai più teneri anni per amore del nome italiano superai tutti i miei coetanei?

Ma per favore del cielo questa città dopo molte tempeste è entrata con molta gloria nel porto della desiderata tranquillità. Quanto al soggetto di cui tu mi parli, molte cose e in prosa e in verso mi è occorso spesso di scrivere, e forse tu le conosci; e se altro scriverò, lo leggerai prima d'ogni altro.

 

Addio. Milano, il 31 di maggio.